Diurnale di chi è confuso sul tema dell’amore
“Noele. Noele. Noele. Noele. Noele. Noele. Noele. Noele. Noele. Noele.”
Quante
volte crespitavo io, Jean Fèvrier, il nome di quella fiera,
quella striggine, quella meretrice, la cui abalietà col
sopruso e l’algolagnia è ora ineruttabile rimescolio,
sulle pagine del mio effemeride!
E’ impolverato, il diario,
perché l’ho abbrancato dopo mesi di percussione:
eiettato nella latebra della mia casa, effuggito per dedicarmi a
faccende molto più urgenti che stendere sulla carta le mie
personali considerazioni sulla mia vita – essere poliziotto, in
una città costiera come Marsiglia, è esoso, si
prioritizza il manto cittadino. Per questo non mi sono potuto nemmeno
maritare. Inizialmente, ero poco propenso al connubio, ma pensavo di
poter recuperare successivamente. Giammai! Ormai, è tutto
diverso. Da quando è arrivata lei, solo lama nel nostro
ufficio – per lo meno, questa è la mia impressione,
perché i miei colleghi o riescono a sopportarla o le sono
complici. Riportiamo i fatti: quandunque scartabellassi il casellario
per ordinare il catarnao di fogli scombuiati, oppure squadrassi
un’imbastitura per essenzializzare le manovre per la missione
successiva (nessuno m’orbava dell’arredo di essere
sconfiggitore del crimine, per lo meno), ero seduto innanzi il mio
bureau, ed ogni volta, la stessa routine, oh!, che algie:
“eccola pertingersi sino al mio ufficio per spincionare con
quel suo sgrignolio di Tarrasque infando e di abondevole zibetto”
putavo, mentre la scorgevo,con l’occhio, bussare alla porta per
rapportare.
Agguatava per comprendere i momenti più
castranti della giornata in cui poter transire nel mio ufficio per
cloroformizzarmi, quella meretrice. Mi appallava al punto da rendermi
così bestino da sperarla premorta o svergolarta dalla mia
stessa MAB Model A: un proiettile dentro il coppo, ed è
finita!
Si, volevo anciderla, la volevo abapicale. Eppure non riuscivo, perché, sebbene provasi nimistanza indentro, così tanta da rendermi un villano, quelle mie querimonie sollazzevoli sarebbero trasfumate. Avrei scrutato Noele, a mia sorpresa, una calmucca da cui avocare verve.
Quel
sembiante di lei, identico a quello sororio, a quello dell’esaninata…
sapevo di dovermene sfangare, di quella labbia. Si, doveva finare,
liverare, procombere! Uccisala, la sua presenza non mi avrebbe più
squassato, le leptosille l’avrebbero crapulata nel suo tumulo!
Certo, disfarmene era la mia lesca, ma non ero pronto ad attuarla.
Pensavo di essermi preparato a sufficienza, ma qualcosa mi ha
bloccato, l’altro giorno. Sono stato sconfidato dall’ucciderla.
Stavo lì, soprasseduto come sempre divanti il pergameno,
mentre raggiavo su qualche foglio, sfastidito dal tempo inesorabile e
coninuo. Rivangando adesso la noia, viene allisa ancor più la
merce. Dopo un’ora barbogia, qualcuno bussò. Mi sussurai
malignamente che fosse Noele a bussare, e trasecolare per aver
premonito il suo arrivo. L’entusiasmo di saggiare coi
luccicanti la mia ributta – lei, però, era ignara di
questo suo status – m’astrinsce ad acconsentirle
l’ingresso, in veto alla repulsione di subire la totina. Aprì
la porta.
Mi ammalava il suo livello. Mi avvicinai a lei,
chiedendole di che abbisognasse, aggiungendo del pizzicore alla voce,
sperandomi la lippa più conscia della situazione. Attesi una
risposta accennando un ringhio. Niente. Mi girai. Stava ridendo di me
silenziosamente?
Mi volsi. Un cipiglio. Frustra esprimeva il
turore , seppur sottana al commissario del reparto investigativo.
