Anime & Manga > Il mistero della pietra azzurra
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Autore: ViKy_FrA    07/08/2007    15 recensioni
Dove? La Parigi dell'inizio del terzo millennio.
Quando? Giugno, la fine della scuola e gli esami.
Chi? Due ragazzi di sedici anni.
Come? Ballando, alla festa di fine scuola.
Perchè? ...vi rovinerei la sorpresa...
Con questa FanFic partecipo al 26° concorso di questo sito... Ditemi voi che ne pensate!!!
Genere: Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Jean Roque Raltique, Nadia (Nadia Ra Alwar)
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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Il Mistero Della Pietra Azzurra (Nadia Dal Mare Blu)

Il Mistero Della Pietra Azzurra (Nadia Dal Mare Blu)

Voglio (ancora) vederti danzare

 

 

 

Il mercoledì mattina il cielo è più azzurro.

Così l’aveva salutato un giorno di tanti anni prima. Erano in sesta, o in settima, non avrebbe saputo dirlo. Non diede spiegazioni, e lui poté solo immaginare i suoi pensieri. Forse perché si poteva alzare più tardi, quando il sole era già alto. O forse proprio perché poteva permettersi di svegliarsi presto per vedere l’alba, e tornare poi a dormire più tardi.

Non aveva aggiunto altro, e lui era rimasto a fissarla, mentre lo precedeva entrando a scuola. La tracolla marrone con solo i libri delle lezioni pomeridiane1, i capelli neri fino alle spalle, e quella sua andatura sognante ed evanescente, come se lei appartenesse ad un mondo diverso da questo...

 

* * *

 

- L’ultimo sabato di giugno c’è la festa delle prime per la fine definitiva della scuola, in quel locale dove prendono sempre le scolaresche… ehm… Cielo, mi sono dimenticata il nome!

Nadia si sedette nel posto vuoto accanto a Jean, durante l’intervallo mattutino di uno degli ultimi giorni di scuola, le gambe allungate sotto il banco, abbandonata contro lo schienale.

Lui annuì; evidentemente lo stavano decidendo in quel momento e Nadia si era opportunamente intrufolata tra gli organizzatori.

- Ci vieni con me, – riprese Nadia – o vuoi provare a chiederlo a qualcun’altra… E’ l’ultima festa…

- No, no… Non ho nessuna intenzione particolare… Facciamo come al solito.

- Ok, allora vado a confermare la nostra presenza.

Sgusciò fuori dal banco con quella flessuosità e quell’eleganza che soltanto lei in tutta la scuola aveva. Sembrava avere piena padronanza del suo corpo, una tale confidenza da rendere armonioso anche il gesto più banale.

Jean restò a guardarla mentre tornava al lato opposto dell’aula e scambiava due parole con i rappresentati di tutte le classi prime; si sedette su un banco, ascoltando tutti gli altri particolari da sapere; si ravviò i capelli dietro le orecchie, iniziando a dondolare le gambe a penzoloni; qualcuno fece una battuta e lei scoppiò a ridere, portandosi una mano alla bocca.

Solo quando suonò la campana della fine della ricreazione, Jean si accorse di non essersi perso un solo suo movimento, totalmente dimentico del libro di inglese che lo aspettava per l’ennesimo ultimo disperato ripasso.

 

Per loro era normale fare coppia fissa. Si conoscevano fin da tempi immemori, amici d’infanzia e compagni di classe; nulla si era mai messo fra loro, nemmeno il muro che divideva due aule diverse. Quando erano iniziate le feste con i coetanei, un po’ perché era naturale, un po’ per vincere l’imbarazzo, avevano iniziato a frequentarle insieme. Col tempo avevano finito col formare una specie di coppia, con l’unica differenza rispetto alle altre di non avere l’abitudine di sparire a metà festa per una sano e intimo scambio di baci.

Le uniche circostanze vagamente simili erano tutte imputabili al caro vecchio gioco della bottiglia, all’epoca dei loro ingenui – ma non troppo – dodici anni. Un semplicissimo bacio a stampo, che Nadia gli aveva dato dopo essersi alzata con naturalezza dal cerchio che formavano con gli altri ragazzini, come se lo stesse baciando sulla guancia. Lui, imbarazzato più da quella pubblica manifestazione della loro confidenza che del bacio in sé; lei, che lo aveva fatto senza nessuna malizia, come se quel gesto avesse esclusivamente per loro tutt’altro significato.

Poi, quando erano più grandi, era capitato altre volte; l’iniziativa sempre di Nadia, era solo un modo di salutarsi dopo un periodo di vacanze o di ringraziarsi per un regalo.

