Storie originali > Fantasy
Ricorda la storia  |      
Autore: _Atreius_    17/01/2013    4 recensioni
"Nel tuo nome Paura,
nel tuo braccio Terrore,
nel tuo volto Disperazione.
Nessuna libertà,
ché la Morte è e sempre sarà."
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

                                                                                                                               Nel tuo Nome
 
 
Il cielo, greve di nubi, mandò un rombo agghiacciante e, poco dopo, grosse gocce di pioggia iniziarono a cadere sempre più forte, fino a trasformarsi in un acquazzone prodigioso, che rese il terreno fangoso e scivoloso. I lampi illuminarono una figura slanciata, che camminava solitaria verso il tetro profilo di una cittadella, affondando nella melma fino alle caviglie, il lugubre sbatacchiare di una spada che l’accompagnava, ritmando i suoi passi.
Giunta presso le imponenti mura, si arrestò dinnanzi l’immenso portone in quercia e due soldati fecero capolino da una porticina un po’ più piccola, gli elmi che luccicavano alla bianca luce delle folgori e le armature rese lucide dai molteplici rivoli d’acqua che scorrevano su di esse. Uno di loro sollevò la lanterna che reggeva in mano e scrutò per bene l’ombra scura che si stagliava oltre la soglia, poi chiese: – Chi va là? 
La  figura  si avvolse  stretta  nel  mantello e  da  sotto  l’ampio  cappuccio  rispose  in  un  sussurro:
 – Esploratore delle Terre ad Ovest di ritorno da una missione.
Le guardie confabularono per un po’, infine si scostarono e gli fecero segno di entrare, tenendo alto il lume. Lo sconosciuto ringraziò con un cenno del capo e sparì tra i vicoli, diretto per la sua via. Camminò per qualche minuto, girovagando tra gli edifici in pietra, poi, tra la fitta cortina di pioggia, distinse alcune deboli luci e seppe di essere giunto a destinazione non appena individuò un’insegna cigolante nel vento. “All’Oca Strozzata” recitavano le lettere dipinte con la vernice rossa. Un nome assai cupo, ma perfetto per il genere del luogo.
L’avventuriero si recò sul retro, facendo attenzione alle numerose casse che ingombravano il piccolo cortile ed entrò indisturbato, richiudendosi poi la porta alle spalle e serrandola con un pesante catenaccio. L’acqua formò una piccola pozza attorno ai suoi stivali, gocciolando dal mantello e le crepe tra le pietre l’assorbirono, senza lasciarne la minima traccia.
– Fin! – chiamò, calandosi il cappuccio fradicio sulle spalle – Sono tornato!
Un uomo emerse dalle ombre sul fondo della stanza, rigirandosi tra le dita un bigliettino spiegazzato.  – Bentornato – disse a voce bassa. – È per te – aggiunse e consegnò il pezzettino di pergamena al giovane, che vi gettò un’occhiata e glielo restituì.
– Domattina all’alba – mormorò questi e si diresse nella stanza attigua, dove le braci di un caminetto riscaldavano l’aria gelida e illuminavano l’ambiente, seguito dal proprietario della locanda.
 
