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Autore: este    17/01/2013    3 recensioni
Blaine POV - 4x04-4x10
"E lo rivide.
Rivederlo non era stato come tornare in vita.
Rivederlo era stato come nascere di nuovo.
[...]
Rivederlo era stato vitale.
Rivederlo era stato insopportabile.
E quando Kurt lo abbracciò, il dolore esplose, annullando l’universo intero."
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson | Coppie: Blaine/Kurt
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A tutti i Klainers, perchè siamo sopravvissuti al peggio e, con un pò di fortuna, queste saranno le ultime cose tristi che scriveremo.
a Blaine e Kurt, che DEVONO tornare a essere l'esempio di puro, sensazionale e felice AMORE che abbiamo conosciuto da quella 2x06 in poi.

E alla mia Sis-compagna di scleri, perchè in questi giorni stiamo dando il meglio di noi.
E perchè mi ha detto categoricamente che dovevo finire 'la storia che non aveva la parte centrale'.

Blaine, tesoro, ritorna di nuovo felice, perchè scrivere e leggere di te in questi termini mi sta spezzando il cuore.

 



Lui non piangeva.
Non piangeva e basta.
Sfogati, dicevano i suoi amici. Lasciati andare. Butta fuori tutto.
Niente.
Aveva pianto tanto, quel giorno, da terminare tutte le sue lacrime, forse?
Oh no.
C’era l’oceano, che si infrangeva onda su onda contro il delicato muro dei suoi occhi.
Ma nulla. Neanche una goccia.
Era la sua punizione.
Si era fisicamente impedito di dare una via d’uscita al suo dolore. Il suo corpo rifiutava di espellere in qualsiasi modo la sofferenza.
Perché era colpa sua.
Perché l’angelo aveva pianto.
Kurt aveva pianto.
Lui non poteva più piangere.
 
Lui non cantava.
Non cantava e basta.
Da quella notte, non cantava.
Aveva urlato la sua disperazione fino a straziarsi le corde vocali, forse?
Oh no.
C’era un infinito di musica, dentro di lui. Una melodia – buia, certo, ma sempre una melodia – che chiedeva solo di essere intonata.
Ma nulla.
Perché lui odiava il suono della sua voce.
Era stata la sua voce – il suo suono – ad aver scandito le parole che lo avevano distrutto ed avevano distrutto lui.
Non poteva impedirsi di parlare, ma poteva impedirsi di cantare.
Lui aveva parlato. Kurt aveva pianto.
Lui non poteva più cantare.
Era la sua punizione.
 


___________________________________________________________________________
Ricordava di aver letto, una volta, che il cuore umano è in grado di contenere fino a una certa quantità di sofferenza.
“Quando la spugna è imbevuta, può passarvi sopra l’oceano senza che entri una goccia di più”.*
Qualcosa era andato decisamente storto, nel suo caso.
Perché era come se, nel suo petto, si fossero incastrati uno sull’altro decine e decine di cuori. E non appena uno raggiungeva il culmine del dolore che era in grado di sopportare, sembrava che subito un altro andasse a prenderne il posto, nuovo di zecca e pronto a cominciare a sanguinare.
Così, all’infinito.
In una lenta e lunga tortura.
Senza possibilità di espiazione.
 


____________________________________________________________________________
La notte. La notte era il suo sollievo e il suo tormento. La sua maledizione e la sua benedizione.
Iniziava che era il momento peggiore. Iniziava che i suoi ricordi felici – che sembravano appartenere a una vita fa, a una vita che non gli sembrava di aver mai vissuto veramente – si presentavano a bussare alla porta della sua mente, uno per uno, senza pietà.
Non piangeva, non cantava, i suoi cuori continuavano a spezzarsi uno dopo l’altro.
Ma si imponeva di resistere. Perché, a un certo punto, prima che lo capisse, prima che si domandasse come fosse possibile, semplicemente, accadeva.
Lo vedeva. Lo desiderava talmente tanto che riusciva a vederlo.
Quasi il suo cervello avesse creato appositamente per lui una proiezione semi reale di Kurt da regalargli in quei momenti.
Il Kurt di quella assurda ma indispensabile fantasia non parlava, non si muoveva, quasi non respirava.
Stava lì, disteso con lui sul suo letto, il volto a pochi centimetri, la testa poggiata sulle mani.
E lo guardava. Così intensamente che gli sembrava di sentire il suo calore sulla pelle.
Lo guardava e sorrideva.
Niente lacrime, niente dolore.
Erano quelli gli unici momenti  in cui riusciva a sentire qualcosa di vagamente simile alla pace albergare finalmente nella testa e nel petto.
Era qualcosa di insano, ovviamente, qualcosa che svaniva non appena arrivava il giorno.
Ma era come se il suo cervello avesse inconsciamente messo su quella farsa solo per auto-proteggersi da un dolore così forte che, se lasciato libero di esistere, l’avrebbe spezzato.
Ma era come se, così come si impediva di piangere e di cantare, fosse arrivato a impedirsi addirittura di esistere, in un tempo e in un luogo in cui Kurt non fosse contemplato.
E se Kurt non poteva appartenere alla sua realtà, allora avrebbe fatto in modo che appartenesse a quella che era la sua idea di realtà.
Un realtà fatta di loro due soltanto, senza lacrime, senza dolore, senza parole, senza movimenti, senza respiro.
Ed era solo in quella realtà che poteva permettersi finalmente di esistere.
 