Inoltre Jean non aveva più cotte dai primi anni di scuola, quando non si pensava certo di frequentare l’oggetto dei propri pensieri, ma bastava guardarlo, regalargli una gomma colorata e ridere alle sue battute. Nadia, invece, pur apprezzando vivamente ogni ragazzo carino le capitasse sott’occhio, non riusciva mai a trovare un buon motivo per innamorarsi, erano sempre su due lunghezze d’onda diverse.

Ma soprattutto erano amici. Insieme stavano bene, si sentivano a loro agio; potevano, parlare, scherzare, confidarsi. Avevano un’ottima intesa e tutto quello che facevano insieme sembrava sempre più divertente, o meno triste, o meglio riuscito.

Così, volenti o nolenti, avevano finito col formare una coppia.

 

Il sole pomeridiano splendeva allegro sulla Parigi di fine maggio, costringendo gli studenti che stavano uscendo da scuola a cercare le strade più in ombra. Nadia si portò subito una mano sulla fronte per ripararsi gli occhi, mentre riferiva a Jean gli ultimi dettagli della festa di fine anno.

- Sperando che tutti abbiano da festeggiare, dopo gli esami… – concluse la ragazza, mentre l’entusiasmo calava visibilmente.

- Stai tranquilla, se c’è qualcuno a rischio non sei tu! Non hai mai preso nemmeno una insufficienza!

- Infatti non è per me che mi preoccupo… Pensa che tristezza se noi fossimo lì a divertirci mentre altri sono a casa in lacrime!!

- Decisamente deprimente… - confermò.

Nadia sbadigliò coprendosi la bocca con una mano, mentre l’altro braccio si allungava flessuoso sopra la sua testa con l’intento di stiracchiare tutto il corpo.

- Andiamo in piscina un giorno di questi?

- Ma abbiamo la Senna! – scherzò Jean.

- Vattene al diavolo! Io lì non ci entro, è più sporco di un pozzo nero!!

- Infatti scherzavo… - precisò – Facciamo sabato questo? Così facciamo via tutto il giorno.

Nadia annuì, i capelli sottili seguirono docili il movimento della testa.

- Tanto non è una giornata che determinerà l’esito del mio esame!

- Guarda che il mio progetto di fare la secchiata domenica fin dalle otto del mattino è ancora valido…

- Ah… Che bello… - commentò con manifesto sarcasmo – Beh, allora fermati direttamente a dormire da me! Ai nonnini non darà fastidio. Credo… Dai, passa da me che glielo chiediamo!

- Perché dovrei esserci anch’io?

- Così possiamo organizzarci in un’altra maniera…

- Non abbiamo tante opzioni, o disturbo o non disturbo…

- E allora passa da me per un thè! – concluse spiccia.

- Nadia…

- Che c’è ancora?

- La stazione della metro è di qua…

Erano ad un incrocio e Jean stava indicando la strada a sinistra, mentre Nadia, di due passi avanti a lui, stava tirando dritto.

- Visto, sei stressante! – provò a giustificarsi.

- No, sei tu che sei perennemente stordita!

- Ora sono offesa! – protestò fermandosi lì dov’era.

Jean si voltò sospirando – Dai, che perdiamo la metro!

- Sono offesa lo stesso! – continuò a prenderlo in giro.

Senza preavviso, lui le afferrò la mano e prese a correre; Nadia, che non se lo aspettava, incespicò per i primi passi, ma ci mise poco a metterglisi a fianco – del resto non aveva mai perso una gara, lei.

Aveva una mano piccola, che stava perfettamente in quella di Jean, mentre gli correva accanto, le gambe scoperte dalla gonna a pieghe, slanciate e sottili. La strada, gli scalini verso il basso, la banchina e poi un piccolo salto per riuscire a prendere il convoglio in attesa di ripartire. Jean inchiodò mentre il vagone iniziava a sferragliare e le porte si chiudevano, così Nadia gli sbatté contro, sul braccio.

- Scusa… - biascicò mentre le veniva naturale posare la mano libera sulla sua spalla per staccarsi e rimettersi in equilibrio.

Da quando le loro mani non erano più grandi uguali? E da quanto le loro spalle non potevano più toccarsi per la lunghezza di una spanna?

- Figurati… - mormorò, a causa del fiatone. Nadia invece sembrava appena tornata da una salutare passeggiatina in campagna.

Trovarono due posti a sedere vicini, e le loro consuete chiacchiere tolsero dalla testa di Jean ogni inusuale pensiero.