 
Fin si sedette davanti al fuoco, massaggiandosi le dita intorpidite, mentre il ragazzo rimase in piedi togliendosi il mantello nero e appendendolo ad asciugare.
– Allora, com’è andata stavolta? – chiese l’uomo, invitandolo a sedersi accanto a lui.
– Al solito. Un lavoro facile e pulito – rispose l’altro, slacciandosi la cintura alla quale erano appesi una spada e un paio di lunghi coltelli e accomodandosi, poi, dirimpetto alle fiamme.
– Dopotutto, Arvel, sei il migliore assassino di queste terre – commentò Fin, fissando le lingue di fuoco danzare tra i ciocchi di legno.
Il giovane asserì e giocherellò con il manico del pugnale che gli sporgeva dallo stivale, sfoderandolo un paio di volte e catturando con la lama la luce del fuoco. Si stiracchiò per poi alzarsi in piedi e passarsi una mano fra i capelli rossi, raccolti in un anello; Fin lo imitò e gli batté una mano  sulla  spalla: – Meglio che ti lasci  dormire ora, che ne dici? – e si  avviò   fuori  dalla  porta. Il ragazzo, stanco per il lungo viaggio, si stese accanto al caminetto sulla dura pietra e in pochi minuti il sonno prese il sopravvento.
Il mattino seguente, quando l’alba ancora non era sorta, Fin entrò nella stanza e lo trovò già in piedi, in perfetta forma, che si allacciava la grossa cintura.
– È arrivata la persona di cui parlava il biglietto, Arvel. Mai un giorno di pace, eh? – fece semplicemente, scrutando il mezzelfo, il quale ricambiò l’occhiata d’intesa con il suo sguardo glaciale.
– Falla entrare – rispose, indossando il mantello e tirandosi il cappuccio sul viso, nascondendo così il suo aspetto e le orecchie a punta che facevano normalmente capolino dalle ciocche rosse.
L’uomo uscì; Arvel lo sentì parlare sottovoce con un’altra persona, la quale evidentemente cercava proprio lui per commissionargli un nuovo lavoro. Un brivido di piacere gli corse lungo il corpo: di nuovo in azione, seppur anche solo dopo una notte di riposo.
La porta si aprì cigolando e una figura massiccia fece la sua comparsa; il giovane si ritirò tra le ombre, poi il nuovo venuto parlò.  
– Sei tu l’assassino che si fa chiamare Arvel? – chiese con voce profonda. Non ottenne risposta, solo un muto e oscuro silenzio. Fece per ripetere la domanda, ma fu anticipato da una voce fredda e distaccata.
– Perché sei qui? – domandò a sua volta il mezzelfo  – cercavi Arvel e l’hai trovato; la tua richiesta?
L’uomo esitò per un attimo, poi prese coraggio e disse, la voce ridotta ad un bisbiglio: – L’incarico sarebbe questo: uccidere il Veggente Bianco poiché …
– Niente motivazioni, non m’interessano! – troncò Arvel, alzandosi in piedi, ma rimanendo tuttavia nascosto nell’ombra.
 – Ci sono questioni ben più importanti: il pagamento, per esempio – aggiunse, alzando un sopracciglio; nonostante il committente non potesse vederlo, intuì subito e chiese: – Questi bastano? Un borsellino in pelle scivolò sulle lastre di pietra fino a raggiungere gli stivali del ragazzo, che si chinò e lo raccolse per poi accennare un sorriso e rispondere: – Considera la missione già eseguita: il Veggente sarà morto prima di quanto credi.
L’uomo fece un piccolo inchino e uscì soddisfatto; Fin rientrò subito dopo, spuntando da una lunga lista il nome del mandante e della prossima vittima, arrotolando poi la pergamena e infilandola nella cintura.
 – Come hai intenzione di agire questa volta? – chiese, osservando l’amico predisporsi alla partenza.
Arvel strinse la cinghia sulla spalla destra e infilò la spada nel fodero che ora gli pendeva sulla schiena e rispose: – Com’è nel mio stile, Fin. Sai benissimo che preferisco la rapidità e non farò eccezioni – concluse, chiudendosi il mantello sul davanti e nascondendo così l’arsenale di armi che portava addosso.
 – Bene, confido nelle tue abilissime capacità. Questa è la strada più breve per arrivare al tempio in cui  si trova il Veggente Bianco – spiegò l’uomo, dispiegando una  mappa sul piano del tavolo.       – Uscito dalla città, cammina per trecento miglia: sarai giunto alla Catena dei Giganti e una volta là trovare il Veggente non sarà difficile. Secondo le informazioni, il suo tempio si troverebbe sul picco più alto. Una passeggiata, per uno come te – concluse, avvolgendo la mappa su se stessa.                Il mezzelfo si coprì il viso e aprì la porta che dava sul retro.
– Sarò di ritorno fra tre giorni al massimo. Se qualcuno dovesse chiedere di me, sai che cosa fare. – disse e scomparve lungo il vicolo, diretto verso il suo nuovo incarico.
Uscire dalla città non fu un problema: sebbene fosse ricercato in lungo e in largo per tutte e quattro le Terre, manteneva celata la sua vera identità facendosi passare per un comune esploratore, perciò muoversi inosservato non era difficile.
Entro il crepuscolo era giunto alla base della Catena dei Giganti e aveva scoperto il picco esatto su cui sorgeva il santuario del Veggente; studiata la parete rocciosa, aveva individuato parecchi appigli facili da raggiungere: il pomeriggio dopo avrebbe intrapreso l’arrampicata e atteso la notte per compiere la missione affidatagli.
