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Autore: AliceInHeartland    16/01/2013    0 recensioni
Un gatto freddo, cinico, distante, che oramai ha perso la fiducia sia nei suoi simili e soprattutto negli esseri umani.
Un gatto solo.
Una bambina dolce, gentile e nel contempo forte, che a causa della sfortuna e della sua salute ha perso quasi ogni cosa.
Una bambina sola.
Il Fato li farà incontrare, li farà conoscere...li farà innamorare.
Sì, è così: Sasha ama la piccola Rina. Ma è così doloroso non poterle rivelare i suoi sentimenti, non poterla vedere da sua pari... non poter essere un umano per poterla amare da umano.
Ma un topo, una strega ed un incantesimo lo aiuteranno a superare il confine della diversità che lo separa dalla sua amata.
Tuttavia basterà abbandonare per così poco tempo le sembianze feline perché vada tutto bene? Purtroppo il filo rosso che li lega è troppo sottile. Presto o tardi potrebbe spezzarsi...
Questa è la storia dolce-amara di un amore impossibile che supera le barriere dell'assurdo e della realtà, grazie ai sentimenti che uniscono i due.
Una fiaba?
Oh no... Questa è semplicemente la loro storia...
Genere: Fantasy, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Salve a tutti, cari lettori!
Sono Alice e sono felicissima di conoscervi tutti! *saluta con manina*
Ordunque la storia che vi porto qui oggi è una storia particolare. In realtà ero molto indecisa se inserirla tra le "favole", tra le "romantiche" o il "fantasy" perché unisce un pò di tutti questi elementi, ma alla fine ho scelto quest'ultima sezione perché anche se l'elemento decisamente fantasioso è praticamente la colonna portante di tutta la trama, in pratica il tema fondamentale è l'amore in questa storia ...
Ad ogni modo questa particolare storia che vi appresterete a leggere parla di un amore impossibile che vi è tra un gatto ed un essere umano. Perché sì, l'amore non è aspetto fisico, né sesso, né altro... L'amore è l'insieme dei sentimenti che si può provare sicuramente per un proprio simile, ma anche per un animale, che a volte può darti tanto, e forse anche più, di una persona qualsiasi. Tuttavia il nostro bel protagonista felino, pur di riuscire a sfondare la barriera che la separa dalla sua "bella", attua un piano grazie a qualche aiutino e beh... Così sforiamo al secondo capitolo, ma... era giusto per farvelo sapere ahah XD
E' una storia un pò malinconica e triste, vi avverto, ma ho fatto del mio meglio per non appesantirla più di tanto.
Avverto già da ora che, al contrario di un pò tutte le opere in cui mi sono cimentata fino ad ora, questa storiella conterà un massimo di tre capitoli, quindi... 
Quindi vi auguro una buona lettura e spero tanto che vi piaccia!
Un bacione!

Alice

***





C’era una volta un gatto da un occhio solo.
Si trattava di un gatto randagio che veniva chiamato così sia dai suoi simili, che dagli umani che abitavano nei pressi della zona dove era solito aggirarsi, proprio a causa del fatto che avesse un solo occhio. L’altro lo aveva perduto quando era ancora un piccolo gattino: sua madre era morta quando lui e i suoi fratelli avevano poco più di tre mesi, nel tentativo di recuperare del cibo per i suoi piccoli; oramai soli, per naturale istinto di sopravvivenza i suoi quattro fratelli si erano raccolti in gruppo e avevano iniziato ad aggirarsi per le strade della città in cerca di cibo e di luoghi sicuri ove potessero essere certi di non dover temere nulla e nessuno. Essendo lui il più malaticcio e sostanzialmente il più debole della prole non era mai riuscito più di tanto a farsi spazio tra gli altri ed era rimasto indietro, respinto da quei fratelli per cui sarebbe stato nient’altro che un peso e che non avevano mai accennato a dividere con lui quel poco di cibo che erano riusciti a trovare in natura o tra i rifiuti degli uomini.
Abbandonato a sé stesso, solo ed unicamente grazie allo stesso istinto di cui Madre natura aveva fatto dono alla maggior parte degli esseri presenti sulla Terra, era riuscito a sopravvivere. Ma la sopravvivenza per una creaturina debole come lui in un mondo crudele e selvaggio come quello non poteva di certo essere gratuita. Il prezzo che aveva dovuto pagare era stato il suo ambrato e bellissimo occhio sinistro che aveva perso mentre, per sfuggire a un cane – anch’esso randagio – , al quale aveva rubato un pezzo di carne, si era rifugiato su un albero attendendo che il pericolo passasse. Suo malgrado, anche quando il cane se fu andato, la minaccia di pericolo non scomparve: ancora inesperto e debole da giorni a causa della fama, aveva incespicato tra i fitti e aggrovigliati rami dell’albero, e perdendo l’equilibrio era infine caduto su un cumulo di pietre, una delle quali, dallo spigolo rialzato, aveva riscosso il “prezzo” che il felino aveva dovuto pagare per continuare a sopravvivere.