Meno di venti minuti dopo, davanti alla fontanella a rubinetto anziché separarsi, i due svoltarono a sinistra, verso la casa di Nadia.

I “nonnini” con cui viveva erano una coppia di anziani che da sempre l’aveva cresciuta. Non avevano mai avuto figli loro, eppure in compenso c’era una grande passione a colorare le loro vite: il circo. Avevano iniziato come acrobati, ma con gli anni e con l’impegno erano riusciti a formare la loro compagnia ambulante. Nadia gli era letteralmente piovuta dal cielo durante una tappa nei pressi di Digione. Una sera, dopo uno spettacolo, quando il tendone si era già svuotato, la signora l’aveva trovata addormentata e accovacciata su una delle panche degli spettatori. Se ne innamorò a prima vista. La portò subito nella loro roulotte, quando si svegliò si premurarono di darle qualcosa da mangiare e cercarono di ricavare tutte le informazioni possibili che si possono ottenere da una bambina così piccola. Seppero che si chiamava Nadia, che le piacevano i gatti e quando le chiesero l’età rispose “Così!” mostrando il dito indice, il medio e l’anulare alzati – che strano modo per indicare il tre, pensarono subito.

Nei giorni successivi indagarono, ricercarono e si informarono, ma nessuno aveva denunciato la scomparsa di una bambina, né ai comuni intorno, né nel quartiere nero o nel campo nomadi alla periferia di Digione. Dopo un mese, scaduta la tappa, decisero di partire con la piccola Nadia, considerandola una specie di piccolo angelo sceso a completare la loro già felice vita.

Nadia crebbe nel circo. Non si esibì mai, ma era in grado di competere con tutti gli artisti che lo formavano. Il suo compleanno divenne il giorno in cui era stata trovata, e l’amore per i gatti si evolse presto in quello per i leoni. A otto anni era già in grado di ammaestrarli, benché non fu mai lasciata sola con loro.

Doveva compiere dieci anni quando il nonnino, che ormai da tempo aveva smesso di esibirsi, cadde dalla scala mentre sistemava la scena. Si ruppe solo una gamba, ma il fatto fece capire ai due proprietari che era tempo di dedicarsi ad altro. Avere un circo senza poterlo vivere, senza poter partecipare un poco alla sua vita non aveva senso per loro, così lo chiusero, congedando tra le lacrime generali i dipendenti. Scelsero di stabilirsi a Parigi, la città dove si erano conosciuti, quasi mezzo secolo prima e presero una casa a pochi metri proprio da quella dove viveva un bambino con i capelli chiari e gli occhiali tondi.

 

Jean, invece, praticamente era cresciuto con gli zii di suo padre. La madre, che viveva con lui, soffriva da sempre di cuore, e le erano tristemente più familiari le tende bianche dell’ospedale che quelle rigate della stanza di suo figlio. Il padre, arruolato in marina, era stato dato per disperso quasi dieci anni prima, al largo delle coste sud Americane. La notizia non aveva fatto che peggiorare definitivamente le fragili condizioni della moglie, e reso ancora più mite e insicuro un bambino che sentiva tanto la mancanza del suo papà.

Jean prese l’abitudine di giocare da solo nella strada sotto la palazzina, eccezion fatta per le rituali visite di cortesia di cugini e parenti, mai attese con particolare trepidazione. Se non altro, gli zii paterni si erano trasferiti sotto il l’appartamento suo e di sua madre, per “Non lasciar sola la povera Delphine”, ma Jean aveva imparato col tempo, man mano che crescendo somigliava sempre di più a suo padre, che anche loro avevano cercato solo la consolazione per la perdita di un nipote amato come il figlio mai avuto.

Accadde una sera, quando il sole stava ancora tramontando, l’estate prima di iniziare la settima. Durante uno dei suoi giochi solitari, Jean vide una bambina scura molto graziosa, che lo guardava accanto alla fontanella.

Non poteva immaginare che insieme al sole stesse tramontando anche la sua solitudine.

 

Nadia posò un bicchiere di the prelevato direttamente dal frigor davanti a Jean, seduto al tavolo della cucina.

- Ma dove saranno andati? – si lamentò la ragazza, sedendosi anche lei al tavolo.

- Tu non bevi?

- Mh? No… Aspetto che tu te ne vada per attaccarmi come un rozzo alla botte di birra nascosta in cantina… – rispose lei in tono discorsivo. Jean le fece una smorfia: lo prendeva sempre in giro!

- Quindi?