Ci
voleva di più per sobbalzare un uomo maturo con quel volticino
corruscato. Ammonendola per quella sua bravata, le ordinai di
esponere. Lei distolse lo sguardo. Stava tentando di ignorare il
contatto diretto occhio per occhio, la mocciosetta?
Senza
esitazione, collocai la mia mano sul suo volto, la obbligai a
vedermi. Le volevo ridere addosso per quel suo volto leprino forzato
dalla pressione della mia mano, ma così le avrei mostrato il
mio sadismo con il quale mi sentivo felice. Il fioco affanno uscito
dalla sua bocca mi rese leggermente triste, ma subito fuorvia quel
sentimento di mestizia. Subito le chiesi, più serio e meno
focoso, quale cilizio la stesse danneggiando. Lei mi rispose di
volermi solo porre una domanda. Perché, mi chiedo oggi, perché
mi parve tanto dolce allora?
Iniziai a disgurtarmi. Mi era invisa,
eppure notai la sua pelle sericea. Calda e soffice. Il desiderio di
trattenerla le fece fuggire via.
Le chiesi di pormi queste due
domande in fretta, perché ero impegnato in faccende più
importanti dei suoi comodi personali. Nuovamente, quell’espressione
ostentatante onesta triste mi stava facendo ribollire il sangue.
Proprio quando stetti per urlarle per davvero addosso, apri la bocca
e mi chiese di voler sapere perché ero tanto malvagio con lei.
Quale impudenza! Chiedere a me, il capo della polizia, perché
fossi tanto cattivo con lei! Non solo lei assomigliava tantissimo a
mia sorella, uccisa da una banda di stupratori mentre stava tornando
dall’università, non solo la sua voce era identica alla
sua, non solo era fragile e carina come lei, aveva anche il coraggio
di pormi una tale domanda! Nuovamente stetti per perdere il
controllo, ma non potevo, non potevo, mi sentivo confuso e
intimidito, proprio nell’istante perfetto in cui poter
esprimerle tutte, il momento in cui farle bere la broda
dell’umiliazione, non riuscivo a convincermi di umiliarla.
Perché? Quale dio mi stava bloccando?
E lei? Pareva stesse
per piangere. Onestamente, davvero ero tanto cattivo con lei. Forse
questa fu una domanda stolta, ma avevo le mie ragioni! Non c’era
alcun modo, alcun modo per cui io mi sarei dovuto comportare
magnanimamente con lei. Probabilmente, stava tentando di convircermi
ad essere bonario, quella strega.
Le risposi sardonico di non
odiarla, mi capì, perché lì, su per giù,
quasi stava per erompere in un pianto forte. Mise le mani innanzi il
volto e pianse. Innanzi a me? Donne, fastidiose e sensibili.
Non
avevo mai visto una donna tanto scontenta innanzi a me. Non avevo
nemmeno intuito su come reagire a quel suo pianto.
Stavo per
esacerbarne l’animo dicendo qualche altra insolena, ma
l’istinto mi obbligo a fermarmi. Qualunque fosse quell’istinto,
volevo liberarmene, ma non potevo, perché era ed è
ancora parte di me!
Ancora oggi mi chiedo cosa fosse
quell’istinto, ma poggia la mia mano destra sulla spalla, e
quando lo feci, mi osservò repentina.
Quei suoi occhietti
verzicanti come un abete della Forêt
des Dhuits
mi
penetrarono il cuore come un pugnale. Perche erano tanto stupendi?
Dove era rimasta quella bellezza. Suppongo non li avevo mai notati,
così come avevo sempre ignorato tutto il suo corpicino.
Scrollai il capo e tentai di sviare la mia testa da questi pensieri e
prima di parlarle, lascia fuggire una risatina. Parevo un idiota, un
idiota nel vero significato della parola! Per quale motivo
ridacchiare? Penso fosse dovuto al fatto di averla vista piagnucolare
mentre mi osservava e, nonostante la sua sofferenza, ne ridevo. Tutte
quelle stoltezze mi fecero sentire insensato. Comunque, dopo quella
stupida risatina, le dissi di non odiarla, ricevendo in risposta
un'altra domanda, con la quale voleva sapere perché la
tormentassi.