Col passare dei giorni e dei mesi, però, il gattino aveva imparato ad essere più cauto, a convivere col suo occhio non più utilizzabile e, riuscendo a superare le iniziali difficoltà ed acquistando quella necessaria esperienza di cui necessita un randagio per superare le avversità che lo circondano, aveva raggiunto e superato il primo anno di età, non soccombendo così alla sorte cui sembrava destinato sin da quando era venuto al mondo.

Un giorno come tanti, il gatto da un occhio solo se ne andava gironzolando distrattamente per le strade della città, col suo occhio oramai cicatrizzato, che teneva chiuso da quando era avvenuto l’incidente. La cicatrice diagonale era decisamente visibile e partiva da poco più sotto del sopracciglio fino all’altezza del roseo nasino.
Avendo già provveduto a procurarsi e consumare la dose quotidiana di cibo, non aveva niente di meglio da fare che vagare senza una meta precisa per la zona del quartiere meno affollata e più residenziale, com’era solito fare ogni pomeriggio. Quando poteva, cercava di evitare sia i suoi simili, che gli umani. Era un gatto solitario, lui, a cui non piaceva particolarmente la compagnia, non essendovi abituato sin da quando era stato costretto alla separazione dai fratelli da parte degli stessi.
Per questa ragione non sopportava i felini come lui. Meno ancora le altre razze animali. Ma quelli che sopportava meno di tutti erano gli esseri umani.
Gli uomini, a suo avviso, erano ipocriti e discriminanti. Quelli che dicevano di adorare i gatti – ed in generale gli animali –, perlomeno. E di questa orribile specie ne esistevano ben due tipi: il primo tipo di umani (da lui chiamati “gli illusi”) teneva in casa e si prendeva cura dei gatti di razza che aveva magari acquistato in un negozio di animali, disprezzando invece quelli che si trovavano per strada. E questo perché? Perché quelli che avevano in casa erano di “sangue puro”, oppure perché il loro pelo era più liscio o il loro colore più bello, o il loro portamento più elegante.
Tutte stupidaggini. Inutili stratagemmi, tipici degli uomini, per accrescere il loro pavoneggiarsi e l’illusoria consapevolezza di possedere qualcosa di valore, rispetto a qualcun altro che non la possiede.
Il secondo tipo di umani (da lui chiamati “falsi caritatevoli”) era forse la categoria che odiava più di tutte, di quelle degli uomini: essi andavano decantando un universale amore per tutti gli esseri viventi e, con l’unico scopo di mettersi a posto la coscienza o di sanare un qualche vuoto incolmabile, con falsa carità verso gli animali si dimostravano gentili anche con quelli randagi, dando loro del cibo e prendendosene cura quando era possibile e quando la cosa andava loro a genio.
Ma nonostante in un primo momento avesse avuto fede in loro, il gatto da un occhio solo aveva presto avuto modo di capire com’erano in realtà i falsi caritatevoli, quando lo avevano scacciato e allontanato a causa del suo occhio mancante. Disgustati da quella diversità, più volte lo avevano cacciato via in malo modo (a volte semplicemente a parole o a gesti, a volte anche procurandogli  delle ferite) negandogli quello che, invece, agli altri randagi “completi” era stato offerto con generosità. Una generosità falsa, ma pur sempre di generosità si trattava.
Era per questo che lui preferiva starsene da solo.
Com’è che dicevano gli umani? “Meglio soli che male accompagnati”? Ecco, per una volta, almeno, il randagio pensò che avessero più che ragione.
Andava bene così. Non se n’era mai posti di problemi: lui non cercava gli altri e gli altri non cercavano lui. Aveva imparato che a quel mondo fidarsi di sé stesso e delle proprie capacità era un lusso già troppo grande da permettersi, ma – come questo – aveva anche imparato ad essere un po’ egoista e a concedersi questo lusso in più.
Per questo stava bene. Stava bene così come stava: lui, da solo, a passeggiare sotto il sole del primo pomeriggio in quella zona praticamente deserta.