- Quindi aspettiamo che tornino… Saranno andati a fare la loro passeggiatina salutare, del resto “dopo una carriera come la loro non possono certo rammollirsi in un quartiere residenziale di Parigi!” – la perfetta imitazione del tono logico della nonnina fece sghignazzare Jean – Come se vivessimo tra ville e campi da golf!

- , le fabbriche di certo non ci sono – commentò lui; Nadia fece spallucce – Quanti anni hanno, ormai? – chiese poi di punto in bianco.

- Claud sessantasette, Agathe sessantatré – rispose sicura.
- , non sono poi così tanti come sembrerebbe… - Nadia lo fisso con fare scettico e Jean si accorse di aver detto qualcosa che non andava; in un lampo comprese e tentò di correggersi – Cioè, non  intendevo che loro sembrano vecchi, ma che il numero dia quell’impressione… capito? Cioè… ho messo male la frase…

In quel momento sentirono la porta d’ingresso aprirsi e sul volto di Nadia comparve un sorriso da iena, di quelli che teneva da conto solo per lui.

- Nonna! – urlò per farsi sentire fin nell’atrio – Jean ha detto che sembri vecchia!

- Douch… Non è ver-

- Oh, , non è che sia andato poi tanto lontano dalla realtà… E poi ciò che conta è lo spirito! Voglio vedere te, alla mia età! – Agathe entrò in cucina con ancora le chiavi di casa in mano. Aveva i lunghi capelli grigi raccolti in una crocchia e un paio di scarpe da tennis che stonavano disinvoltamente con l’abito di cotone che indossava.

- Ti odio… - muto, solo con le labbra Jean espresse i suoi immediati sentimenti.

- Anch’io! – con il labiale e un sorriso, Nadia gli rese noto che lo corrispondeva appieno.

- Com’è andata oggi a scuola? – chiese la donna, chinandosi a baciare su una guancia la nipotina accoccolata sulla sedia.

- Bene, abbiamo deciso finalmente per la festa di fine anno e io e Jean abbiamo deciso di andare in piscina tutto sabato prossimo…

- Oh, che bello… - commentò spassionatamente Agathe mentre cercava un bicchiere per versarsi dle the.

- …e siccome domenica volevamo studiare tutto il giorno, Jean può fermarsi a dormire per comodità?

- Ma anche per diletto, non solo per comodità! – scherzò – Lo sai Nadia, basta dirmelo e io ti preparo la branda in camera tua. Tra parentesi, dopo scendi ad aiutare il nonno a portar su le cassette di frutta dalla cantina? La accompagni anche tu, per favore, Jean?

- Certamente! – ripose lui, ci sarebbe mancato altro! Quante volte l’aveva fatto? – Grazie Agathe – aggiunse poi, mentre Nadia annuiva per partecipare ai ringraziamenti.

- Oh, ragazzi – rispose lei, prendendoli in giro con un tono appassionato – lo sapete che non voglio altro che vedervi sposati!

Nadia scoppiò subito a ridere a quel vecchio ritornello che tornava sempre ma in salse diverse; Jean la seguì a ruota, ma aveva la strana sensazione di sentirsi ridere dall’esterno, come se in realtà lui fosse rimasto li’, a fissare Agathe come un ebete.

 

*

 

L’acqua era limpida e trasparente, illuminata dai fasci di luce che piovevano dai lucernari e dalle finestre. La superficie era irrequieta e cangiante mentre raccoglieva e rifrangeva i raggi di luce.

La piscina olimpionica era al coperto, perché in inverno, i corsi di nuoto si tenevano li’; ma data la splendida giornata che nulla aveva di invernale, tutta la folla di bambini e ragazzi aveva preferito quella più piccola in mezzo al prato oltre le porte a vetri. Nadia aveva voglia di fare qualche vasca, così avevano lasciato la confusione esterna per rintanarsi dentro. Seduto sul bordo, Jean la osservava muoversi sott’acqua come se non avesse fatto altro in tutta la sua vita. Solo ogni tanto metteva le gambe a mollo per rinfrescarsi. Il resto del tempo lo passava fissando quella specie di sirena che gli nuotava davanti.

Aveva imparato a muoversi nel circo, in un mondo diverso da questo, un mondo parallelo, che trova contatto con l’altro solo negli spettacoli. Senza un luogo fisso, aveva le proprie leggi sia sociali che scientifiche: l’arte, le acrobazie, lo spettacolo, l’incredibile. Forse era per quello che Nadia pareva sempre staccata dalla realtà che la circondava, come se davvero provenisse da un altro mondo.

