Libri > Harry Potter
Ricorda la storia  |      
Autore: Emerlith    16/01/2013    7 recensioni
-Sir, dov’è che si va, quando si muore?-
-Dipende da cosa si è stati in vita, Reg.-
Sirius Black. Monologo intricato con due persone che in un modo o nell'altro sono state parte della sua vita. Piccolo flusso di coscienza -se così vogliamo definirlo- tra i suoi ricordi.
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Regulus Black, Sirius Black, Walburga Black
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

*Prima che iniziate a leggere, prendete nota che i ricordi non sono in ordine cronologico, anche se c'è un sottile filo conduttore che li lega. Mi rendo conto che non è una shot né leggera né molto comprensibile -di nuovo... - e probabilmente non vi piacerà, ma sinceramente non era programmata ed è stata una sorpresa anche per me =).  Le ripetizioni di frasi e la sottolineatura di alcune parole sono tutte volute, e i tempi verbali anche non seguono uno schema fisso. Spero la cosa con vi confonda troppo le idee. I dialoghi si riferiscono tutti esclusivamente ai ricordi rivissuti da Sirius. Probabilmente lo troverete un tantino diverso rispetto alla caratterizzazione canon. Ho letto poco di lui e ho immaginato quest'ipotetico ''confronto''. La storia è ambientata a Dicembre, nel 1995, pochi giorni prima dell'ultimo Natale di Sirius. Spero si riesca a capire lo stesso il mio personale punto di vista e che il testo vi risulti in qualche modo comprensibile. Ancora una volta grazie per l'attenzione, siete sempre in tempo ad uscire dalla pagina. =)*

  Pezzi di noi

'' Mia madre non aveva un cuore, Kreacher, si manteneva in vita per puro dispetto.'' 
Sirius Black, Harry Potter e L’ordine della Fenice.


Amavamo giocare sul pavimento, ignorando deliberatamente  i vostri ripetuti richiami. Amavamo starcene con le ginocchia in terra, fino a quando non facevano male. Sempre a comporre quei puzzle. Che cosa mi affascinasse così tanto nel perseverare in un gioco che tutti attorno a me trovavano a dir poco noioso, tutt’ora mi risulta oscuro. Ma se mi fermo a riflettere, è davvero curioso come io abbia cercato con ogni mia forza di continuare a farlo per tutta la vita. Perché forse è stato proprio allora, quando ero ancora un bambino, che l’ho capito.
Nasciamo interi e man mano crescendo perdiamo pezzi di noi.
 

Oggi mi sembra ridicolo pensarlo. Ma allora, in quel tempo indefinito, senza nome, avevo ancora il mio fedele alleato. Regulus  mi guardava sempre aspettando una conferma, il mio cenno d’assenso. Poi, con la sua la fronte aggrottata dalla concentrazione e gli occhi socchiusi, afferrava uno dei tasselli che gli avevo ordinatamente sistemato in fila, a portata di mano, e lo incastrava con gli altri, sorridendo. Se non l’aveva messo al posto giusto facevo finta di non accorgermene. Quando si distraeva, scaltro lo rimuovevo e inserivo quello esatto. Dovevo stare ben attento a non farglielo notare. Era più piccolo, ma non volevo che si sentisse inferiore.
Gli zii ogni tanto si chinavano ad osservarci, incuriositi loro malgrado.
 
Ognuno di loro aveva la propria teoria.
C’era chi sosteneva che bisognasse iniziare dal centro, chi diceva che andava completata prima la cornice, chi addirittura sosteneva che avremmo dovuto iniziare a comporre il disegno partendo da punti opposti, per poi unire le due metà.
M’indispettivano.
Io non avevo una tecnica. Il mio puzzle veniva fuori un po’ per caso, ed era proprio quello il divertimento. Vedere quei pezzi sparsi dare vita ad un paesaggio colorato, alla faccia buffa di Merlino con quel ridicolo cappello, com’era raffigurato nella mia collezione di Cioccorane di allora. Avevo da poco iniziato a leggere e giocando provavo la stessa sensazione di quando me ne restavo in solitudine con i miei libri. Quell’ardente desiderio di mettere assieme i capitoli, tra dame e cavalieri, per indovinare prima il finale. Quella disperata voglia di arrivare alla conclusione, ma la consapevolezza segreta di poter arrivarci con calma, di scoprire e poter dare vita alle cose senza avere il dovere di farlo.
Non avevo una tecnica, mi bastava guardare il disegno animato sulla scatola, mettermela davanti e convincermi che in poche ore ne avrei ottenuta una copia uguale con le mie mani e l’avrei vista prender vita sotto ai miei occhi.
Ma nessuno sembrava riuscire a capirlo.
Avevano tutti sempre fretta.
 