Per quanto avrebbe voluto, non poteva ingannarsi per sempre.
Sarebbe stato decisamente più sano impedire al suo subconscio di continuare a bearsi di quell’illusione.
Perché risvegliarsi da quel sogno a occhi aperti diventava, giorno dopo giorno, sempre più arduo.
Non era qualcosa come ricevere un pugno nello stomaco, come non riuscire a respirare, come sentire che gli occhi pungevano più del solito o che il petto sembrava bruciare per l’assenza. Quello stadio lo aveva abbondantemente superato.
Perché, quando ogni mattina apriva gli occhi e lui non c’era, era il nulla.
Il vuoto.
L’abisso.
Polvere.
 
Polvere, come gli occhi di Kurt quella notte. Quegli occhi tanto amati, cercati, venerati, così limpidi e cristallini. Come se l’infinito li avesse scelti per abitarvi per sempre.
Per sempre, come il tempo che lui era sicuro che avrebbe avuto a disposizione per poterne morire, di quell’infinito.
 
Era una strana dipendenza, la loro, l’uno per gli occhi dell’altro. L’uno per il colore dell’altro.
Erano due universi paralleli, uno a tinte azzurre, uno a tinte d’oro.
Kurt diceva sempre che i suoi occhi avevano la capacità di assorbire la luce. Diceva che se si fosse messo a fissare intensamente una lampadina, dopo pochi minuti si sarebbe spenta. Diceva che il sole, prima o poi, sarebbe sceso dal cielo e si sarebbe incastrato nelle suo orbite, visto che quegli occhi non facevano altro che rubare i suoi raggi.

Gli occhi di Kurt erano il suo opposto. Sembravano il cielo di maggio. Un azzurro tenue mescolato al bianco trasparente delle nuvole.
Era il colore del mare in estate, quando è mattina presto. Anzi, era il colore di quel punto impreciso in cui cielo e mare si uniscono.
Era il colore dell’orizzonte.
 
E quella maledetta sera, quel cielo e quel mare erano diventati tempesta. Onde, pioggia e grandine che squassavano l’acqua e l’aria. Nuvole grigie di rabbia e dolore.
Non c’era più posto per il sole.
Non c’era più posto per lui.
 
Ed era diventato un sole spento.
 

_____________________________________________________________________________
Pensava spesso all’amore in generale.
“Esistono tanti tipi di amore quanti attimi ci sono nel tempo.”**
Tutti giusti, tutti perfetti.
Quindi si, è possibile amare più persone nello stesso momento.
 
Quello che non è possibile è amare più persone con lo stesso tipo d’amore.
La stessa forza, lo stesso rapimento. La stessa eternità.
Perché il cuore umano è troppo piccolo per poter contenere lo stesso tipo di amore e indirizzarlo a persone diverse.
 
Certo, lui sapeva che il suo cuore avrebbe potuto produrre ogni genere di amore, ma il destinatario sarebbe sempre stato Kurt.
Lo avrebbe amato in ogni modo, in ogni tempo, in ogni contesto.
Forse per Kurt le cose non stavano più così, ma non gli importava.
Non importava quanti altri Kurt avrebbe amato nella sua vita. Non importava quante anime benedette avrebbero goduto del suo sorriso, della sua voce, delle sue mani nelle loro.
Perché c’era stato – e ci sarebbe stato sempre – quell’amore che gli sarebbe appartenuto. In eterno.
Sarebbe sempre stato suo.
Nonostante l’errore.
Nonostante l’odio verso sé stesso.
Nonostante la rabbia di Kurt.
Era una cosa che Kurt non poteva spezzare.
Quel filo che legava i loro cuori.
Sarebbe esistito per sempre.
E grazie a questa consapevolezza, poteva continuare a morire felicemente, giorno dopo giorno.
 