Aveva qualcosa di perfetto, di armonioso. Elegante. Sottile, ma lontana dalla magrezza spropositata di alcune ragazze a scuola; delicata, ma senza avere nulla a che fare con la fiacchezza di muscoli che tante sue coetanee accusavano.

Anzi, era decisamente forte. Nascosta sotto la sua pelle scura, affusolata come lei, aveva la forza necessaria a gareggiare coi ragazzi sia in resistenza che in potenza. Quella stessa pelle, ora dorata dal sole e dall’acqua, che lui aveva toccato infinite volte percependo solo rassicurazione, di quel colore stupendo che non aveva mai ritrovato in altri. Aveva stretto quelle mani così piccole e così grandi nello stesso momento.

Quelle mani che aveva paura di non riconoscere da un momento all'altro.

E la strana sensazione che non fossero loro a cambiare, non in quel momento almeno. Forse era già successo anni prima...

 

Coi capelli incollati al suo bel visino, Nadia finalmente emerse dall'acqua, e nuotò a rana verso Jean.

- Hai un modo di nuotare molto naturale, come se non facessi nessuna fatica - commentò Jean senza pensare, e subito volle ingioarsi la lingua.

- Grazie... - rispose lei dopo un istante, spiazzata da una considerazione che non si aspettava; troppo, in un certo senso, formale per loro due.

- Dai, entra anche tu! E' bellissimo, non c'é un'anima, puoi fare quello che vuoi! - lo esortò poi.

- No, qui non tocco! - finse di lagnarsi.

- Và che ti tiro giu'...

- Non lo farai!

- Lo faro'! Ti tiro giù!

- Direi no...

- Ok... - Naturalmente non lo ascoltò, e sislanciò fuori dall'acqua quel tanto che bastava per afferrarlo e tirarlo in acqua senza massacrarlo.

Jean finì in piscina senza opporre resistena - sarebbe stato inutile, ormai l'aveva sbilanciato - e riemerse in tutta fretta, per uscire e posare accanto agli asciugamani gli ochiali da vista.

- L'hai voluto tu! Scegli: o ti soffoco sta notte o te la faccio pagare domani durante il ripasso...

- Perché non mi affoghi direttamente qui? - chiese lei, muovendosi per mantenersi a galla.

- Perché senza occhiali non vedo un accidenti! - Nadia scoppiò a ridere mentre constatava che comunque ci vedeva abbastanza per tuffarsi in acqua.

Entrambi a mollo, ridendo come pazzi, parvero eleggere a loro obiettivo l'eliminazione fisica dell'altro...

 

*

 

Gli esami erano venuti ed erano passati, con una velocità che sembrava volersi fare beffe degli sforzi e dell’impegno di tutti loro. Il giorno dei risultati si fece attendere in una agonia generale, che andava dall’assurda curiosità di qualcuno all’autentica ansia di qualcun altro.

Finché un mattino verso la fine di giugno, senza tante cerimonie, la segretaria espose i tabelloni su dei pannelli nell’atrio della scuola. Qualche povero studente pellegrino, nell’ennesimo suo viaggio, finalmente li trovò e nell’arco di tre quarti d’ora – telefonate, sms, visite, addirittura qualcuno fu così veloce da inviare mail – tutti gli studenti delle cinque sezioni delle prime brulicavano nell’ingresso.

Davanti ai risultati c’era una vera e propria ressa, mentre appoggiato alle pareti c’era qualcuno che piangeva, consolato dagli amici, qualcun altro che camminava avanti e indietro nervoso, senza il coraggio di andare a vedere un voto che si spera alto o che si spera almeno poco più che sufficiente. L’aria era piena dei commenti dei ragazzi; le voci si sovrapponevano e quasi si confondevano le risposte alle domande urlate da un capo all’altro dell’atrio.

- Ti prego, guarda anche me e poi dimmelo!

- Promossa, promossa, promossaaa!!!

- Sei uscita col massimo!!

- Non è giusto, dannazione, non è giusto!!

- Non ci credo…

- Dimmi se leggi quello che leggo io?

- No…!

- Siii’!!!

Nadia e Jean aspettavano che la folla li sospingesse più vicino al tabellone della loro classe, che la gente davanti a loro – dopo aver urlato come aquile o pianto come bambini – si spostasse pian piano.