Il giorno seguente, al calar del sole, Arvel era già a metà scalata e in poche ore arrivò in cima, per nulla affaticato. Davanti a lui sorgeva, imponente, un tempio rotondo, color ocra, sette alte  guglie che  si   levavano  verso  il cielo  e molteplici  arcate  attorno  alla base  che gli donavano  un profilo elegante e maestoso.
Il giovane avanzò silenzioso nel giardino, anch’esso circolare, fino a raggiungere l’ingresso del  santuario: dalla soglia si  scorgeva  una figura vestita  di bianco seduta al centro della grande sala, in meditazione profonda.
Arvel si avvicinò cauto, estraendo dalla cintura un lungo pugnale, che brillò per un attimo alla luce della luna appena sorta. Nessun suono o movimento incauto: la vittima non doveva accorgersi di nulla.
– Chi sei tu, straniero? – chiese una voce roca e il ragazzo si bloccò; se il Veggente l’aveva udito l’effetto sorpresa era perso per sempre e non poteva far altro che procedere tradizionalmente: scatto e attacco.
Il Veggente Bianco si alzò e la sua candida veste frusciò lievemente, accompagnandolo lungo il corridoio centrale fra due file di colonne ornate di fregi.
– Chi sono io non ti riguarda. Sono stato mandato qui per ucciderti e non ho intenzione di fallire – rispose gelido il mezzelfo, sfoderando un secondo pugnale.
Il vecchio uomo lo guardò con tranquillità e un sorriso gli illuminò il viso. – Sapevo che questo giorno sarebbe arrivato, gli spiriti mi avevano informato di ogni singolo dettaglio – fece quieto – compreso qualcosa che potrebbe interessarti, ragazzo mio – aggiunse, notando l’espressione impassibile sul volto di Arvel.
– Non ho tempo da perdere in sciocchezze – decretò quest’ultimo, lanciandosi in avanti e colpendo l’uomo dritto al petto. Un fiore scarlatto sbocciò sul candore dell’abito del Veggente, diffondendo i suoi petali maligni sul tessuto perlaceo, mentre il sangue scorreva lento dalla ferita profonda, macchiando anche le bianche lastre del pavimento. Arvel ritrasse l’arma e il corpo dell’uomo cadde con un tonfo sordo al suolo, piegandosi come un fuscello troppo debole sotto la violenza del vento.
– Me ne vado in pace, – mormorò il vecchio – perché sapevo bene ciò che mi aspettava. Ma tu, portatore di morte, con questo atto hai firmato la tua condanna! – poi un fiotto vermiglio gli fuoriuscì dalle labbra socchiuse. Il mezzelfo lo fissò con un misto di ira e scherno e si preparò a calare il colpo di grazia, sollevando la spada sopra la sua testa.
– Le tue ultime parole? – chiese sprezzante, pronto ad abbassare la lama e sancire così la morte del Veggente Bianco.
Questi lo guardò con sguardo vacuo, gli occhi che già iniziavano ad annebbiarsi, e proferì, la voce ridotta a poco più di un rantolo: – Nel tuo nome Paura, nel tuo braccio Terrore, nel tuo volto Disperazione. Nessuna libertà, ché la Morte sempre è e sempre sarà! –
Arvel esitò alcuni secondi, non riuscendo a comprendere il significato oscuro celato dietro quelle enigmatiche parole, ma si riscosse immediatamente e con una risata agghiacciante calò l’arma. Uno spruzzo di sangue schizzò nell’aria e un ventaglio di gocce rosse si aprì fino a raggiungere gli stivali
del giovane; egli si scostò rapido e rinfoderò la spada, dopo averla lavata nel bacile, dove l’acqua  assunse un’inquietante sfumatura rossastra.
Il mezzelfo voltò le spalle al cadavere e scomparve oltre la soglia ad arco del santuario, il mantello nero ondeggiante che gettava una lugubre ombra sul terreno, quasi a testimoniare la sua stessa natura. Silenzioso e veloce, ridiscese il picco e riprese il cammino verso la città, truce sagoma che si stagliava crudele contro il candore della luna sul terreno, desiderosa solo di portare avanti la sua macabra opera.
Fin udì la porta scricchiolare, sebbene nella locanda ci fosse parecchia confusione, e si diresse nel retro dell’edificio con il pretesto di rifornire un paio di caraffe. Arvel fece il suo ingresso senza il minimo rumore e lo salutò con un cenno del capo, togliendosi il mantello.
– Hai una faccia strana – commentò l’uomo, – non è andata come avevi previsto? – chiese, riempiendo una caraffa di idromele.
– Affatto. Solo una cosa mi ha lasciato un po’ perplesso: il Veggente, prima di morire, ha recitato una specie di profezia … – rispose pensieroso il ragazzo, riponendo le armi in un baule sul fondo della stanza. Fin si rialzò con entrambi i recipienti pieni e alzò le spalle, soffiandosi via una ciocca di capelli castani dal viso. – Non mi sembri molto preoccupato: di solito un oracolo pronunciato in punto di morte non prevede nulla di buono – disse, aprendo la porta per fare ritorno in sala.
– Perché dovrei esserlo? Non sono superstizioso Fin, lo sai, e non intendo prestare attenzione a parole assurde, per quanto minacciose possano essere – tagliò  corto Arvel, chiudendogli la porta alle spalle. Malgrado non volesse pensarci, i ricordi del defunto e dei suoi versi gli tornarono alla mente, ancora più sinistri e fatali, scolpendosi indelebili nel profondo del suo cuore, come una dolorosa ferita impossibile da dimenticare.
No, sicuramente non li avrebbe scordati facilmente. Prima o poi, la verità sarebbe venuta a galla.
 