Frequentando quella zona del quartiere praticamente ogni giorno, aveva oramai assodato, capito e impresso nella mente che, quando più o meno il sole raggiungeva un determinato livello, gli umani – che solitamente riempivano quelle strade fino a poco prima, ostruendole e rendendole per lui inaccessibili – scomparivano d’un tratto ed eccezione fatta per qualche caso straordinario, le strade risultavano per la maggior parte deserte.
Un paradiso, insomma, se non fosse, per l’appunto, per quei “casi straordinari”.
Uno di questi “casi straordinari” stava sempre nello stesso luogo, alla stessa ora di ogni singolo giorno.
Il gatto da un occhio solo ci aveva quasi fatto l’abitudine a vederla lì, come fosse parte integrante del paesaggio: una bambina dal corpo minuto, i capelli color pece a caschetto, che le scendevano morbidi sulle rosee guanciotte, e gli occhi di un verde pallido, se ne stava seduta con aria malinconica sull’altalena del parco-giochi abbandonato da tempo da tutti i bambini del quartiere, oramai malandato e fatiscente. Ad esagerare, la bimba poteva avere non più di una decina d’anni, anche se a vederla, ne dimostrava a stento otto. Dondolava appena, aiutandosi con la punta dei piedi. Non le serviva altro, anche perché probabilmente il suo intento non era divertirsi con l’altalena. Non lo era quel giorno, come non lo era stato quelli passati.
In fondo come “caso straordinario” non era poi tanto fastidioso, doveva ammetterlo. Da quel che ricordava, non l’aveva mai sentita parlare, e non faceva che restarsene lì per ore, finché il sole non era prossimo al tramonto. E solo allora si decideva a muoversi per tornare con ogni probabilità alla sua casa.
Già, era sempre così… Il suo sguardo era indirizzato al terreno e mentre con una manina stringeva una delle due catene che collegavano il sellino dell’altalena all’asta di ferro che sorreggeva l’intera giostra, con l’altra…

Una sorpresa.
… con l’altra stringeva al petto un peluche piuttosto malconcio.
Oh, questa sì che era una novità! Le altre volte non gliel’aveva mai visto quel pupazzo, anche se sembrava bello vecchiotto per poter essere un regalo appena ricevuto…
Quest’ultimo aveva sicuramente sembianze animali – anche se il randagio faticò a riconoscere di quali animale potesse trattarsi –, ma era usurato in più parti: la zampa posteriore destra e quella anteriore sinistra erano state chiaramente ricucite, ad una delle due orecchie mancava una parte, il panciotto era parecchio rovinato e poi…
Il gatto da un occhio solo, appostatosi sul muretto di una villa che dava proprio di fronte al parco-giochi abbandonato, prestò tutta la sua attenzione a quell’essere inanimato, stretto tra le braccia della bambina. Si accovacciò pian piano ed accigliò lo sguardo, quasi per poter constatare qualcosa di cui s’era già reso conto, senza però essere certo ancora di ciò che aveva visto.
No, non ne era sicuro… Forse stava solo facendo un errore, ma… Come poteva accertarsene?
Troppo tardi. Il felino era già sceso dal muretto privato e aveva iniziato a dirigersi verso quel luogo di divertimenti oramai in rovina.
Bene, quel giorno doveva annotarselo come la giornata delle novità. Ebbene sì, cosa strana era che proprio lui, che più di tutti, più di ogni cosa, desiderava evitare non solo i suoi simili e gli altri animali in genere, ma a maggior ragione gli esseri umani, stava compiendo l’audace impresa di avvicinarsi a quell’umana che da chissà quanto tempo osservava ogni pomeriggio con assiduità degna di uno studioso.
In realtà, in cuor suo, sapeva di star facendo un errore. Sapeva che probabilmente presto o tardi se ne sarebbe pentito. Più di una volta il suo sesto senso lo avvertì: una vocina lì dentro, la sua coscienza, il suo istinto – o, chissà, forse il grillo parlante – gli intimò di tornare indietro, di tornare sui suoi passi. Forse perché quell’istinto donatogli dalla Natura, degna pari del Fato, lo sapeva che cosa avrebbe comportato la sua azione, cosa ne sarebbe conseguito e cosa ne avrebbe scaturito. Quell’istinto tentò in ogni modo di fermarlo, in ogni modo, ma non ci fu nulla da fare. Proprio nulla. Non si fece guidare né dall’istinto, né dalla ragione, né dalla paura. Da nulla di tutto questo.