Forse fu proprio la fretta che diede inizio a tutto.
Non feci neppure in tempo ad alzare la testa per urlare la mia disapprovazione. Vidi solo il mio puzzle levitare di scatto da terra e frantumarsi di nuovo in centinaia di pezzi nel contenitore. Percepii la sferzata dell’aria mossa dal movimento rigido del vostro polso, sopra alla mia chioma di ricci indomabili. Regulus non fiatò. Neppure da bambino era di molte parole. Ma io mi voltai di scatto, furioso, la vista appannata dalle lacrime che tentavo goffamente di reprimere.
-Perché, perché l’avete fatto? Avete rotto il mio puzzle!-
Mi afferraste con violenza da un orecchio. Io trattenni a fatica un urlo. Sentii con chiarezza nostro padre ridacchiare mentre le pagine della Gazzetta frusciavano placidamente fra le sue mani. Dopo quello che vi parve un tempo sufficiente, mi lasciaste andare, spingendomi in avanti con violenza, mandandomi a finire carponi, con le mani nella scatola. I pezzi saltarono fuori, finirono ovunque.
 
 Ti guardai indicare con un rigido cenno del capo quel che restava del mio lavoro sprecato.
-Non ho più intenzione di ripeterti che non tollero che tu stia a bivaccare sui tappeti del salotto. Hai una tua stanza, anche se forse la soffitta ti sarebbe più congeniale, visto che ami stare a strisciare per terra. Cerca d’impiegare il tuo tempo in attività più inerenti alla tua posizione, Sirius. Non ti abbiamo messo al mondo perché tu sia uno spreco di spazio.-
 
Le vostre precise parole rimbombano ancora nella mia testa. Le vostre parole hanno sempre saputo infiltrarsi in ogni mio spazio vuoto. Con la stessa sottigliezza della polvere nelle fessure.
I contorni giorno dopo giorno, anno dopo anno, sono sfumati. Allora forse, madre, è qui che inizia tutto. Avrei dovuto darvi ascolto, fin dalla più tenera età. Avrei dovuto iniziare dalla cornice. Tralasciare la mia voglia di sorpresa, attenermi alle regole. Ne sarebbe venuto fuori un quadro migliore. 
 
L’aria è immobile, nessun alito di vento, niente nebbia, nessuna goccia di pioggia a disturbare la quiete dell’inverno che incalza. È il primo giorno d’inverno, madre, e vi guardo per la prima volta dopo un tempo che pare ancora più lontano di quello che ha custodito la mia infanzia. Ma non guardo neppure Voi. Solo un vostro ritratto incorniciato e ingiallito, lasciato alle inclemenze di un mondo che mai avete apprezzato, eppure continua a farsi beffe di Voi, ad esistere a discapito vostro, proprio come me, il vostro figlio ripudiato, la vergogna della vostra carne.
 
Il silenzio mi avvolge in una surreale spirale di tranquillità. Quasi mi vien voglia di sorridere. La mia mano ossuta scivola fuori dall’involucro invisibile che mi protegge, come un bozzolo, e si posa sulla pietra fredda, coperta dal muschio. È così che mi ripresento al vostro cospetto. Con un mantello che sa rendermi invisibile. Invisibile mentre mi aggiro furtivamente fra le lapidi, in un cimitero abbandonato a sé stesso. Il mio respiro si condensa in una nuvola davanti ai miei occhi. Il vetro che custodisce la vostra fotografia, ormai unica erede e unica custode della scintilla perduta dei vostri occhi neri, è infranto in diversi punti.
Un pezzo se ne distacca e cade nell’erba secca, ai miei piedi.
Pigio le mie dita sulla miniatura del vostro viso, sui vostri zigomi pronunciati, sulle labbra sottili e tese in un sorriso freddo.
Nasciamo interi e man mano, crescendo, perdiamo pezzi di noi.
 