Avrei potuto benissimo urlarle di non impicciarsi nei
miei affari, eppure neanche riuscii a lamentarmi. La sua domanda mi
fece riflettere, riflettere tanto, e alla fine compresi di non avere
alcuna ragione per quel mio comportamento. Certamente, odiavo il suo
volto, perché mi ricordava mia sorella, ma allo stesso tempo…
proprio perché mi ricordava mia sorella, lo amavo.
Fu un
piacere colpevole, e quando rimossi la mia mano dalla sua spalla e la
osservai, ecco che ci stavamo fissando, aspettando, reciprocamente,
una risposta. Quegli abbagli, quegli orbi celadon di lei mi stavano
facendo impazzire. Che mi stava succedendo?
Quante volte ci penso
su quell’evento. Per qualche ragione, le sue lacrime la resero
anche più raggiante. Raggiante… davvero utilizzai
quella parola? Volli avvicinarmi di più al suo volto, me lo
giurai, ripetendo continuamente quelle parole nel mio cervello.
La
abbracciai e, per il mio piacere, riuscii a vederla sorridere.
Inizio a ridacchiare e porse la sua manina coperta dal guanto
bianco sulla sua boccuccia. Le sue risatine mi irritavano,
tantissimo, eppure ne godevo. Mi sentii alleggerito e non era comune
per me, specialmente quando avevo rapporti con Noele.
Le ordinai
di smetterla di ridacchiare, cercando di suonare serio nuovamente.
Lei si scuso, rise ancora e si asciugò gli occhietti con la
sua manina piccina. Mi disse di non avermi mai visto essere tanto
affettuoso e la considerava un’improvvisazione inusuale da
parte mia. Perché? Stava piangendo proprio alcuni istanti fa
e, per rasserenarla, mi ero dovuto umiliare in quel modo…
abbracciandola? Una fanciulla strana… strana e bella.
Le
dissi nuovamente di non odiarla, per laconeggiare la questione, però
lei pose le braccia dietro la schiena, pinzò tra loro gli
indici e continuò a chiedermi se davvero ero serio quando le
dicevo che la volevo vedere morta e la picchiavo. Stava tentando di
danneggiarmi, adesso? Do
ut des? Mi
poggiai la mano sui capelli, sbuffai e mi smossi i capelli in segno
di frustrazione. Mi avvicinai a lei, incrociai le braccia e le dissi
di dimenticarsi degli eventi passati e di pensare soltanto al futuro,
iniziando col concentrarsi ad un’altra domanda da pormi li,
seduta
stante.
Quello
era il mio vero ego, e questa volta non mi sarei lasciato
condizionare.
Una
tantum
può capitare contra
spem spero,
ma non
de integro!
Mi
ero illuso, perché non durò molto quella certezza.
Sarei cambiato totalmente quel giorno. Ora era stupefatta in
volto, non si aspettava alcuna scusa da me – così come
sarebbe avvenuto, de
facto
- e le chiesi nuovamente di pormi la domanda che mi avrebbe voluto
porre, immaginando di non aver mai sentito la prima e di non aver mai
assistito alla discussione creatasi prima.
Ora, lei iniziò
ad arrossire, risultava più misteriosa. Quando inizia ad
avvicinarmi alla porta per farla uscire, lei subito mi disse di avere
avuto in mente di uscire assieme per passeggiare sul lungomare.
Credette di avere davanti a se il tacchino della città, il
donnaiolo, il sospirante. Ebbene, no! Sebbene non riuscissi ad essere
davvero cattivo con lei, le ordinai immediatamente di tornare al
posto suo, ma le ordinai ciò da parre una caricatura di me
stesso.
Quale mughetto salace quello cosparso dal corpo della
lamia.
