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Autore: Notthyrr    16/01/2013    2 recensioni
[Narfi; Loki; Heimdall]
'Quel luogo non è la destinazione di una gita turistica'
In quel luogo è facile perdersi.
Quel luogo, tutti lo possono raggiungere.
Da quel luogo, non sempre si torna indietro…
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Fables of Asgard'
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Era solo la seconda volta che usavo il Bifröst e non potevo certo definirmi abituato: mio padre mi aveva insegnato a teletrasportarmi con una rapidità invidiabile, ma, in quel modo, potevo raggiungere soltanto luoghi che avevo già visto in precedenza.
Così, spossato e appena presente a me stesso, il Bifröst mi aveva abbandonato sul duro ghiaccio del confine.
Mi ritrovai disteso a terra, il freddo che mi penetrava sotto la pelle sino alle vene e mi trapanava il cervello ogni volta che prendevo il respiro.
Lentamente, quando smise di girare, alzai la testa per vedere cosa mi circondasse. Mi occorse un po’ per mettere a fuoco il paesaggio, che i miei occhi mescolavano in una macchia nera e azzurra: tutto era di pietra scura, mentre il ghiaccio dell’inverno si arrampicava su alte colonne e pendeva dalla primitive grondaie delle abitazioni. Qua e là, si scorgevano ancora le tracce dello scontro di qualche ora prima.
Mi si rivoltò lo stomaco: non ero abituato a scene del genere e, Jotunheim, davvero non me l’aspettavo così. Forse Loki aveva ragione: non sarei mai dovuto venire.
Scossi violentemente il capo per scrollarmi di dosso quel pensiero assieme al ghiaccio che m’ imbiancava e inzuppava i capelli neri, poi mi tirai in piedi e cominciai a camminare, prestando attenzione a non scivolare.
Presto, mi trovai a camminare tra le vie di una città in rovina, dove gli abitanti si rintanavano nelle loro case nel buio che aleggiava su quel luogo, il respiro che mi si condensava davanti agli occhi in nuvolette di vapore bianco.
Ogni tanto rivolgevo lo sguardo verso la zona in cui mi aveva lasciato il Bifröst, convito che Heimdall potesse vedermi e sapesse quando fosse stato il caso di riportarmi indietro.
Che illuso che ero! Con tutta probabilità, in quel momento il guardiano stava sedendo e brindando assieme agli altri…
Mentre camminavo col ghiaccio che scricchiolava sotto i miei piedi, un rumore di passi alla mia sinistra mi riscosse da quei pensieri.
Allarmato, mi appiattii contro una colonna, sgusciando in una fessura tra essa e una casa diroccata e accucciandomi nel buio. Davanti a me, vidi arrestarsi tra paia di piedi blu come il mare che pestavano agitati il suolo ghiacciato. Voci cupe e profonde mi giunsero all’orecchio, ma parlavano una lingua dai suoni gutturali che io non conoscevo.
Poi, quando anche l’ultimo Jötun si allontanò, vidi strisciare all’altezza dei miei occhi un corpo sproporzionato, diverso dalle persone che conoscevo, e dal solito colorito bluastro, tipico dei giganti del ghiaccio. Intimorito, mi strinsi ancor più su me stesso, prima di rendermi conto che quel corpo sgraziato era in realtà trascinato da un altro gigante e i suoi inquietanti occhi rossi, benché fossero puntati verso di me, erano spalancati e privi di vita.
Irrequieto, scorsi lo sguardo su quel cadavere fino a individuarne le cause della morte: sul collo, si apriva una larga ferita, dritta e profonda, ancora sporca di sangue rosso e raggrumato agli angoli.
Mi portai una mano alla bocca, il disgusto che pareva premermi sullo stomaco: doveva averlo ucciso mio padre; un taglio così preciso era inconfondibile. A pensarci, il mio stomaco ebbe un’altra contrazione e dovetti uscire dal mio nascondiglio per prendere aria: era così facile spezzare una vita? Per mio padre… per la mia famiglia… era così semplice uccidere? E io, se ero cresciuto assieme a loro, perché non riuscivo a concepirlo? Perché lo trovavo abominevole?
Guardando il drappello di Jötnar scomparire dietro una delle tante rovine, aspettai che la nausea si quietasse per poi prendere la strada opposta.
Mi piaceva esplorare nuovi luoghi: dai corridoi di Asgard alle vie di una nuova città, ricordavo con precisione ogni via che percorrevo, un prezioso lascito di  mio padre, probabilmente. Quel luogo, però, mi metteva paura.
Il sentiero lungo il quale stavo avanzando si ricongiunse alla strada principale che avevo abbandonato poco prima, così mi ritrovai a procedere verso il cuore della città.
I miei occhi correvano lungo le costruzioni in pietra nera, cercando tonalità più chiare che tradissero la presenza di qualche Jötun, ma tutto pareva immobile, congelato in un irreale silenzio.
Raggiunto uno spiazzo arroccato su un’altura, mi fermai per capire dove fossi: davanti e attorno a me sorgevano le mura di un antico palazzo la cui torre, alta e unica come un campanile gotico, saliva affilata a squarciare le nubi del cielo.
Su di essa, scorsi un bagliore rosso lampeggiare contro lo sfondo nero. Spaventato, temetti di essere incappato in una nuova minaccia e retrocedetti di un passo, tenendo fisso lo sguardo sull’oscurità che di tanto in tanto inghiottiva quell’innaturale cremisi. Se sulla torre si fosse trovata una sentinella, sicuramente già mi aveva visto e, nel buio che quella postazione gli offriva, avrebbe potuto dare un silente allarme per allertare gli altri della mia presenza.
Deciso a evitare quel guaio, feci per volgermi e fuggire: se fossi riuscito ad allontanarmi, Heimdall mi avrebbe riportato a casa.
Ma era già troppo tardi.
 

