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Autore: Marceline    16/01/2013    9 recensioni
Anche Marshall pensò che Gumball era bello, e si meravigliò. A differenza del più piccolo, non aveva mai pensato ad un ragazzo sotto un punto di vista diverso. Non si era mai soffermato a guardare le labbra piene e screpolate di un uomo, o le guance vagamente rosa o gli occhi profondi color caramello.
Genere: Drammatico, Fluff, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi, Slash | Personaggi: Gommorosa/Gumball, Marshall Lee
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Marshall si aggirava tra i corridoi pallidi e diafani senza meta. Conosceva quel posto come le sue tasche e ne era sinceramente annoiato. Non che gli dispiacesse stare in ospedale, dopotutto non gli mancava nulla dopo che gli avevano portato la sua fedele play station, ma passare ore e ore chiuso nella sua stanza da malato terminale lo annoiava a morte.
Così si perdeva a passeggiare per l’ospedale salutando infermiere, chiacchierando con vecchietti che con molta fatica sarebbero sopravvissuti alla notte e magari riuscire a scappare sul terrazzo a fumare una sigaretta rubata dalla borsa di sua madre.
Non è che Marshall fosse un cattivo ragazzo, prima di allora non aveva mai fatto un tiro da una sigaretta. Per questo trovava ridicolo il fatto che stesse morendo di tumore ai polmoni. Fumando sentiva di prendersi beffe della morte.
Si fermò davanti ad una porta particolarmente lucida. Si specchiò e notò che i suoi occhi neri erano gli stessi di sempre, anche i capelli lunghi sulla fronte non erano cambiati, i canini sporgenti che gli bucavano sempre il labbro inferiore. L’unica cosa cambiata era che era diventato un lenzuolo. Completamente pallido, le gote spente e le occhiaie bianche, quasi impossibili da vedere se non per il gonfiore. Aveva l’aria di uno che aveva appena vomitato, perennemente. Sbuffò e guardò cosa conteneva quella stanza, sporgendosi sull’oblò di vetro.
La stanza era occupata da un solo letto. Era la solita stanza d’ospedale con il solito paziente a sonnecchiare all’interno. Però non ricordava che quella stanza fosse occupata, magari il tipo era “nuovo” e molto vicino alla morte.
Marshall si guardò intorno, prima a sinistra e poi a destra, e prese la cartella che era attaccata alla porta, sistemata in un apposito spazio. La aprì e lesse.
Dapprima non ci capì un benemerito tubo, poi si concentrò meglio. A quanto aveva capito quel tipo non poteva muoversi, era bloccato da una malattia autoimmune. Leggendo ancora scoprì che non era completamente immobilizzato. Le gambe e il braccio destro erano andati, l’addome li stava seguendo velocemente. Praticamente poteva muovere solo la testa e il braccio sinistro.
Marshall sobbalzò quando l’esse l’età del ragazzo. Sedici anni, addirittura più piccolo di lui. Allora alzò il viso e tornò a guardare all’interno della stanza. Qualcosa era cambiato, si era mosso qualcosa.
Il ragazzo nel letto aveva voltato il viso, facendo scivolare il lenzuolo bianco che gli copriva la maggior parte del corpo. Ora il viso diafano era scoperto, le labbra socchiuse e i capelli rosa sparsi per il cuscino.
Marshall quasi scoppiò a ridere nel vedere quello strano colore di capelli. Quale ragazzo di sedici anni si fa una tinta rosa? La prima cosa che pensò fu che fosse davvero un tipo bizzarro. Tornò a leggere la cartella e scoprì il suo nome “Gumball Prince” e pensò che quello fosse proprio il nome adatto per quel ragazzino.
 