Anche questo non avevo mai notato. Un uomo come me poteva
infischiarsene, comunque, di spiagge e tramonti, ma se con ciò
fossi riuscito a starle vicino? Pensai di approfittare, per quella
sola volta. Quale errore. Quanto si accaldò la mia sottoposta.
Sebbene lo nascondessi, in realtà mi stetti sentendo molto
bene, quel giorno. Le dissi, con il mio tono austero, di poter
spendere un po’ del mio tempo con lei, ma solo per quella
volta. Noele mi sorrise e mi rispose di andare. Iniziò a
correre, e correva veloce! A dire il vero, era una vera e propria
odissea il rimanere assieme a le. Era più veloce di me, e
mentre correvamo, quasi inciampavo ogni dieci metri, e ciò mi
angustiava non poco. Uscimmo dalla struttura e ci trovammo all’aria
aperta, con nessuno intorno, in una città fantasma con un
cielo incredibile. Normalmente non mi sarei accorto nemmeno dello
splendore del cielo, ma, ammetto, mi parve squisito.
Anche il
clima era mite e fresco. La tenuta di Noele era adatta a quel clima
temperato, mentre la mia mi stava uccidendo.
Dove lavoravamo noi
l’aria condizionata, ovviamente, funzionava. Male. perché
se si impostava il contatore a, diciamo, “Caldo Mite”, il
caldo era estremo; lo stesso se si volesse discutere del “Freddo
Mite”. Invece fuori, quale frescura. Noele puntò il dito
verso la spiaggia, avvisandomi di proseguire verso quella direzione,
ed io le risposi di sapere dove fosse la spiaggia, affannando per la
stanchezza. Noele, sebbene fosse rapida quanto una cerbiatta, non
mostrava segni di stanchezza, anzi, sembrava propensa a consumare
ancora più energie. Proprio bizzarra, costei. Squillò
di dirigerci laggiù, e corse verso la costa, mentre io,
stanchissimo, mi mantenevo le ginocchia con le mani, in piedi,
curvato come il gobbo del Notredame
di
Hugo.
Dopo un paio di minuti, iniziai a camminare sulla spiaggia.
La
vidi correre e calciare nell’acqua con i piedini nudi, ridendo
al solo contatto con le spume del mare. Vederla felice, per la prima
volta in vita mia, mi rese allegro come non mai. Era questo quello a
cui, inconsciamente, aspiravo. Sembrava proprio di si.
Dopo un
instante, riuscii a raggiungerla. Il suo berretto se l’era
tolto e l’aveva posto al di sopra di uno scoglio lì
vicino, ma abbastanza lontano dall’acqua marina, per evitare
che qualche onda anomala se lo portasse via.
I
suoi capelli: lunghi e rutilanti. Mi piaceva come questi cadevano
sulle spalle e venivano mossi dalla brezza. Iniziai a realizzare
delle qualità praticamente perfette di Noele: avevo permesso
alla mia rabbia di oscurare la mia mente da ciò che davvero
volevo vedere in armonia con me stesso e, tra esse, v’era anche
la contentezza di Noele. Durante la mia vita, quante ne ho viste di
donne, e nessuna era stata sempre cortese come Noele, con me,
nonostante i miei continui rimproveri e la mia presunzione. Tra le
mie altre colleghe, Cecile era troppo seria per i miei gusti, Caprice
una vera e propria lasciva, Racquel un’altezzosa, Oceane
fastidiosissima, Lave una prostituta vera e propria. Noele, invece,
manteneva una certa purezza intorno a lei, e realizzai di volerla,
quella purità. Durante quell’esatto momento la stavo
guardando giocare con l’acqua, sapevo di amarla.
Ma la mia
mente dicotomica stava combattendo, in me. Aveva il volto di mia
sorella, come avrei potuto amarla? Decisi di dover ignorare le
opinioni di chiunque mi fosse intorno, persino di mio fratello, se
davvero l’avessi voluta amare. Ma quanto sarebbe stato
difficile!