Regulus aveva il terrore della soffitta.
Non riusciva ad entrarci, osservava la porta socchiusa e si rigirava nervosamente i pollici. Si aggrappava alla mia schiena.
-Sirius?- Mi bisbigliava contrito.
-Regulus, è solo una stanza piena di mobili vecchi e scatole piene di roba.- Gli rispondevo seccato.
-Dobbiamo per forza giocare quassù?- Ribadiva sempre, sull’orlo del pianto.
Io lo trascinavo con me, aprivo la porta che scricchiolava.
-Non mi piace qui, Sir.-
-Qui ci lasceranno in pace, Reg.- Tentavo di spiegargli. Nessuno si accorgerà di noi.
Durava soltanto pochi minuti.
Quando ci rintanavamo nella nostra tenda di fortuna, costruita con vecchie coperte impolverate, allora si voltava verso di me e univa il suo indice al mio.
-Sir, dov’è che si va, quando si muore?- 
-Dipende da cosa si è stati in vita, Reg.-
Si addormentava, Regulus.
Cadeva nel sonno fissando gli origami e le stelle di carta che avevamo ritagliato e appiccicato alla coperta sfilacciata che fungeva da tetto e da rifugio ai nostri sogni.
Le stelle vere, le lezioni sull’astronomia che Voi solevate impartirci erano troppo complesse.
I vostri ripetuti rimproveri se ne sbagliavamo i nomi troppo umilianti.
Quegli astri promettevano una gloria irraggiungibile, si facevano beffe di tutti i miei sforzi. Tracciavo mappe, delineavo confini per impararne l’intricata geometria. Ma non c’era nulla da fare. Confondevo una costellazione con l’altra. Era impossibile per me ricordarle. Le detestavo. Mi terrorizzavano, le stelle. Era troppo facile essere risucchiati dall’immensità di quel cielo nero. Voi tutti vi sentivate importanti, grandi. Io mi sentivo insignificante, perso. Ogni volta, ogni sera in cui lo guardavo, sulle mie spalle sembrava gravare il peso di un’immortale condanna.
 
Le mie unghie grattano via la terra secca dall’iniziale del vostro nome. Forse, come si dice in questi casi, era destino, o forse vi siete semplicemente vendicata, vi siete presa con la forza ciò che non vi apparteneva. Cassiopea è nella geometria della vostra iniziale. E in me, la vostra dannata imperfezione, voi avete crogiolato ogni vostro tormento. Prima ancora di un figlio che tramandasse i vostri colori e i vostri puri ideali, volevate una bambina. Non avreste mai osato dirlo apertamente. I vostri fratelli vi avrebbero quasi guardata con disprezzo, vostro marito vi avrebbe riso in faccia. Eppure io ricordo. Ricordo ancora come la prendevate in braccio. Il colore dorato di quei boccoli d’angelo. I singulti contenti di quelle risate. Io vi osservavo di nascosto, accucciato dietro il pianoforte del salotto.  Mia cugina sul vostro grembo, voi che la vezzeggiavate.
-Perché non l’avete chiamata Cassiopea, Druella?-
Lei aveva alzato le spalle.
-Oh, Walburga, era la terza figlia femmina. Almeno il nome volevo fosse originale.-
Narcissa mi aveva guardato con un luccichio maligno negli occhi, quasi fossi stato un insetto da schiacciare.
Io, la stella più brillante dell’intera volta celeste, ero già morto nel vostro cuore. Perché l’avevate anche Voi, un cuore. L’avevo imparato nel modo più duro in tutti quegli anni. L’avevo imparato  mentre il mio andava in pezzi.
 
Ma ora mi chiedo, è davvero sempre stato così, madre?
È tutto qui, quello che rimane?
L’ombra cupa della villa alle mie spalle si staglia di fronte a me, mentre fisso la terra umida e raccatto i rifiuti. Ma non mi volterò, non alzerò la testa a guardarla.
Ostinatamente  rimango a rovistare fra le sterpaglie, i rami secchi, le cartacce e le bottiglie disseminate ovunque. Questo posto è sporco. Sporchi Babbani che non danno importanza al nostro onorevole nome si siedono sulle vostre lapidi. E voi non potete più impedirlo. Li immagino. Vengono qui, di notte, ad accendere fuochi. Sfidano i ragazzini a salire le gradinate del porticato, raccontando delle urla dei fantasmi che sicuramente infestano l’abbandonata dimora. E come poter dar loro torto? È tutto qui, quello che rimane. Pareti secolari, finestre rotte che lasciano che segreti inenarrabili, pianti convulsi e grida soffocate sfuggano dalle fessure delle travi di legno inchiodate.  Fisso  il bosco silenzioso e spettrale. Un pallido e timido raggio di sole fa capolino fra la coltre violacea di nubi. È tutto qui, quello che rimane, eppure è esattamente come lo ricordavo. Stringo più forte la stoffa del mantello fra le mie mani, contro il mio petto. Mi pare di risentire le nostre voci concitate, le nostre urla.  Ho ridestato i fantasmi, ho  rivangato  il passato, smosso la terra. Qual è esattamente il confine fra il ricordare e il dimenticare, madre? Dove si finisce, se non si è in grado di affrontare né l’uno né l’altro viaggio?
 