Quando furono a un paio di persone di distanza, Nadia riuscì a sgusciare fra i compagni e a ritagliarsi un po’ di spazio davanti al pannello, almeno per respirare! Lanciò indietro uno sguardo a Jean per fargli capire che l’avrebbe aspettato, e lui annui’. Nadia fece scorrere le dita affusolate sull’elenco dei nomi, fermando l’indice e il medio sotto i loro nomi, a poca distanza l’uno dall’altro, nella seconda metà dell’elenco. Le unghie lunghe e regolari, dipinte di un rosa tenue che contrastava così bene col colore della mano, strisciarono dritte sulla carta fino ad arrivare ai loro risultati che subito coprì con i polpastrelli.

Aspettò arrivasse anche Jean, che non aveva tolto gli occhi da quelle dita per tanti motivi, tutti così diversi e alcuni così poco chiari.

Si guardarono. Quella era la prima prova ufficiale che affrontavano, per la quale avevano sputato sudore e sangue. Non era quel voto a dire chi erano, questo lo sapevano benissimo, ma restava comunque il primo parametro con cui il mondo – grande vasto enorme – si relazionava con loro – piccoli soli emotivi – la prima valutazione al loro modo di lavorare e affrontare le cose.

Jean ci teneva perché aveva sempre sinceramente amato studiare, ma troppe volte non gli era stato chiaro se questa sua genuina curiosità fosse stata premiata a scapito dello studio mnemonico oppure se fosse stato il contrario.

Nadia ci teneva perché voleva avere tutte le carte per far parte ufficialmente di quella Francia che tanto amava, ma che sembrava ancora rifiutarla, lasciarla su un confine indefinito ad attendere chissà cosa.

Soprì i voti.

 

Nadia ne uscì molto bene.

Jean fu eccellente.

E a detta dei compagni c’era solo da aspettarselo. Convinti loro…

Non ci furono stragi particolari, o elargizioni straordinarie di eccellenze. Alla fine, malgrado i piagnistei e le urla di gioia, le vere sorprese furono poche: chi sapeva di ricevere una buona valutazione la ricevette, chi sapeva di non aver fatto nulla per tutto l’anno, e anche prima, fu bocciato, e chi sapeva di cavarsela vide per iscritto quanto fosse in grado di cavarsela. Eppure vedere il proprio voto, corrispondesse o meno ai compagni novelli indovini, era sempre qualcosa di emozionante, sia in positivo che in negativo.

Dopo aver consolato qualcuno ed essersi congratulati con qualcun altro, quando la folla di studenti iniziò a scemare, anche Jean e Nadia presero la strada di casa.

- A conti fatti sembra che tutti avranno da festeggiare… Cioè chi non è passato alla fine se lo aspettava… - commentò Jean mentre uscivano dalle grandi porte a vetri.

- Già… - rispose lei senza entusiasmo.

- Dai, Nadia… Lo sapevi che era impossibile che venissimo tutti promossi! Per qualcuno era lampante! Volevi lavorare tu al posto loro? Che si svegliassero prima…

- In effetti non posso darti torto… almeno della nostra classe ci saranno tutti! – aggiunse con tutt’altro tono.

- Ma se…

- Ha detto che viene anche lui! Era l’unico che rideva della sua bocciatura…

- , meglio che piangere… - considerò Jean facendo ridacchiare Nadia. – Comunque complimenti!

- Grazie al mio personal training!! – rispose lei alludendo al ruolo che Jean aveva avuto negli ultimi ripassi.

- La testa è la tua e la forza di volontà anche… Io ti ho solo rovinato un po’ di giornate, ti ho fatta ridere, ed ho evitato che lanciassi i libri giù dalla tromba delle scale del condominio, per poi seguirli… - Nadia rise ancora, contagiando poi anche Jean.

Avevano già passato i cancelli da un pezzo, erano per la strada che portava alla metro; era sceso il silenzio e Nadia si era fatta particolarmente pensierosa. Il capo basso, i capelli fini scesi ai lati del viso, le ballerine che scandivano i passi delle sue gambe asciutte e longilinee, che fino a qualche minuto prima avevano saltellato per tutto l’atrio della scuola.

- Tutto ok? – chiese Jean ma senza ottenere risposta.

Pochi secondi e tentò ancora.

- Sei triste perché è finito tutto? Guarda che abbiamo ancora il liceo e poi l’università da fare insieme!! – il bisogno di vederla su di morale gli fece dimenticare anche il vago imbarazzo che ultimamente gli era capitato di provare quando si riferiva a un noi. Finalmente Nadia gli sorrise, sapeva che sarebbero rimasti insieme ancora a lungo, era un fatto incontrovertibile per lei, ma continuò a tacere e riprese a guardare la strada che calpestava.