Il solo pensiero di come ero stato tanto malvagio con
lei sin dall’inizio inizio a ferirmi lo spirito. D’un
tratto, smise di giocare e mi guardò. Perscrutò in me
una certa irrequietezza, mi chiese se stessi bene, mentre gettava
un’occhiata rapida al suo riflesso nell’acqua.
Io
rimasi per un attimo meravigliato, vedendo quella sirena sotto il
nimbo del tramonto e sentendo le onde del mare muoversi.
Pareva
un sogno. E se fosse statolo in vero, un sogno! Avrei preferito non
svegliarmi. Finalmente, ero felice, e mi sentivo anche saluberrimo.
Una gentile ventata soffio e le alzò un po la veste,
ampliandomi la visuale sulle sue gambe toniche.
Non era solo il
corpo di Noele ad interessarmi, ma anche la sua personalità
molto bilanciata.
Mantenne la veste abbassata il più
possibile mentre il vento soffiava, le guance ora rosate,
aumentandone la bellezza.
Se solo fosse stati là, in quel
preciso istante, come me, unici spettatori di quella feèrie!
Camminai lento verso di lei, le guardavo le amorevoli gemme portate
al collo con un cavetto.
In poco tempo la raggiunsi, i corpi di
entrambi vicini, e mi sorpresi di vederla ancora lì, davanti a
me, ritta e sicura di se.
Sembrava si trovasse ad agio intorno a
me, e ciò, davvero, mi sorprese. Mi sentii confidente e
abbracciai la siluetta perfetta di Noele. Il suo respiro sempre più
veloce, si stava innervosendo!
Non al biasimo. Con la sua
fiochissima voce pronunciò il mio nome, però come se
volesse evitare quel contatto fisico, ma io, invece, la strinsi
ancora più a me, e sentendone i seni soffici e piccoli battere
sul mio petto. Quale sensazione bella, ma comunque non potevo
eccedere, dovevo mantenere una certa etica.
Le confessai che,
sebbene l’avessi sempre trattata male, e le augurassi mali e
morte, in realtà volevo soltanto… Smisi di parlare,
quasi come se mi fossi affogato con le mie stesse parole. La sua
bocca era aperta, gli occhi pieni di incredulità, il volto
arrossato.
Dovevo confessarle i miei sentimenti, dovevo! Poggiai
cautamente la mia fronte sulla sua e le dissi, il più
sinceramente possibile, per quanto risultasse impacciata, quella mia
confessione, di amarla, di amare Noele Lemieux. Dopo la confessione,
stavo per baciarla, ma mi sembrava forzato, quindi decisi di evitare.
Mi osservò come volesse piangere nuovamente, ma questa volta
il suo era un pianto di gioia e non cagnesco. Mi soprese un ennesima
volta, Noele: strinse le braccia intorno il mio collo e, colle sue
umide labbra, baciò le mie.
Avvertii
una sensazione di piacere fulminante lungo la mai colonna vertebrale,
proprio nel preciso istante in cui ricevetti il bacio.
A
pensarci, quello fu il mio primo bacio, e chiunque avrebbe voluto
essere al mio posto, quando si trattava del PRIMO bacio.
Mi
chiesi se fosse anche il primo di Noele. Sicuramente sembrava sapesse
come baciarlo, un uomo, comunque. Il bacio condiviso tra noi non era
ne rozzo o folle, era quieto. Con le mie mani tastai le sue guance e
approfondii il bacio. Il fievole gemito di Noele intensificò
le mie passioni ed i miei sentimenti, non potevo non gemere un poco
io stesso quando questa mi baciò a sua volta, con la stessa
passione con cui la baciai io. Dopo qualche minuto, ci fermammo e ci
osservammo. Pose la sua mano sinistra sul mio volto e mi disse di
avermi amato, sempre, di nascosto, così come io l’avevo
sempre amata. Con la mia mano sinistra rimossi alcuni dei suoi
capelli dal suo volto angelico e le ordinai di chiamarmi per nome,
Jean. Capì.
L’abbracciai stretta a me, provando il
meglio della mia vita in un piccolo istante. Anche lei mi abbraccio
con altrettanto vigore, affondando il mio volto nel suo petto.