E dove inizia, quel viaggio? Non vi sembra strano che tutto ciò che ci definisce sia sempre qualcosa d’indefinito? Qual è la prima cosa che ricordate, di me, del vostro figlio ingrato? Ricordate il mio pianto? Ricordate quando mi posarono su di voi per la prima volta? Ricordate il battito del mio cuore, il mio viso? Ricordate i miei occhi? Io sì, io ricordo i vostri occhi. E ricordo il battito del vostro cuore. Ho la prova che avevate un cuore. È per questo motivo, che sono qui. Perché il mio primo ricordo è  il nero, sono dei colpi assordanti contro un armadio. E se vado nuovamente incontro al nero, voglio bene impressi i vostri occhi, voglio ricordare del vostro battito.
 
-Stai fermo, stupido! Non hai sentito Bella? Dobbiamo restare nascosti, ci farai scoprire!-
Urlo, scalcio violentemente, mi dimeno con tutta la mia forza.
Sono le prime parole della mia vita che ricordo. Incise sul primo tassello che con crudele precisione contiene il buio di quella che è stata la mia prima prigionia.
Braccia più forti di me mi trattengono, mani scaltre premono sulla mia faccia.
Io strillo. Mordo. Grido.
Il buio non ha confini, anche se sono in un armadio, è immenso. Mi ha inghiottito e non ne uscirò mai più. Batto violentemente contro l'anta. Ma le mie mani sono troppo piccole. Io sono troppo piccolo. Il buco nero mi ha preso. Non sono più una stella, sono un buco nero. Non ho via di fuga. Invoco il vostro nome. Forse per la prima o forse per la millesima volta da quando mi avete messo al mondo.
-Mamma! Mamma!-
-Bisogna finire il gioco! Smettila, sei un moccioso, uno stupido moccioso!-
Tiro calci, pugni, quasi spero di lacerare la coltre spessa che si è impossessata di me. Afferro violentemente i capelli di Narcissa. Mi aggrappo a lei, affondo le mani sul suo viso e lei sul mio. Una lotta senza misure. Interminabile. E poi quel calore, quel calore sconosciuto fra le mie mani. Quella scintilla che s’irradiava in ogni muscolo, prendeva vita assieme alle mie urla. Un’esplosione. Forse ero ancora stella. Il fuoco. Il fuoco nella stanza, il fuoco su quel vestito azzurro. Ancora urla. Le prime urla che hanno dato vita a molte altre. E sangue. Sangue nella mia bocca. Sangue e lacrime e solo il vostro viso nella mia mente.
 
-Stai buono, Sirius, è finito tutto!-
Probabilmente era Andromeda che mi asciugava la faccia, che mi baciava. Ma non ho più alcun ricordo, tranne la vostra entrata in quella stanza, con Regulus in fasce tra le braccia.
Il vostro iniziale stupore.
-Che cosa avete fatto?-
Questo forse è il tassello che fa la differenza. Che fa la sofferenza. Che rende incapace il trasformarsi in roccia.
Regulus deposto su una sedia a dondolo.
E voi chinata su di me.
Il tocco delle vostre mani sul mio viso, il vostro fazzoletto di lino ricamato intriso del mio sangue. La delicatezza delle vostre dita fra i miei capelli.
-Sirius. Che cosa avete fatto? Che cosa avete fatto a mio figlio?-
-Stavamo giocando! Solo giocando!-
I vostri occhi nei miei. La vostra stretta attorno al mio esile corpo scosso e tremante.
-Sirius! Parlami!-
Ma io non potevo parlare. Potevo solo premere con forza la mia testa contro il vostro petto. Ascoltare e fondermi con il battito accelerato del vostro cuore. Artigliare le vostre spalle. E continuare a piangere.
                                                                                                     

***

-E’ una tragedia, una vera tragedia.-
-Forse dovreste …
-Oh, sta’ zitta, Druella! Quel ragazzo è stato uno sfacelo da quando è nato! Non riesco a tollerarlo! Dove abbiamo sbagliato con lui, dove? Ma ti rendi conto? Non riesco più a sopportarlo!-
-Ma Walburga, cara, ti capisco, ma forse stai esagerando …-
-Esagerando, esagerando? Per tutti gli Dei! Ha tappezzato la sua stanza con quegli orrendi colori, come se … come se gli piacesse, come se ci trovasse gusto a ribadire che è finito nella casa dei Filobabbani e dei traditori! Che orrore! Non intendo tollerarlo! Sarà un Natale orribile, orribile! Non oso immaginare la reazione di Orion! E dire che abbiamo cercato di raddrizzarlo per bene da piccolo, in tutti i modi … almeno tu alla fine ce l’hai fatta, con Bellatrix … -
C’era un gradino che scricchiolava, l’undicesimo gradino, nella parte sinistra.
Eravamo abituati a saltarlo. Scricchiola ancora oggi, madre.
-Chi c’è? Kreacher, sei tu?-
 