E chissà, forse per curiosità, forse per incoscienza, o forse per tutte e due, il gatto da un occhio solo si trovò a qualche metro di distanza dalla piccola umana, ancora intenta a guardare assorta il terreno come se vi fosse un messaggio da decifrare e interpretare, così persa nel vuoto che si era persino dimenticata di darsi quella flebile e occasionale spinta con a stento la punta del piedino.
Il randagio, allora, sicuro del fatto che la bimba fosse troppo assente per accorgersi di lui, attinse ad un’altra buona dose di coraggio e si fece avanti quatto quatto, sbucando appena dal cespuglio nei pressi della siepe, dietro il piccolo scivolo alla sinistra dell’altalena. Quindi prese a fissare nuovamente quel pupazzo, accigliando l’unico occhio che gli rimaneva: ci aveva visto giusto. Al pupazzo, che sembrava avere le sembianze di un coniglio, mancava anch’esso un occhio, quello destro, però. Anzi, a dire il vero anche quello non sembrava dovesse reggere ancora per molto, però fatto stava che si trovava ancora lì, al suo posto. Più o meno.
La cosa lo stupì e lo fece rimanere perplesso. Parecchio perplesso.
Quel pupazzo, nel complesso, era davvero orribile. In realtà il randagio dubitava che fosse stato bello o tenero anche da nuovo, ma, cielo, sicuramente lo era stato in confronto a quel momento. E certamente non pensava che quello fosse il più bel peluche disponibile sul mercato. Possibile che fosse povera e non potesse averne di nuovi? Ne dubitava, anche se non poteva escluderlo. Eppure i vestiti di lei non erano affatto degli stracci. Li aveva visti, lui, i veri poveri uomini – anche bambini –, coperti da vestiti laceri e puzzolenti, avvolti nel cartone per proteggersi dal freddo e dalle temperature troppo basse, e senza una casa in cui alloggiare. E quella bambina non sembrava affatto una poverella. Proprio per niente, anche se non poteva averne alcuna conferma.
Allora perché? Perché stringeva tra le braccia quel peluche malandato e brutto? Non sarebbe stato meglio averne uno nuovo? Perché invece sembrava stringerlo a sé come fosse la cosa più importante per lei, come fosse un tesoro inestimabile?
Non riusciva proprio a spiegarselo, né a capire il senso di quella situazione.
La cosa era talmente strana… Ne aveva visti di bambini in giro, ma tutti quelli che portavano con loro dei pupazzi si vantavano con gli altri cuccioli umani di come il loro “trofeo” fosse bello, morbido o costoso.
Quel pupazzo malandato, invece, non era né bello, né apparentemente morbido o costoso, e né tanto meno avrebbe potuto costituire un “trofeo” da esibire, ovvero di cui ostentare il valore o la qualità.
Quindi perché? Perché sembrava così maledettamente felice nell’essere stretto da quelle braccia innocenti? Quel sorriso ingenuotto sulla faccia del leprotto gli fece venir voglia di saltargli addosso e strappargli a morsi qualche pezzo del corpo già tremendamente malridotto.
Perché quel leprotto era così felice, mentre lui no? Non era giusto! Anche a quel rudere mancava un occhio e, anzi, presto gli sarebbe mancato anche l’altro, quindi… perché? Perché persino quelli come lui, o peggio di lui, riuscivano ad essere più felici?
Il gatto da un occhio solo non poté che pensarci, mentre si rese conto di avere addosso non più soltanto l’unico e cadente occhio del peluche, ma… anche quelli della bambina. Si era accorta di lui.
Com’era possibile? Forse aveva fatto qualche passo falso? O forse, muovendosi per guardare meglio il pupazzo, aveva mosso qualche ramo del cespuglio, facendo traballare le foglie? Non lo sapeva. Non lo sapeva, ma una cosa era certa: l’umana lo stava fissando con quegli occhi verde pallido, che prima d’ora non era mai riuscito a vedere tanto chiaramente come in quel momento.
“Dannazione, mi ha scoperto” pensò, in un certo senso allarmato. Era vero che gli era sempre sembrata una ragazzina calma e posata, ma non è che la conoscesse poi tanto, in fondo. Che poteva saperne di lei? Poteva anche darsi che detestasse gli animali… Se l’avesse raggiunto o se lui le si fosse avvicinato troppo, avrebbe potuto rischiarci la pelle. E non ne valeva decisamente la pena.