Dopo altri lenti passi, prima dell’incrocio che lei, svagata, sbagliava spesso, Nadia parlo’.

- Non ho ancora la cittadinanza francese… - Jean tacque, aspettando che continuasse – Eppure amo la Francia, è proprio la mia casa in tutti suoi angoli, le sue vie, i suoi campi, le sue opere… L’ho girata tutta…

Aveva avuto problemi quando i nonnini avevano scelto di fermarsi a Parigi e di mandarla a scuola – del resto Agathe non poteva insegnarle tutto. Pare fossero troppo anziani per adottarla legalmente. Alla fine tutto si risolse con un affidamento anziché un’adozione, e quindi la mancata trasmissione della cittadinanza da Agathe e Claud a Nadia.

- E’ giusto… - disse Jean inaspettatamente, e Nadia si voltò a guardarlo sorpresa non offesa; ma lui continuò – Per te la Francia è troppo piccola… Per te ci vuole il mondo intero!

Avrebbe voluto urlargli Grazie, ma le semrava qualcosa di troppo banale. Così Nadia sorrise, non solo con la bocca, ma anche con gli occhi, con il viso che si levò da terra, con le spalle che si raddrizzarono, con le gambe e le braccia che ripresero brio.

Sorrideva anche la voce quando gli disse:

- Facciamo a chi arriva prima alla fermata!

- No Nadia, no… Lo sai che-

Ma lei già correva un pezzo avanti; imprecando, Jean le corse dietro, nell’illusione sempre nuova di riuscire a raggiungerla. Sulle strade di Parigi, senza sbagliarne neanche una, col cuore leggero e il sorriso in faccia, sotto l’alto sole di giugno, due ragazzi sfrecciavano fra i passanti. Nadia sembrava fendere l’aria, e Jean non le staccò un istante gli occhi di dosso.

 

*

 

E gira tutt'intorno la stanza
mentre si danza, danza.

(Franco Battiato, Voglio vederti danzare)

 

Non l’aveva mai vista così bella.

E non era il vestito, o il trucco leggero che aveva usato. Non erano i capelli resi ricci apposta per quella sera, o i tacchi che la rendevano più alta.

Era la situazione, l’insieme dei dettagli, l’atmosfera allegra e casinista, l’espressione brillante che aveva in viso. Era ballare con lei, mentre le luci colorate ruotavano sulle pareti del locale, mentre tutto intorno a loro si muoveva e si lasciava andare. Era starle così vicino senza sentirsi in imbarazzo dopo giorni, solo per divertirsi, e lasciarla avvicinare senza avere l’istinto, seppur mai messo in pratica, di allontanarsi.

La voglia di festa che si sentiva nell’aria era già sufficiente a ubriacare, senza bisogno di toccare alcool. La musica non seguiva nessuno stile specifico, accontentando un po’ tutti; mixata benissimo, tanto da non capire mai bene quando la canzone che si stava ballando era iniziata, tanto da non potersi permettere di dire “questa e poi basta” – perché non c’era un “basta” – come avrebbe voluto fare Jean, negli istanti in cui si ricordava di avere una milza dolorante. Nadia, invece, pareva essere in grado di continuare tutta la notte, instancabile.

Eppure fu lei a trascinarlo da parte ad un certo punto, per prendere qualcosa da bere. Appoggiati a un bancone, illuminati a sprazzi dai getti di luce colorata, Nadia gli urlò se era ancora vivo. Jean comprese più dal labiale che dalla voce che a malapena sovrastava la musica. Invano, urlò che stava resistendo; lei annui’.

- Andiamo? – chiese Nadia non potendo permettersi di abbassare il tono, indicando con un cenno della testa la pista e posando il suo bicchiere quasi vuoto sul piano.

- Vai tu… Io arrivo dopo, intanto mi riprendo!!

- Si’, “resisti”… - lo prese in giro, e tornò verso la pista riprendendo a muoversi.

A muoversi.

 

Voglio vederti danzare

come le zingare del deserto
con candelabri in testa
o come le balinesi nei giorni di festa.
Voglio vederti danzare
come i Dervisches Tourners
che girano sulle spine dorsali
o al suono di cavigliere del Katakali.

(Franco Battiato, Voglio vederti danzare)

 

E non avrebbe desiderato altro. Restare li’, fermo, al bordo della pista, e potersi permettere di spiarla mentre ballava, mentre si muoveva con quel corpo che si era riscoperto a fissare troppo spesso in quelle ultime settimane. Spiarla, senza sentirsi invadente, perché lei era li’, in mezzo alla pista, in mezzo al mondo, dove tutti, se volevano, potevano guardarla. Ma in quell’istante solo lui voleva.

