Lettera di un Tedesco alla cugina Francese
Cara
Cateline,
a scriverti è Ragnol, il tuo poderoso, di nome e
di fatto, cugino bavaro. Come ogni quindicesimo del mese ti
tumideggio.
Sono molto auspicale, oggi, perché ho gioito
del tuo superamento dell’auscultazione d’iscrizione per
l’ammissione al Franche-Comtè di cui mi hai accennato
nella lettera precedente. Qui in Germania noi stiamo celebrando il
Karfreitag,
il
venerdì santo della Pasqua. Curioso, vero? Fu proprio questo
il giorno in cui ricevetti la tua prima lettera, e da allora ti
scrivo sempre, tutti i quindici di ogni mese. Oggi, dopo quattro
anni, il Karfreitag
è nuovamente capitato il quindici di Aprile, e la giornata,
per me, è ancora più speciale. Memorio perfettamente
gli eventi di quel giorno solingo e ne sottorido, sebbene il
casellario che ho in testa, solitamente, li macula. Quel giorno
marzolino, in cui tu, siduta da sola sotto quel pino nel parco di
Dummer, a Bersenbruk, con quel tuo cicerone tra le tue manine e la
bambolina di pezza sulle gambe conserte, distaccata dai tuoi zii,
intenti a chiacchierare del più e del meno, mi scorgesti
rincorrere la giaccia garrula sfarfallante a causa del turbine. Non
ti notai subito, ma quando sgranasti per ridere della mia
impacciosità, istantaneamente cogliesti la mia attenzione. E
vidi quella fanciulla flava e cerulea, il cui sguardo,
condiscendente, era ravvivato da quel torello negricrinato impacciato
nei movimenti.
Ci capimmo all’istante, appena incrociammo
gli occhi: sia io che te mantacavamo interiormente. Comuque ci
salutammo, ci introducemmo, e sebbene inizialmente ci fosse seccaia,
bastò qualche chiaccierata per conoscerci meglio e per
sguainare, recirpocamente, un tesoro. Usando un eufemismo, rimasi
choccato; eri stupenda, non come quelle pocofile addobbate di nero e
autolesive. Ti ricordi il cafè in cui passammo tutta la
pasqua? Si chiamava… Moin-Moin!
Si! “Giorno-Giorno! Che nome simpatico aveva! Eri impasta di
cioccolatini e dolciumi, non risparmiavi niente, i Lebkuchen,
gli Swiss
roll,
i Gugelhupf
inorridivano
innanzi a te. La contenevi la tua golosità, comunque; la
malacia veniva soppressa dal beccolare una sola quadra di dolce a
pasto, lambiccandone tutte le quadre. Io, invece, finivo tutto quello
che avevo in pochi istanti, perché abituato ad una vita
celere, e tu ridevi, perché rimanevi sbigottita, abituata a
vedere quelli del tuo rango a mangiare con un certo savoir-faire
ipocrita, e mi consideravi spontaneo, sempre, pure quando mangiavo,
perché discoprivo me stesso, non vallandomi dietro sciocchi
precetti imposti dall’etica spicciola. Sei l’unica
persona che mi ha imposto la Pasqua, durante la mia vita claustrale.
Risacchi?
Bene, perché ti appulcra, il riso.
A
pensarci bene, se non ci fosse stata quella tua prima lettera che
ricevetti molti anni fa, qualche mese dopo la nostra separazione, in
estate, quando io rimasi qua con mio padre per lavorare, mentre tu
tornasti lì a Bourgoin Jallieu, per continuare gli studi, non
ci saremmo più tenuti in contatto. Sarei una persona diversa.
Senza il tuo supporto, non sarei diventato così, sarei
rimasto malferace, proprio come quando non avevo nessuno con cui
potermi relazionare, perché nessuno capiva la mia passione per
la lettura e la volontà di diventare uno scrittore per
vocazione.
In cambio, purtroppo, ogggi, posso permettermi solo di
scriverti, cara cugina. Avrei voluto augurarti di persona di putare
bene sulle griglie universitarie, di ignorare le pressioni sulle tue
spallucce virgulte e elisee; avrei voluto sciaperonarti al Cafe
Moin-Moin un'altra volta, per ganzarti quei succulenti Lebkuchen
dalle
forme bizzarre, per poi vedere i mazzieri delle giostre dedicate al
Karfreitag,
dove
tutti quanti spingano, e ludono per glorificare il Signore. Il
Signore, già.
Proprio lui, di cui adesso tu sei ospite,
nei suoi cieli, mentre io sono ancora confinato al regno terreno, e
poggio questa lettera sul tuo avello, l’avello di una persona
morta prima ancora di maturare del tutto.