Quindi dopo aver notato che con aria sorpresa e quasi confusa la bambina accennava solo a guardarlo e a non fare altro, il randagio decise che tornarsene sul muretto fosse la cosa più saggia in quella circostanza, prima che accadesse l’inevitabile. A prescindere da come apparivano, era meglio tenersi sempre e comunque a distanza dagli umani. Non facevano che deluderlo in continuazione… E per qualche ragione non voleva assolutamente rimanere deluso da quella bambina. Chissà, forse perché si era già fatto un’idea di lei, o forse perché in genere ne aveva avuto abbastanza di maltrattamenti e discriminazioni, era certo che un suo eventuale rifiuto lo avrebbe portato ad un crollo da cui non sapeva se sarebbe riuscito a riprendersi.
Ma proprio quando fece per ritrarsi nel cespuglio e andarsene, vide che la bambina era scesa dall’altalena e stringendo ora con entrambe le mani il pupazzo a sé continuò a guardarlo con la stessa aria sorpresa di prima.
Quell’azione che non le aveva mai visto fare, se non al tramonto del sole quando era ora di tornarsene a casa, lo allarmò decisamente. E ciò che lo preoccupò ancora di più fu che aveva anche iniziato a muoversi… E proprio nella sua direzione…
Stava venendo da lui. Sì, ma che cosa voleva? Voleva cacciarlo via? Voleva catturarlo per darlo a quell’accalappiacani che si aggirava sempre nel quartiere vicino?
Non sapendo quali fossero le intenzioni dell’umana, indietreggiò impercettibilmente di qualche passo, ma – chissà come – lei riuscì ad accorgersene e si bloccò di colpo.
“Non andartene” sillabò con appena un filo di voce, la minuta bambina, che sostituì presto ad un’espressione sorpresa e confusa, una malinconica e triste.
Il gatto da un occhio solo drizzò le orecchie a quel suono tanto dolce quanto flebile. Era appena percettibile, un tono basso, ma grazioso. Non era una voce gracchiante, né squillante e assordante come quella dei tanti cuccioli umani che gli era capitato d’intravedere.
Era la prima volta che la sentiva parlare. Aveva una voce deliziosa.
Il felino ritenne che se la voce della piccola fosse stata cibo, avrebbe avuto senz’altro le sembianze di un dolce alla crema. Gli era capitato di assaggiarne qualche scarto nei rifiuti: era dolce e delicata, ma percepibile, nonostante il sapore per niente deciso.
Quasi come se la preghiera della bambina fosse stata più che una richiesta, un ordine, il randagio si bloccò all’istante, tenendo l’occhio vigile fisso su di lei. Non sapeva perché le stava obbedendo, ma… la cosa non andava bene per niente.
Contenta che la sua richiesta fosse stata accolta e visibilmente sollevata, fece per piegarsi sulle ginocchia, non avanzando neanche di un altro mezzo centimetro, quindi distese il braccio in avanti, in particolar modo la mano, chiusa quasi totalmente in un pugno, verso di lui e iniziò a sfregare il pollice con l’indice in un moto continuo e celere.
Che stava facendo? Ah, già… Ora ricordava: quella era la mossa con cui gli umani erano soliti richiamare i gatti. L’aveva vista spesso usare da i “falsi caritatevoli” per attirare l’attenzione dei randagi a cui dovevano dare da mangiare.
A confermare la sua già fondata ipotesi, la bimba lo invitò ad avvicinarsi con un altrettanto impercettibile: “Su, vieni qui”.
Se non avesse avuto un buon udito, degno di un animale, dubitava che sarebbe riuscito a sentirla chiaramente.
Non sapeva che cosa fare. Era disorientato. Perché lo stava chiamando?
Nessuno gli aveva mai rivolto quel gesto di richiamo. Non ci era abituato proprio perché nessuno lo voleva vicino, o riusciva a sopportare la sua diversità. Ne erano sempre stati tutti disgustati.
Quindi perché lo stava attirando lì da lei? Oh! Forse, data la lontananza e dato anche il fatto che fosse quasi totalmente nascosto tra le foglie del cespuglio, non le era visibile il suo “difetto”. Doveva essere per questo, giusto? Di quale altra spiegazione poteva trattarsi, altrimenti?
Ma anche quella volta, nonostante l’iniziale tentennamento e il costante timore che la bimba potesse non avere buone intenzioni, in modo straziatamene lento il felino uscì dalla sua “tana” e rispose al richiamo dell’umana che lo stava attirando verso di lei.  
Le sottili, ma apparentemente morbide labbra di lei, a quella scena, si piegarono in un piccolo sorriso e la sua espressione si tinse di soddisfazione.