Due giorni dopo, Marshall tornò a vagare per i corridoi. Solitamente non aveva meta, ma questa volta sapeva perfettamente dove andare. Sperava solo che fosse sveglio.
Arrivò davanti alla porta lucida e guardò all’interno. Gumball era sveglio e indossava degli occhiali da vista; stava leggendo un libro grandissimo e lo reggeva solo con la mano sinistra. Marshall arricciò il naso. Ma come gli andava di leggere? Marshall aveva sempre pensato che fosse la cosa più noiosa di sempre; la play station era diecimila volte meglio.
Decise di bussare e di entrare. Che motivo aveva? Okay, non lo sapeva nemmeno lui. Voleva solo parlare con quel ragazzino. C’era la possibilità che sarebbe potuto morire da un momento all’altro. Come lui, del resto. Erano entrambi pazienti terminali, sarebbero diventati buoni amici, no?
Bussò e lo sguardo di Gumball si alzò e si puntò sull’oblò di vetro. Un ragazzo pallido e con i capelli color carbone faceva capolino al di là della porta. Marshall fece un segno di saluto con la testa e accennò un sorriso tutto canini sporgenti.
Gumball si sfilò gli occhiali e gli fece cenno di entrare. Marshall entrò e rimase impalato davanti alla porta, non sapendo cosa dire o cosa fare.
« Se mi sposti le gambe puoi sederti. O puoi anche accomodarti sopra, tanto non lo sentirò. » La voce di Gumball era flebile e fiacca. Marshall pensò che sarebbe sicuramente morto prima lui. E un po’ gli dispiacque.
«Sto bene in piedi, grazie. »Marshall si avvicinò al letto e rimase di fianco a Gumball.
Gumball pensò che quel ragazzo era davvero bello. Indossava una semplice maglietta bianca a maniche lunghe e dei pantaloni della tuta grigi. Quei capelli neri e quegli occhi color pece stonavano con tutto quel candore.
Anche Marshall pensò che Gumball era bello, e si meravigliò. A differenza del più piccolo, non aveva mai pensato ad un ragazzo sotto un punto di vista diverso. Non si era mai soffermato a guardare le labbra piene e screpolate di un uomo, o le guance vagamente rosa o gli occhi profondi color caramello.
« Perché il rosa? » Chiese Marshall con tono innocente, le mani nelle tasche dei pantaloni a vita bassa.
Gumball sembrò rifletterci su. Perché aveva deciso di farsi i capelli rosa? Sinceramente non lo ricordava. Ricordava solamente che un giorno, quando ancora riusciva a camminare, era andato al supermarket sotto casa. Era stufo dei suoi banali capelli marroni e tra lo scaffale stava cercando una tinta stravagante. Tra le varie scatole aveva trovato il rosa e si era detto “perché no?”.
« Perché non il rosa? » Gumball lo disse con le sopracciglia corrucciate, come se fosse una domanda difficile e su cui bisogna riflettere a lungo. Marshall restò spiazzato da quella risposta, o meglio, da quella domanda.
« Il celeste è più bello. »Disse la prima cosa che gli passò per la testa. Gumball sorrise e annuì. Anche i suoi occhi caramello sorrisero e da quanto tempo non lo facevano?
«Quando usciremo da qui mi farai una tinta celeste. »
Ed entrambi tacquero sul fatto che erano nel reparto malati terminali. Tacquero sul fatto che Gumball non sarebbe mai potuto uscire con le sue forze e che Marshall non avrebbe mai potuto respirare l’aria infetta del mondo esterno.
«Ci sto. » E Marshall si sentì completamente svuotato. Gli sarebbe dispiaciuto molto per la morte di quel ragazzo.
 
La madre di Gumball spingeva con forza la carrozzina. Doveva anche far attenzione a non andare troppo forte o la testa di suo figlio si sarebbe accasciata da un lato o dall’altro. Ormai anche il braccio sinistro lo aveva abbandonato.
Entrarono nella stanza in fondo al corridoio. Gumball non ci era mai stato, non si era mai mosso dalla sua di stanza, ma qualsiasi cosa lì dentro urlava il nome di Marshall.
La stanza non era vuota, non era spoglia come la sua. Marshall aveva attaccato al muro un poster  dei My Chemical Romance, sul comodino c’erano fogli stropicciati e per terra c’era anche un joystick, abbandonato a sé stesso.
Gumball sorrise e una lacrima gli solcò il volto. La madre lo lasciò vicino al letto ed uscì dalla stanza, lasciando il figlio da solo.
Ma Gumball non era propriamente solo. La figura di Marshall era ricoperta da un lenzuolo bianco fino al collo, lasciando scoperti solo il volto e i capelli confusi. Sorrise nel vedere la frangetta rosa che gli aveva tinto lui stesso.
E sorrise anche nel pensare che lui aveva i capelli completamente celesti. Pochi giorni prima avevano convinto gli infermieri e i medici, e così si erano tinti a vicenda. Diciamo che Marshall aveva fatto tutto da solo, tra un colpo di tosse e l’altro.
Però aveva preso la mano ormai morta di Gumball e gli aveva fatto stringere il pennello imbevuto di tinta. Lui gli muoveva la mano e passava il pennello, ma a Gumball sembrava di nuovo di riuscire a muoversi.
Tornò a guardare il viso cinereo di Marshall. Guardò quelle labbra viola e si ricordò di quando, timidamente e timorosamente, le aveva baciate. E ricordò anche di come Marshall lo aveva stretto e lo aveva baciato con tutto il fiato che avesse in quei polmoni malati.
Gumball sorrise e pianse. Maledì la vita per avergli strappato via Marshall. Perché aveva dovuto sopravvivere a lui? Perché doveva vivere quegli ultimi istanti di vita senza lui? Ma poi fermò i suoi pensieri. Voleva davvero che Marshall fosse rimasto solo a piangerlo? A quel punto ringraziò la vita per aver fatto morire Marshall prima.
Qualcosa attanagliò la gola di Gumball. Gli stringeva la bocca dello stomaco e la testa, aveva bloccato il flusso dei suoi pensieri.
Chiuse gli occhi e perse l’equilibrio, scivolando in avanti e facendo crollare la testa sul petto freddo di Marshall.
Sorrise e smise di respirare.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Non ho molto da dire.
Era da un po’ che volevo scrivere qualcosa su loro due. Non volevo scrivere nulla di triste ma la mia mente mi ha imposto di ascoltare The Black Parade dei My Chemical Romance mentre scrivevo e si sa che quel cd smuove sempre qualcosa di malsano in me.
Spero di non aver oscurato lo sfolgorante fandom di Adventure Time.
E spero anche di leggere qualche recensione.
Con affetto, Marceline- Flavia.
  
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