Trascorsero tre anni dalla morte del Veggente Bianco, tuttavia sembrava che la sua profezia non si fosse avverata. Arvel non pareva per nulla toccato da quelle parole appena sussurrate, presagio di una sventura terribile, e ormai non ci pensava quasi più.
 
 
 
 
Adesso è di nuovo in viaggio, alla ricerca della sua prossima vittima e, non appena la scova, sente di nuovo quel brivido, lo stesso che aveva provato prima di uccidere il Veggente, in quel giorno ormai lontano e sepolto fra i ricordi. Ora è lì, la mano serrata sull’elsa del pugnale, pronto ad affondare un colpo mortale, ma, per qualche oscuro motivo, non riesce a muoversi.
Improvvisamente, gli occhi grigio spento del vecchio uomo si riaffacciano alla sua mente, trascinando con sé le tremule parole della predizione: “Nel tuo nome Paura, nel tuo braccio Terrore, nel tuo volto Disperazione. Nessuna libertà, ché la Morte sempre è e sempre sarà!”
Arvel è pietrificato nell’ombra della colonna dietro la quale si è appostato e sente quella voce farsi sempre più nitida, quello sguardo vuoto fissarsi nel profondo del suo essere, scrutando gli angoli più reconditi del suo spirito. Il mezzelfo, preda degli oscuri pensieri che lo agitano, non si rende nemmeno conto di ciò che sta accadendo: l’alchimista, il cui destino pare già segnato, recita una breve formula e un’acuta stoccata raggiunge il giovane al petto. Il sangue schizza, imbrattandogli le mani e il viso, mentre la voce ridondante del Veggente ripete come una cantilena la profezia, richiamandola dai recessi più profondi del suo animo, dove era rimasta incisa contro la sua volontà. Arvel non riesce più a trattenersi, il dolore è smisurato: un urlo agghiacciante rimbomba per la sala di pietra, rimbalzando sulle pareti, facendo esplodere ampolle e serpentine. Cade in ginocchio, lo sguardo acceso di una luce folle, la testa fra le mani: tra orride grida di sofferenza, nere spire cominciano una macabra danza, circondando il suo corpo tremante e avvolgendolo nell’oscurità.
In pochi istanti tutto finisce.
Arvel giace a terra, non è più lo stesso mezzelfo di prima: ora è  pallido come un cadavere, la pelle tesa sulle ossa, eppure respira ancora, nonostante il colpo infertogli sia stato letale. L’arcano oracolo risuona come un’eco nella sua testa, riportando a galla quel giorno perduto e finalmente appare un fondo di verità: una verità terribile, impensabile, ma inconfutabile.
A fatica si alza e una scura cappa d’ombra gli si condensa attorno, mentre una falce dalla lama nera appare nella sua mano, luccicando sinistramente.
Una gelida stilettata trapassa il suo ormai fragile cuore, sgretolandolo definitivamente.
 
Sul mondo si allungano le nere ombre della Morte che sorge tra i viventi nel suo lugubre splendore e dinnanzi alla sua falce tremano le anime.
 

  
Leggi le 4 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: _Atreius_