“Sì, così!” lo incoraggiò a procedere. “Vieni qui, gattino”.
Doveva essere pazzo… Oh, sì… Con ogni probabilità stava perdendo – o forse lo aveva già perso? – il senno. Perché gli era bastata quella contentezza letta nei suoi occhi e quelle parole gentili per sgravarlo di tutto il timore e tutta l’incertezza che il suo istinto gli aveva infuso: i suoi passi si fecero notevolmente più rapidi e con fare deciso si trovò in men che non si dica di fronte alla bimba.
A distanziarli non vi era neanche un metro, tanto che il randagio poté notare addirittura una piccola stellina nera disegnata sul panciotto del leprotto di peluche che stringeva ancora tra le braccia lei.
La bambina, trovatoselo ad una distanza così ravvicinata, sorrise nuovamente. “Che bello, sei venuto da me!” . Sembrava davvero contenta di una cosa da nulla come quella, tanto che batté le mani ripetutamente. Una contentezza che lo confondeva sempre di più.
“Hai fame?” gli chiese, poi, rivolgendogli ora tutta l’attenzione possibile. “Però, ora che ci penso…” si portò un ditino alle labbra ed assunse un’aria pensierosa. “… anche se ne hai, non ho niente da darti da mangiare e… Oh!”. Mentre portava avanti il suo ragionamento, la sua piccola interlocutrice – se così si poteva definirla – notò qualcosa che la fece muovere in avanti, con fare quasi brusco.
“Ma quella è una cicatrice? Che cos’hai a quell’occhio?” . La sua domanda sommata alla mano che stava per giungere sino alla sua testolina senza alcun preavviso e in modo del tutto azzardato, lo fecero reagire d’istinto, il quale (finalmente?) tornò a prendere il controllo della situazione.
Il gatto da un occhio solo soffiò in direzione della bambina ed estraendo le affilate unghia non esitò a graffiarla, per difendersi dall’eventuale pericolo, e ad indietreggiare di quasi un altro metro.
Lei, di tutta risposta, emise un piccolo urlo a causa dello spavento e del dolore, perse l’equilibrio e cadde all’indietro perdendo così dalle mani il suo prezioso pupazzo, che raggiunse anch’esso il freddo terreno.
Mantenendosi con l’altra minuta manina quella ferita sul dorso, l’umana era tornata a fissarlo con le lacrime agli occhi e le rosee labbra tremolanti.
Dannazione, doveva averle fatto male! Stava per mettersi a piangere?  Ma… Era stata colpa sua, no? Aveva cercato di picchiarlo, di scacciarlo… forse di ferirlo! Che poteva saperne di che cosa aveva in mente? Lui non avrebbe fatto niente se non fosse stato per la sua mossa azzardata! Quindi anche se si fosse messa a piangere, non sarebbe comunque riuscita a farsi ragione! Quindi era meglio andarsene via... Lo sapeva in cuor suo che sarebbe andata a finire così… Lo sapeva eppure aveva voluto crederci… Altro che la prima categoria di umani scadenti… L’illuso lì era lui.

“Non andartene!” sentì ripetere per la seconda volta quel giorno. E la voce da cui proveniva quella preghiera era sempre la stessa.
Bloccatosi come ad un ordine assolutamente inviolabile, si voltò verso di lei e tutte le aspettative dello sciocco felino andarono in mille frantumi quando vide con quanta forza quella bimba aveva trattenuto le lacrime, rimandandole indietro, e tirato su il naso per non soccombere alla voglia di far emergere l’indiscusso dolore che le stava attanagliando la mano.
“Mi dispiace!” affermò, come fosse realmente convinta che il gatto potesse capirla (il che, in fin dei conti era vero, ma questa è un’altra storia). “Scusa, è stata colpa mia. Non avrei dovuto toccarti, senza il tuo permesso. Mi dispiace davvero. Davvero, davvero” insistette con aria rattristata e solennemente mortificata. “Ma non andartene, per favore!”.
La sua supplica lo scioccò, a dir poco.
Perché? Perché gli chiedeva scusa? Perché non gli permetteva di andarsene anche dopo che l’aveva ferita? Perché continuava a volerlo lì? Che cos’aveva che non andava quell’umana? Era stupida? Molto probabilmente. Cos’altro sarebbe potuta essere, sennò? Forse pazza? Una possibilità non da escludere, certo.
