La dea
Ero
la figlia di qualcuno, e fui portata sin qui proprio il giorno del
(festività random). Venni annoiata, non me ne volli andare via
da qui. Non mi piaceva stare tra tutti quegli anziani, boriosi e
biascicanti. Inoltre, mi osservavano tutti quanti avidi, quasi
volessero possedermi. Non era quello, il concetto, ma qualcosa di
molto peggio: volevano esperimentare su di me la trasformazione da
persona a dea.
Ci riuscirono.
Divenni il loro idolo, la loro
dea: i miei pensieri, le mie conoscenze, le mie memorie si
miscelarono al karma spiritico della natura, rinchiuso poi in una
statua dalle mie presunte fattezze da adulta, scolpita dal mastro
scultore del villaggio.
Non mi piacque, il vedere ucciso mio
padre e l’essere uccisa, pensavo avessero approfittato della di
lui e mia ingenuità, pensavo avessero voluto sbarazzarsi di
noi, due. Quando il coltello trafisse il mio petto ed il sangue
sgorgò dalla bocca, mi vidi in terza persona accasciarmi al
suolo. Ricordo niente di quello che avvenne durante il cerimoniale.
Ricordo solo che rinacqui come spirito e come tale potevo di tutto,
nel bene e nel male, invisibile agli occhi degli uomini, ma avvertita
dalle menti pure – i bambini e gli animali.
Inizialmente,
capricciosa, scatenai tempeste e permettevo ai vulcani di eruttare.
Non potevo più parlare con le persone, non potevo più
provare emozioni, avevano ucciso davanti i miei occhi mio padre, ma
potevo vedere il mondo di cui un tempo ero abitante, e ciò mi
adirava ulteriormente. Avrei potuto vendicarmi, ma ero sempre stata
buona, e non avrei potuto cambiare carattere così,
immediatamente, soprattutto una volta diventata spirito.
Ci fu,
poi, un particolare susseguirsi di eventi che mi fecero cambiare
attitudine completamente.
Col tempo mi accorsi delle abitudini
delle genti del posto, osservandole tutte dal mondo del noumeno: chi
veniva a pregarmi per auspicarsi una vittoria su un rivale, chi
offriva parte dei loro raccolti in mio nome per vedersi crescere il
proprio orto in modo migliore, chi voleva guadagnare, in qualche
maniera, il mio rispetto e il perdono. Non mi ero accorta di aver
vissuto oltre cinquant’anni, scatenando soltanto intemperie ed
ingiurie alla terra mia, ferendo anche i figli innocenti dei miei
assassini.
Nonostante i loro genitori mi avessero scelto per
divinizzarmi, perché nacqui come Oni, e nonostante non
avessi più nessuno con me, decisi di adeguarmi alle loro
richieste, smettendo di causare guai e aiutando le genti come meglio
potevo. Per oltre cinquecento anni aiutai gli abitanti di quel
villaggio, nel quale il mio corpo di pietra era segregato, ma a cui
il mio spirito non era relegato, perché divisosi in più
parti, ognuna delle quali direttasi in diverse zone del Giappone.
Un
giorno, nessuno si presentò al santuario.
La mia frazione
spirituale rimasta lì si chiese come mai di quell’assenza
persistente di” fedeli”, quando ecco che vide qualcuno
tanto disperato da voler sacrificare la propria figlia per potersi
augurare una vincita al gioco – molti di quelli venuti a
venerarmi, durante tutti quei numerosi decadi, erano degli egoisti,
ma le loro richieste erano innocenti e, tutto sommato, altruiste,
mentre costui era un folle vero e proprio – quindi decisi di
intervenire e uccisi l’uomo scaraventandogli un fulmine sul suo
corpo prima che il coltello tranciasse la gola della fanciulla.
Vidi
la bambina rimanere in lacrime, e non potevo consolarla o aiutarla a
sorpassare quel momento, immaginandomela esattamente come me: una
vittima di una società distopica. Siccome non mi era possibile
incarnarmi, mi sforzai di poter concepire qualcosa di materiale e
vivo con i poteri acquistati durante il lungo tempo che ero stata
spirito. Riuscii, dopo alcuni continuii tentativi, a trasformare una
volpe li vicina, in una donna molto giovane, bella ed intelligente.
La donna, però, si sarebbe comportata come una volpe
antropomorfa, se non avessi conferitole un’anima e, non potendo
creare io stessa un’anima, mi chiesi se fosse possibile
traslare la mia anima, racchiusa nella statua, nel corpo di quel
corpo anch’esso privo di anima.
A mia sorpresa, riuscii nel
mio intento e, per la prima volta, dopo cinquecento anni, respirai
aria e potetti toccare quello che mi era intorno.
A lungo rimasi
affascinata dal mio ritorno, e risi di fronte a
quell’idolo
di pietra, adesso un mero sigillo vuoto.
Non sapevo quale fosse
stato il destino delle altre frazioni della mia anima, ma non mi
interessava più, ormai, perché sentivo me stessa, il
mio vero ego, nuovamente libero e materiale.
Mi avvicinai alla
fanciulla, rimasta in lacrime sull’altare, davanti l’idolo
di pietra. Quando mi vide avvicinarmi, non distolse lo sguardo dal
mio corpo, coperto da un manto rossiccio e bianco, proprio come il
pelo della volpe che un tempo era stato quel corpo in cui risiedevo.
La piccola mi corse vicino, vedendomi con le braccia tese verso di
lei in segno di amicizia, e, continuando a effondere lacrime, si fece
stringere al mio petto. Le assicurai gentilmente speranza, di vedermi
come una guida. Solo così avrei potuto raggiungere il mio
obiettivo: dare a quella fanciulla una famiglia, permetterle di
vivere felice e lontana da quei ricordi angoscianti.
I progressi
furono lenti, la piccola rimase ancora in uno stato di tristezza per
lungo tempo, impedendomi di raggiungere l’obiettivo
prefissatomi in precedenza. Mi considerava sua mentore e amica,
comunque, e questo mi bastava ad ispirarmi fiducia.