-Black, Sirius!-
Non ero caduto sulle scalinate di Grimmauld Place mentre correvo di filato nella mia stanza quel pomeriggio, ma ero caduto mentre andavo a sedermi su quel vecchio sgabello. Con gli occhi sgranati, immobile, guardavo i volti sconosciuti e ancora divertiti dalla mia figuraccia vorticare confusamente attorno a me. Probabilmente i secondi più disastrosi della vostra esistenza, scanditi con violenza dal rimbombo del mio cuore fin nelle mie orecchie. Ricordo di averli contati. Sono stati ventuno secondi, madre. In ventuno secondi ho spezzato la vostra tradizione, ho reciso il filo, spento quell’ ultimo barlume di speranza per sempre.
-Potresti scegliere, ragazzo.-
-Io non voglio.-
-Non vuoi cosa, ragazzo?-
-Non voglio scegliere. Decidi tu. Sei qui per questo, no? Decidi tu, per me. Io non voglio scegliere.-
-Tu sai qual è la tua scelta. Hai solo paura di affrontarne le conseguenze, figliolo … Grifondoro!-
Un dialogo silenzioso, oscuro al mondo e noto solo a me stesso.
Ero stato dunque io a scegliere, madre, anche se non sapevo scegliere?
Un boato si era levato dalla folla scarlatta al lato opposto della sala.
La professoressa mi aveva sorriso gentilmente e mi aveva spinto a raggiungerli.
C’era James, che mi sventolava il cappello in segno di benvenuto.
Gli avevo fatto un sorriso tirato.
-Sembra che tu stia cadendo a pezzi, amico. Riprenditi!-  Mi aveva urlato, dandomi pacche sonore sulle spalle.
-Ce l’hai fatta, allora! Sei andato contro la tradizione! L’avevo detto io che eri un tipo apposto. Ma che cosa stai guardando, cerchi Mocciosus?-
Non cercavo Mocciosus.
Guardavo ancora quei capelli dorati.
Quel barlume di disprezzo negli occhi, che mi trafiggevano di nuovo dal lato opposto dell’immensa sala.
I colori verdi di quelle divise. Il serpente che si attorcigliava su se stesso. Quel simbolo a me tanto noto. Già ricamato su più della metà degli indumenti che mi erano stati regalati.
-Sei dentro, complimenti!-
Mi stringevano la mano. Mi sorridevano.
Ero dentro, ed ero fuori.
Per sempre.
 
-Black, Regulus!-
Sul bordo del piatto c’erano dei ghirigori dorati.
-Hei, Sir, ma quello non è tuo fratello?-
Le fughe del pavimento di pietra erano sporche, nere. Era la polvere. Polvere accumulata da secoli.
-Sir, dov’è che si va, quando si muore?-
-Dipende da cosa si è stati in vita, Reg.-
-E noi cosa siamo, Sir?-
-Serpeverde!-
-Hai perso qualcosa, Sir?-
Uno strappo.
-Però ti assomiglia. Un po’. Sembra stupido. Guarda come stringe la mano a Malfoy…-
-Perché la bionda gli dà la sua sciarpa? Sir, mi stai ascoltando? Sir? Che cosa stai cercando per terra, si può sapere?- L’ho solo immaginata, Narcissa. Ma non sono riuscito a vederlo, quel passaggio di testimone,la sua sciarpa che finiva attorno al tuo collo. Come da tradizione, l’ultimo membro rimasto, il più vicino alla famiglia, la posava sulle spalle del nuovo arrivato.
Uno strattone.
-Ma vuoi tirarti su?-
Uno strappo muscolare. Bruciava. Bruciava troppo.
Noi cosa siamo, Reg?
Te lo sei chiesto, mentre ti sei voltato a cercarmi fra la folla che schiamazzava incurante di noi? Te lo sei chiesto mentre suggellavi a vita la tua appartenenza ad un nome?
Te lo sei chiesto, dov’era che stavamo andando? Ti sei chiesto, in tutti quegli anni, se anche solo per un attimo ho avuto il desiderio di stare seduto accanto a te?
 