“Per favore, per favore…” continuò a pregarlo, gattonando verso di lui. “Ti prometto che non farò più nulla di sbagliato!” Ma vedendo che più lei si avvicinava, più lui si allontanava, si bloccò, seduta ancora per terra sulle ginocchia. “Io… Io…ecco…”. Girandosi a destra e a manca con fare agitato, sembrava avere tutta l’aria di cercare qualcosa. “Oh, giusto!”. Infilò una manina nella tasca del giacchettino di jeans che indossava e dopo aver cercato per un po’ ne estrasse una carta appallottolata e mal riposta che dopo aver aperto si rivelò essere metà parte di una caramella gommosa. “Guarda, è una caramella. E’ buona: è all’arancia!” gli spiegò, cercando di convincerlo a non ritrarsi maggiormente. “Lo so che i mici non mangiano le caramelle. Me l’ha detto papà. Ma non ho nient’altro da mangiare in questo momento, però… Però ti prometto che la prossima volta ti porterò qualcosa! Qualcosa di veramente buono e che piace ai gatti! Quindi, per favore…” . Agli angoli dei verdi occhi della bimba le lacrime presero nuovamente a sorgere. “… per favore, non andartene via. Resta con me”.  
Quelle ultime parole, pronunciate con tono così afflitto da sembrare si stesse rivolgendo ad un essere umano, lo trafissero come neanche la pietra che gli aveva portato via l’occhio aveva fatto.
Non riusciva a credere a quello che stava udendo e vedendo. Si sarebbe giocato l’occhio restante che fosse tutto un sogno, ma non era così: quell’umana lo voleva. Lei voleva lui, la sua compagnia, lo cercava, lo implorava di stare con lei. Era persino arrivata a promettergli del cibo per attirarlo.
Perché? Non sembrava una “falsa caritatevole”… O forse lo era, ma con un pizzico di orgoglio in più, pronta ad accettare persino la sua diversità pur di adempiere alla sua “caritatevole missione di coscienza”.

In realtà non gli importò più di tanto. Che fosse una “falsa caritatevole” o meno, non avrebbe fatto alcuna differenza in quel momento.
Al randagio si annebbiò completamente la mente, l’istinto e il sospetto furono dispersi chissà dove per l’ennesima volta, l’incoscienza accrebbe ed, infine, uno strano calore incominciò ad invadergli l’addome. Se avesse conosciuto la droga, con ogni probabilità avrebbe sospettato di averne assunto almeno una dose.
Con passo lento, ma deciso, si avvicinò alla piccola umana, tanto da arrivarle praticamente di fronte. E lì si fermò, sedendosi e alzando la testolina, rivolgendo l’occhio ambrato a lei. A distanziarli, stavolta, vi erano meno di quindici centimetri.
La bimba, letteralmente sorpresa, in un primo momento lo fissò con incredulità per almeno un minuto ininterrotto; dopodiché, quando evidentemente si fu concretamente e coerentemente resa conto dell’avvenuto, gli sorrise e si fece scappare un paio di lacrime, che lui sperava tanto essere di gioia. E che quasi certamente lo furono.
“Grazie” sussurrò appena, mentre si sbarazzava delle “prove” della sua debolezza.
A quella parola l’ondata di calore all’addome si fece pesante, così pesante che iniziò quasi a fargli male. Ma per nulla al mondo se ne sarebbe andato, ora.
Che quel malore inspiegabile, quanto improvviso, lo privasse della vita in quel momento, ma non si sarebbe mosso di un solo millimetro!
E se ne stava così il felino, che continuava a fissare la bambina, la quale dopo un iniziale tentennamento e qualche momento d’esitazione, aveva allungato nuovamente la mano verso di lui. Numerose volte l’aveva ritratta di poco e un paio di volte aveva anche pensato di rinunciare al suo proposito, ma alla fine si fece coraggio e provò per quello che – aveva oramai deciso – sarebbe stato il suo ultimo tentativo di toccarlo.
Ma il gatto non si mosse. Non di un solo millimetro. E quando la mano gli fu praticamente sopra la testa, allungo il musetto per andarle incontro e acconsentì alla carezza di cui lei gli fece dono pochi secondi più tardi.
La sua mano emanava un piacevole tepore, completamente diverso dall’inferno che oramai gli albergava dentro, ma ugualmente tranquillizzante, gradevole.
Per la prima volta in vita sua, da quando era venuto al mondo, il gatto da un occhio solo sentì d’essere stato fortunato.
Era così, dunque, che si sentivano i gatti di razza, sotto le cure degli “illusi”? Era questa la sensazione che provavano gli altri randagi, suoi compagni, di cui si occupavano i “falsi caritatevoli”?