Not the way I pictured this, I wanted better things…

 
Mi sentii afferrare le spalle da una robusta presa, mentre davanti a me compariva una figura blu. Nel mio campo visivo entrò la punta di una rozza lancia di legno, poi, prima che potessi reagire in qualche modo, la mia visuale si tinse di rosso e un dolore folle mi esplose su una spalla, soffocandomi in gola il grido che stava per uscirmi dalle labbra, contratte in una smorfia.
Quando tornai a vederci normalmente, mi accorsi di aver indovinato la natura del bagliore vermiglio in cima alla torre: un terzo Jötun si era infatti affacciato al parapetto e mi guardava col volto mostruoso deturpato da un crudele sorriso.
«Ti sei perso, piccolo Asgardiano?» mi arrise. «I tuoi compagni ti hanno abbandonato qui?»
La gelida pelle del gigante alle mie spalle mi fece scorrere un brivido lungo la spina dorsale — o era solo paura? —, ma strinsi i denti e non risposi. La presa si fece più forte.
«Se fossi in te, sputerei quell’enorme rospo che ti tieni in bocca. Oppure potresti finire congelato…»
Chiuso nel mio ostinato silenzio, mi maledissi per la mia caparbietà: avevo sbagliato tutto! Aveva ragione mio padre! Aveva sempre ragione lui…
Vidi lo Jötun sulla torre pronunciarsi in un elegante gesto, prima che la stretta che mi bloccava al mio posto cambiasse d’intensità. Avvertii la presenza di energia magica e compresi quale fosse la loro intenzione. Poco passò, però, prima che l’espressione sicura sul volto della sentinella mutasse, sgomenta.
Sentii il gigante alle mie spalle ritentare il sortilegio, ma fallì ancora miseramente: per quanto si sforzasse di inoculare i suoi poteri nel mio corpo, la mia pelle restava calda. E bianca.
Mio padre mi aveva spiegato anche questo, tempo fa; era uno dei tanti motivi per cui gli Asi lo avevano annoverato tra loro e se ne servivano: mentre la pelle degli Asgardiani veniva ghiacciata dal tocco degli Jötnar, discendendo noi direttamente dai giganti, eravamo immuni alla loro magia; un’arma eccezionale per massacrare i nostri simili.
Al riparo sulla sua torre, la sentinella sorrise lievemente, come se in quel piccolo equivoco avesse scorto un’opportunità: «Oh… chi lo avrebbe mai detto?» mormorò massaggiandosi il mento. Si sporse oltre il parapetto e io avvertii quei suoi brucianti occhi rossi piantarsi su di me, accusatori: «Tuo padre è stato qui poco fa e ha mietuto vittime a non finire, lo sai questo?»
Irritato dal tono del gigante, sostenni il suo sguardo, ma non cedetti a lasciar uscire una sola parola: la sua fama, la reputazione di mio padre che era giunta fin lì, aveva coinvolto anche me. Dovunque fossi andato, avrei dovuto aspettarmi quell’etichetta sulla fronte: Narfi; il figlio di Loki. Mi chiesi che cosa dovesse provare mio padre: detestato ad Asgard per i suoi misfatti, odiato nella sua terra natia perché traditore. Se, come me, se lo era mai chiesto, quale aveva ritenuto casa sua?
Davanti a me, la sentinella levò una mano sulla quale si disegnò un fiore di ghiaccio dalla punta acuminata. Lo accarezzò: «Non saremo pari se io mi prendessi te? Un piccolo uno a ripagare i cento che ho perso oggi?»
Tentai di divincolarmi, l’istinto che voleva farmi fuggire a quella minaccia. La vista mi si appannò ancora, prima che un dolore bruciante mi cogliesse, quasi piegandomi le ginocchia, facendomi ritrovare con uno squarcio anche sul petto.
Il gigante che mi stava di fronte ghignò soddisfatto.
«Tuo padre ti ha lasciato venire qui senza opporsi?»continuò la sentinella con simulata incredulità. «Deve tenere davvero poco a te… per mandarti a morire proprio qui.»