Siamo finiti qui, Madre. Vi ho riportato quel che rimane, quel che ho. Non ho mai avuto niente di quel che volevate e niente vi riporto. Vi porto queste mani, che con rabbia grattano via la terra dalle lettere del vostro nome fino a sostituirla con il sangue. Vi riporto il mio sangue. Il vostro sangue tradito e mai amato. Tutto ciò per cui avete lottato. Tutto ciò per cui non sono mai stato abbastanza. Tutto ciò per cui ho perso. La causa di ogni mio tormento. Il motivo più illogico di ogni Vostra scelta. La firma scarlatta della mia inammissibile colpa. Il mio cuore maciullato pulsa. Reclama la sua presenza, dopo anni e anni nelle tenebre più sconfinate dell’esistenza.
 
Ho sempre reclamato la vostra attenzione.
Non ho mai reclamato la mia presenza.
C’è una sottile differenza.
Come se fossi stato io stesso un complicatissimo puzzle, un noioso rompicapo, ognuno, di nuovo, aveva la propria teoria per rimettere assieme i pezzi.
-È solo un ragazzo.-
-Crescendo gli passerà.-
-Voi avete fatto tutto il possibile.-
-Non è colpa vostra se ama quegli esseri abietti.-
-Ma potrebbe esserci stato un errore, avete provato a parlare con il preside? -
 
Sì, Madre, c’è stato un errore.
Dove vanno a finire gli sbagli, madre? Hanno un posto, hanno delle etichette, come le scatole in soffitta?
 
Visti i recenti sviluppi,
con la presente ti informiamo che ti saremmo molto grati se a scuola  ti limitassi ad intrattenere con tuo fratello rapporti strettamente formali.
Non vogliamo che tu possa indurlo a frequentare determinata gente e che tu possa in alcun modo influenzarlo con le tue idee pericolose e strampalate.
Verremo a conoscenza dello svolgersi delle vicende e ti garantiamo che se cercherai di recar danno a Regulus in qualunque maniera ne risponderai a noi.
Con la speranza che almeno questa richiesta venga accolta,
i tuoi genitori.
 
La vostra calligrafia spigolosa è ormai sbiadita, come la vostra foto.
È così brutto invecchiare, eravate solita dire.
Guardavate fuori dalla finestra, vi perdevate nel grigiore cupo dei pomeriggi di Londra.
-È così brutto invecchiare. Vedere quello per cui hai lottato tutta la vita cadere in rovina.-
La pergamena è imbrattata, unta di sporco, tutto lo sporco delle nostre anime.
Non ci voleva poi molto, per strapparla.
Ci è voluto solo un piccolo sforzo per guardare i pezzetti che si rincorrono per un attimo, prima di sparpagliarsi. Come se volessero rincorrersi, ricongiungersi un’ ultima volta per comporre nuove parole.
 
Io avevo il terrore della soffitta.
Avevo il terrore d’innamorarmene.
Avevo il terrore d’innamorarmi di tutto ciò che contenevano quelle scatole.
C’erano gli album.
E c’ero io.
I miei primi passi, le mie smorfie.
In braccio a Voi.
Su un cavallo a dondolo.
Con un mantello, sollevato in aria dalle braccia forti di quel padre che mai sorrideva, ma che mi tendeva con sicurezza verso quelle stelle.
Mi dispiace, Regulus.
Delle tue foto, ve n’erano la metà.
Non si erano dimenticati di te.
Semplicemente,  si erano già stancati della novità.
Avevano riposto in me tutte le loro più grandi speranze. Tu mi facevi da sfondo.
È così sciocco pensarlo adesso.
C’è stato un tempo, un tempo lontanissimo, un tempo frammentario e contrario ad ogni legge fisica in cui io ero un figlio. Il primo figlio. Il primo sogno. Il primo e basta.
È questa la frattura. La mia frattura mai saldata. La frattura che fa la sofferenza. Il tassello che si collega al buio.
Il buio che ha causato ogni nostra caduta.
Che ha messo fretta ai nostri passi, rendendoli fragili, incauti, incerti.
Chi potrebbe mai essere in grado di dirci quanto saranno profonde le orme che intendiamo percorrere?
Non so quanto tempo è passato da quando sono qui. Paradossalmente, il presente si è arrestato nel flusso dei miei ricordi.
Una pioggia sottile e fredda ora bagna il mio viso. Senza sole, posso finalmente alzarlo alla facciata cupa di uno dei pezzi della mia vita.
Non è questa casa mia.
Non sono questi i miei affetti.
Non è ciò per cui ho lottato, che mi ha portato qui oggi.
Ma per cosa avete mai lottato, Voi?
Voi, che ve ne state qui nella terra fredda, in mezzo a tutti gli altri, avete ancora oggi una valida teoria?
Quali orme avete mai percorso? Quale scopo vi ha condotto oggi qui, dove finiremo tutti?
 