Lui li aveva sempre odiati quegli umani che si prendevano cura degli animali, soprattutto di quelli randagi, perché tornava loro utile. Li aveva sempre disprezzati, ma…
Ma in realtà gli sarebbe andata bene qualche carezza fatta per compassione, o per falsa gentilezza. Non occorreva che fosse una sensazione autentica, gli sarebbe andato bene comunque che qualcuno si preoccupasse di lui o della fine che avrebbe fatto, se non tutelato pure in minima parte, anche solo per finta. Invece era stato allontanato, cacciato via e respinto anche da loro, anche da quegli umani che aveva pensato essere la sua ultima ancora di salvezza… Neanche sulle bugie e sulla falsità poteva far conto a quel mondo. Ecco perché odiava tutto e tutti. Ecco perché aveva sempre preferito la solitudine a qualsiasi tipo di compagnia, umana o animale.
Era sempre stato solo e pensava che le cose andassero bene così come stavano… che non avesse bisogno d’altro. Ma evidentemente si sbagliava.
E le sonore fusa che stava così gratuitamente elargendo a quella bimba ne erano la dannata prova.
Dall’altra parte, invece, un’espressione di gioia sbocciò sul visetto della piccola umana, che, oramai sicura di non incorrere più in alcun pericolo se avesse fatto attenzione a quel che faceva, avrebbe potuto tranquillamente toccare il suo nuovo amico quanto avesse voluto. E così fece, difatti. Gli accarezzò più volte la testa ed il resto del corpo seguendo la spina dorsale, fino a raggiungere la coda, finché, accordato il permesso dall’interessato in questione con un miagolio di consenso, non provò a prenderlo in braccio, ottenendo un risultato più che positivo: il felino si rivelò tranquillo e pacato persino quando se lo portò in grembo.
L’incontro ravvicinato con lui le servì per esaminarlo meglio e notare tutti quei particolari che a distanza non sarebbe riuscita a rilevare.
“Certo che è proprio una gran brutta ferita” constatò, quando ebbe modo di valutare il danno al suo occhio. “Chissà come te la sei fatto… Dev’essere stato doloroso, vero?” . Lo sguardo rattristato che gli rivolse fu accompagnato da un’altra carezza, delicata quanto il tocco di una piuma, sulla parte sinistra della testolina. Non osò toccargli l’occhio o ad avvicinarsi troppo a quella zona con le dita, per non farlo innervosire e, di conseguenza, scappar via.
“Ma non preoccuparti. Anche così, sei lo stesso bellissimo!” lo rincuorò, sorridendogli. “Il tuo pelo color panna è morbido e soffice e quelle chiazze marroni che hai sparse un po’ per tutto il corpo sono così carine!”. Poi fece per toccargli la fronte. “Soprattutto queste due piccole macchioline sopra gli occhi… Mi piacciono davvero tanto! Senza contare che, anche se uno solo, l’occhio che hai sembra una gemma preziosa!”
Il randagio sentì un ennesimo tuffo al cuore dopo aver udito quelle parole. Lo stava compatendo, ma… per qualche strana ragione, la cosa non gli fu affatto sgradita. Anzi, si sentì meglio, come se all’improvviso tutto il pesante fardello che aveva portato sino a quel momento completamente da solo, fosse stato alleggerito di tonnellate e tonnellate. Probabilmente se avesse potuto farlo, avrebbe pianto dalla gioia anche lui.
Eppure sentiva che la sua non era semplice compassione: le cose che diceva apparivano oltremodo autentiche… Non sembravano affatto stupide fandonie inventate sul momento, o se lo erano, per la misericordia, erano state ben costruite!
Due erano le ipotesi: o quella bimba era una cantastorie degna di nota, oppure i suoi elogi erano veri. E dubitava che un’umana così piccola avesse le facoltà necessarie a mentire per non apparire scortese… soprattutto nei confronti di un gatto!
Per ringraziarla il gatto da un occhio solo avvicinò il musetto alla manina graffiata di lei e le leccò la ferita che lui stesso le aveva provocato, come a scusarsi di quel che aveva fatto.
Lei, del canto suo, capì immediatamente a cosa mirava il gesto del suo nuovo amico, quindi gli sorrise, offrendogli altre carezze dietro le orecchie e sotto il mento, che, a giudicare dalle fusa, gli risultarono parecchio gradite.
E questa, anche se un po’ travagliata e decisamente insolita, fu l’inizio della loro altrettanto insolita storia.
  
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