__________________________________________________________________________
Arriva poi il momento in cui la vita decide di metterti davanti a un bivio. In cui ti si presentano davanti agli occhi tutte le paure, tutti i ricordi, tutte le angosce.
Sei in cima a un dirupo, e devi decidere di saltare.
Cadere, per sapere se di sotto ti attende qualcosa di più grande.
Lui era davanti al suo bivio. E tutto intorno a lui urlava paura. Non farlo.
Ma che aveva da perdere? Che vita lo aspettava?
Una stasi perenne, un’attesa che non avrebbe portato alcuna redenzione.
E dunque decise.
Decise di cadere.
 


E lo rivide.
 



Rivederlo non era stato come tornare in vita.
Rivederlo era stato come nascere di nuovo.
E lo guardava, senza mai perdere il contatto, avendo paura persino di sbattere le palpebre.
Lo guardava e basta, senza respirare, senza muoversi, senza parlare.
Lo guardava, lasciando che la vista di lui risanasse il suo corpo martoriato, cellula dopo cellula.
Lo guardava, lasciando che il suo sguardo si beasse e si nutrisse di quello che aveva davanti.
Di quella immacolata perfezione.
Lo guardava come se fosse sul punto di morire e quella visione fosse l’unica cosa che potesse tenerlo aggrappato alla vita.
Lo guardava come se guardandolo potesse purificarsi dei propri peccati.
Rivederlo era stato vitale.
Rivederlo era stato insopportabile.
 
E quando Kurt lo abbracciò, il dolore esplose, annullando l’universo intero.
Fu come farsi aggiustare a crudo un osso rotto.
Un crack che ricompose in un momento l’ammasso scomposto che era diventato.
Un attimo di pena infinita.
E all’improvviso, calore. Tanto calore. Calore ovunque. E luce, luce accecante.
Era pace, era beatitudine, era..felicità.
E poi capì.
 

Kurt aveva riacceso il suo sole.
 

Il sole prosciugò lentamente l’oceano che da mesi gli pungeva gli occhi. Riscaldò ogni fibra del suo essere. Bruciò nel suo petto marchiandolo come ferro rovente. Distrusse i mille cuori che stavano pulsando, splendendo sull’unico tra loro che doveva esistere, infondendogli nuova linfa, regalandogli speranza.
E lo riportò in vita.
Lo incendiò per ricordargli quanto fosse giusta, sana e infinita quella sensazione. Dio, era tanto, era tutto, e mai più avrebbe permesso a quella fiamma di spegnersi.
Guardò indietro, a tutti quei mesi di non-esistenza che aveva vissuto.
Era un qualcosa contro natura. Un crimine verso sé stesso.
 
Sarebbe morto, piuttosto che ricadere in quel baratro. Ma sapeva anche che non dipendeva da lui.
Dipendeva da quegli occhi limpidi, cristallini e pieni di infinito.
Quegli occhi che erano di nuovo il cielo di maggio e il mare dell’estate.
Quegli occhi che avevano spazzato via le nuvole grigie e avevano ridato spazio al sole.
 
Lui non sarebbe sopravvissuto ad un’altra tempesta. Il suo sole non si sarebbe spento, sarebbe imploso.
E di lui non sarebbe rimasto più nulla.
Lo sapeva bene.
Ma tutto precipitava nell’inconsistenza, perché gli occhi di Kurt stavano incontrando i suoi con il più leggero dei tocchi.
Erano sguardi che duravano un infinitesimale battito di cuore.
Ma erano tutto.
Perché in quell’attimo, rivedeva il suo universo azzurro.
In quell’attimo, si sentiva di nuovo a casa.
 
Quello che il futuro gli riservava era oscuro e sconosciuto.
Ma tutto quello che lo manteneva in vita era lì, nel suo presente.
Ed era sufficiente.
 
E un solo pensiero gli nasceva in mente e sulle labbra, in quei secondi infiniti.
se solo potessi,
io non desidererei altro,
che nascere e morire,
per tutta la vita,
come il mio sole,
ogni giorno,
lungo la linea di quell’orizzonte.



*
Notre Dame de Paris, Victor Hugo.
** Mansfield Park, 1999
   
 
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