-Madre, dov’è che si va, quando si muore?-
Avevate soffiato sulla candela ancora accesa.
Vi eravate chinata su di me.
-Perché questa domanda?-
-Me l’ha chiesto Regulus.-
-Non l’avrai turbato. Che cosa gli hai risposto?-
-Gli ho risposto che dipende da cosa si è stati in vita.-
Avevate accennato un sorriso, con un’alzata di sopracciglia.
-E noi che cosa siamo, Sirius?-
-Siamo stelle.-
-Sono lieta di vedere che almeno qualcosa delle nostre lezioni comincia ad entrarti in quella testa vuota.-
 
Voi non eravate una stella, Madre.
Eravate una bugiarda.
Eravate un mostro, che obbligava il proprio figlio a darvi del Voi e se sbagliava gli facevate rivoltare la faccia.
Non potevo chiamarvi Mamma.
Era così poco signorile, quasi volgare.
 
-Se esci da questa casa, sappi che non tornerai mai più! Non avrai più niente da noi, abbiamo sopportato fin troppo le tue idiozie, tollerato fino allo sfinimento la tua presenza! Sei uno spreco di spazio, una vergogna per la nostra famiglia, una vergogna per il nostro nome, per il sangue nobile che scorre nelle nostre vene, per tutto ciò che rappresentiamo!-
-Madre…-
-Oh no, Regulus, non tentare di difenderlo! Che cosa fai? Che cosa stai facendo, Regulus? Stai piangendo, Regulus? Per amore del Cielo! I Black non piangono! Non darti pena per lui! Non sprecare il tuo fiato, non lo merita. Non merita niente.-
Non sapeva piangere, Regulus.
Premeva forte pollice e indice sugli occhi, come a volerli spingere all’interno delle orbite. L’aveva sempre fatto. Come se non volesse vedere più nulla. Come se volesse difendersi dal mondo.
-Hai visto, hai visto che hai fatto, Sirius? Vattene, va’ via!  Va’ via ho detto!-
Righe.
Righe rosse e nere. Un maglione a righe rosse a nere è l’ultima immagine che ho di te, Reg.
Mi ero voltato. Avevo afferrato il mio mantello sulla sedia e avevo aperto la porta del corridoio sempre buio.
-Sirius, aspetta! Le cose non sono solo bianche o nere!-
Mi ero fermato. La moquette aveva arrestato i miei passi. Avevo sentito il tappeto cercare di trattenerli, i miei denti lacerare il mio labbro inferiore, anni dei nostri silenzi crollarmi addosso.
-Non puoi andare via, Sir. Che cosa farai, dove andrai? Siamo la tua famiglia!- Avevi urlato, mentre nostro padre caracollava dietro di te, affannato, scarlatto come il vino che traboccava dal suo bicchiere.
-Voi non siete la mia famiglia.-
Mi avevi afferrato. Strattonato.
Righe.
Righe verdi e nere sul mio maglione.
Rosso e verde è l’ultima immagine che ho di noi, Reg. Non bianco e nero. Rosso e verde.
-Sirius, non ci pensi a me? Che cosa faccio io se tu te ne vai?-
Piangevi. Piangevi, Reg. Avevi solo quindici anni. Avevi il labbro inferiore che tremava. Le guance arrossate, cocenti dallo schiaffo di nostro padre e dalle lacrime amare che tentavano di parlare per te.
-Farai ciò che hai sempre voluto, no, Reg? Porterai avanti i nobili ideali della famiglia. Ti unirai a Lui. Non è questo che hai sempre voluto, Reg? Non è questo?-
Ti avevo spinto via. All’indietro, con forza.
-Voi non siete la mia famiglia, io non ho mai avuto una famiglia!-
Ti eri rialzato da terra.
Ti eri passato più volte la manica del maglione sul viso.
 
Mi allontano. Mi allontano a ritroso. Le lapidi rimpiccioliscono. C’era un gioco, che facevamo, Reg. Te lo ricordi? Dovevamo afferrarci correndo all’indietro. Era così sciocco, privo di senso. Lo facevamo nella tenuta estiva, nei campi. L’ultima volta che ci abbiamo giocato,  sei caduto all’indietro. Ti sei spaccato la testa su un sasso. L’ultima volta in cui ho pianto, avevo le mani premute sulla tua nuca. Il rosso scarlatto colava sulle mie dita,  finiva sul giallo del grano di giugno. Non sono più riuscito a guardare i papaveri, gocce impaurite di vita  intrappolate fra spighe troppo più alte e forti di loro.
 