La rabbia cieca che mi bruciava in petto fece per emergere, assieme a un grido: non era vero! Non era affatto vero! Era tutto il contrario! Era solo colpa mia! Mia! Non di mio padre! Lui voleva fermarmi! Lui… mi voleva bene…
Quell’urlo, folle e patetico, che sarebbe uscito strozzato e ridicolo fu smorzato dalla sorpresa, quando un lampo bianco e puro aveva diviso il cielo in due, attirando su di sé l’attenzione dei tre Jötnar.
Il Bifröst! Gridò la mia mente rattrappita dal freddo. Heimdall è venuto a salvarmi!
Quando il potente rumore — come di suolo sul quale si apre una larga faglia — che aveva seguito la forte luce si fu attenuato, però, una figura nera contro il pallido candore della neve apparve sfuggente ai nostri occhi, prima che una lama corvina — non dorata — recidesse di netto la testa dello Jötun che mi tratteneva. Sentii il suo corpo cadermi addosso, sporcandomi di sangue il viso e i capelli. Poi ci abbattemmo entrambi a terra con un tonfo sordo.
Il gigante che invece mi fronteggiava ebbe appena il tempo di lasciarsi sfuggire un gemito, prima che la sua stessa lancia gli venisse strappata di mano e gli trapassasse lo sterno, per poi lasciarlo scivolare di lato, privo di vita.
La figura che avevo visto muoversi rapida e uccidere i due giganti si chinò alla mia altezza: avevo la vista appannata dalle ferite e la coscienza annebbiata, ma non potei non riconoscerla.
Mio padre. Non Heimdall: Loki.
Il dio dell’inganno mi liberò dal peso del gigante che mi era crollato addosso, mi aiutò a mettermi in ginocchio e mi abbracciò con forza; con affetto. Come mai aveva fatto prima.
Travolto da un torrente di emozioni, scoppiai in lacrime come un bambino di pochi anni: «Papà… perdonami… Heimdall ti ha… ti ha detto tutto? Heimdall mi ha salvato?»
Loki scosse il capo. Tremava, ma i suoi occhi bruciavano di odio: «Me lo ha detto Moði. Il guardiano è rimasto al tavolo a ubriacarsi!» mi rivelò con sprezzo. Poi mi abbracciò ancora, quasi non mi credesse vero, e io non potei fare a meno di rivolgere un pensiero al figlio di Thor: quello che in un’altra occasione avrei considerato uno spione era diventato il mio salvatore.
«Sai che questo è un atto di guerra.» proruppe la creatura in cima alla torre in un gelido sussurro.
Alzai lo sguardo su di lui, ma il gigante era rivolto a mio padre, che si parò tra me e lo Jötun. «Quello che è stato attaccato è mio figlio.» si giustificò. «È priorità per me difenderlo. Se non foste stati voi a fare la prima mossa, lui se ne sarebbe andato da solo e senza far danno.»
Il dio gli volse le spalle e mi sollevò, prendendomi tra le braccia; dovevo essere pesante, ma a lui non importava.
Sopraffatto dal dolore e dalla stanchezza, feci in tempo ad accorgermi che il paesaggio attorno a noi stava mutando, il ghiaccio di Jötunheim che stemperava nei verdi prati di Asgard, prima di cadere in un sonno profondo. Ero al sicuro, ero tra le braccia di mio padre. Quel viaggio che mi era parso durare eoni era finito.
E io ero salvo, in quel luogo che sapeva di casa.
Che era casa mia.
 

Forgive me for my crimes. Don’t forget that I was so young, but so scared…




 

Note: Perfekt. Anche questo capitolo è finito e con lui tutto il racconto (meno male, direte voi).
Trattandosi per lo più di un testo descrittivo, se non per l'ultima parte, credo ci sia ben poco da dire a riguardo, dunque non sto qui a ribadire ovvietà. 
I due frammenti in corsivo viola vengono dalla canzone M.I.A (Missing in Action) degli Avenged Sevenfold, che consiglio vivamente.
Detto questo, grazie per la lettura. Aspetto un'opinione.
Grazie

~Notthyrr

  
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