Perdonami, Regulus. Perdonami se non ho saputo afferrarti in tempo. Se non ho saputo tenere assieme i pezzi, se non ho prestato maggiore attenzione ai tuoi tasselli, perché ho dato per scontato che avresti messo nel puzzle quelli sbagliati. Perdonami, Regulus, se non ti ho protetto. Ero io, quello cieco. Pensavo d’avere l’esclusiva della sofferenza, ne volevo detenere il monopolio, perché, sciocco, almeno in quello volevo primeggiare. Perdonami, se ti ho ritagliato stelle di carta e non ti ho raccontato le storie che volevi ascoltare,  se ho fatto finta di non riconoscerti quando passavi nei corridoi. Perdonami, Regulus. Alla fine, i miei più grandi timori si sono avverati. Nell’immensità di questa vita, come due stelle, due puntini, ci siamo allontanati sempre più, ci siamo persi, siamo arrivati a non riconoscerci.
 
Sono invisibile, Regulus.
Dov’è che si va, quando si muore, Reg?
Tu, dove sei?
Dov’è, Regulus, madre? Dov’è il vostro figlio prediletto, il vostro figlio tanto osannato? Povera madre. Anche lui, alla fine, si è rivoltato contro di voi, ha abbandonato la vostra nobile causa.
Non ha neppure una lapide, non ne è rimasto più nulla.
Io non più nulla, non ho più nulla di lui.
Che cosa siamo stati, in vita?
Siamo stati pezzi, Regulus.
Pezzi che  sono stati spazzati fino  a qui.
Ed è questo ciò che rimane.
Nasciamo interi, non nasciamo stelle.
Se non ci avessero mai separati, Regulus, probabilmente, insieme, in due, saremmo rimasti interi.
 
E voi, madre, perdonate se vi ho dato ascolto, se vi ho tenuta in vita.
Non la meritavate, questa vita. Non meritavate d’avere dei figli.
Perdonatemi se ho cercato ancora una volta l’ombra del vostro sguardo.
Perdonatemi se sono tornato al confine, se ho rovistato fra le cianfrusaglie, scavato nella terra, provato a saldare i segmenti della frattura, proprio come cercavo di far combaciare quelli dei miei colorati tasselli.
 
Cammino all’indietro. Sono invisibile. Sono invisibile, madre, perché dopo tutti questi anni ho ancora vergogna di presentarmi al vostro cospetto. Vergogna d’ammettere che mentre combatto per il bene, cerco ancora delle risposte in ciò che mi ha fatto più male. Vergogna d’ammettere che si può amare anche ciò per cui abbiamo perso tutto. E che forse, è solo perché si voleva un briciolo di quell’amore, si è diventati oggi ciò che si è. Non perché si nasce eroi. Non perché si nasce stelle. Semplicemente perché si perdono pezzi. E ci si affanna tutta la vita per cercare di ritrovarli.
 
Il cancello del cimitero, come la porta della soffitta, cigola. Sono fuori.
Per sempre.
Sto tornando a casa, madre.
Dalle persone che amo, dalle persone che sono la mia vera famiglia. Harry, come James, probabilmente mi direbbe che i pezzi che sono andati perduti non erano quelli esatti per completare il grande disegno.
Probabilmente, madre, è vero.
Ciò non vuol dire che in qualche maniera, in maniera sbagliata, in maniera invisibile, non li si abbia amati comunque.
Perdonatemi, se ho cercato d’amarvi, e se ho pensato, per un attimo, che anche voi avreste potuto innamorarmi di me. Anche solo per sbaglio, a furia di guardarmi, d’avermi in giro, per anni ho pensato che come la polvere che s’infilava fra le fessure, qualcosa di me sarebbe rimasto dentro di voi.  
 
Gli alberi spogli del lungo viale alberato sembrano sussurrarmi ancora qualcosa.
Ma mentre il fruscio del mantello sulle foglie secche mi accompagna, finalmente sorrido. Non ci si può aggrappare ai sussurri, non ci si può aggrappare alle impronte dei fantasmi, anche se le nostre hanno il peso delle responsabilità.
 
Non so cosa siamo, Regulus. È questa la verità. Ma dovunque tu sia, dovunque io vada, voglio dirti che possiamo sempre scegliere di fare ciò che è giusto, di brillare. Anche se diventeremo polvere. Possiamo diventare polvere di stelle. Possiamo continuare a lottare per la luce.
È così strano pensarlo adesso.
Ma un giorno lontano, rimetteremo insieme i pezzi. Magari non riusciremo a ritrovarli tutti. Ma forse, chi siamo veramente, lo comprenderemo grazie a ciò che saremo in grado di ricostruire nonostante quelli mancanti.
  
  
Leggi le 7 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: Emerlith