Lei continuava con naturalezza a ballare, tutti i suoi movimenti, unici e alieni, elevati all’ennesima potenza, senza l’inibizione del luogo o del tempo, ma lasciati andare sulla musica, sulle sue note e sui suoi ritmi.

 

E Radio Tirana trasmette
musiche balcaniche, mentre
danzatori bulgari
a piedi nudi sui braceri ardenti.
Nell'Irlanda del nord
nelle balere estive
coppie di anziani che ballano
al ritmo di sette ottavi.

(Franco Battiato, Voglio vederti danzare)

 

Tutta la musica del mondo, tutte le sue danze, tutte le sue emozioni sembravano passare attraverso di lei. Era il mondo la sua casa, ne era certo. Lei aveva qualcosa di universale, di comprensibile in qualsiasi modo; sembrava rivolgersi a ognuno in un modo che solo il destinatario poteva comprendere, ma contemporaneamente restava aperta a qualcosa di infinitamente più vasto. Era rassicurante. Come incontrare l’essenza di qualcosa di illimitato.

E intanto ballava, ignara dell’intensità con cui due occhi la fissavano, o forse solo vagamente cosciente di ciò. Vagamente cosciente di essere al mondo, in un tempo e i uno spazio ben precisi.

 

Nei ritmi ossessivi

la chiave dei riti tribali
regni di sciamani
e suonatori zingari ribelli.
Nella Bassa Padana
nelle balere estive
coppie di anziani che ballano
vecchi Valzer Viennesi.

(Franco Battiato, Voglio vederti danzare)

 

Fuori dal tempo, fuori dallo spazio; categorie troppo piccole per lei. Come racchiusa in un mito da raccontare, sembrava ballare da sempre e che mai avrebbe smesso. Nella sua perfezione, la stessa sferica perfezione che ha una storia conclusa, la sensazione di completezza che lascia dentro.

Ma non era statica. In lei c’era la tensione al futuro, verso il cambiamento, c’era il dinamismo. Una spinta vitale che da sola si ricreava e si perpetuava. Un dinamismo perfetto.

 

Gira tutt'intorno la stanza
mentre si danza, danza.
E gira tutt'intorno la stanza
mentre si danza.

(Franco Battiato, Voglio vederti danzare)

 

Sciolta sulla musica, come se la stesse avvolgendo e lei si fosse abbandonata alle sue curve e alle sue pieghe.

La amava, e finalmente, guardandola ballare, se n’era accorto.

L’aveva sempre amata, come amica, come sorella. Ora se n’era innamorato, di lei, del suo carattere, dei suoi pensieri e delle sue idee, della sua testa e del suo cuore, della sua anima e del suo corpo, dei suoi movimenti.

L’aveva vista ballare e se n’era accorto, si era lasciato trascinare dai pensieri e dalle sensazioni su di lei, pensieri così contorti e inusuali da avere l’impressione che una volta finita l’ebbrezza della festa, se ne sarebbe imbarazzato. O forse no.

Chissà come avrebbe fatto a dirglielo. Chissà se gliel’avrebbe mai detto.

Ma in quel momenti gli bastava restare li’.

Voleva ancora vederla danzare.

 

* * *

 

- Che ora abbiamo fatto? – chiese Nadia, emergendo al buio ormai pallido della notte, fuori dal locale dove si era tenuta la festa. Sempre se ancora di notte si potesse parlare.

- Credo siano le cinque del mattino… cinque e un quarto… Ho lasciato a casa l’orologio…

- E’ un evento per te…

- Ho passato le ultime settimane a scandirmi anche i pasti… Non ne potevo più! – Nadia ridacchiò.

- Devi averci preso… Guarda, - disse indicando il cielo sopra di loro – si sta schiarendo.

Anche Jean alzò la testa verso l’alto e vide il cielo cangiare lentamente in un azzurro sempre più chiaro. La maggior parte delle stelle che quasi non si vedeva più. Camminarono per diversi metri con il naso per aria, finché Nadia non si arrestò con un’esclamazione compiaciuta. Jean si fermò e guardò avanti, dove puntava lo sguardo di lei.

- Guarda… - mormorò, ma lui stava già guardando.

Nello squarcio di cielo che due palazzi vicini permettevano di vedere, la luce rosata dell’alba si stava levando, insieme a un delicato e pallido sole.

- Nadia?

- Sì?

Esitò, si diede dello stupido, e scelse parole meno dirette per quello che le voleva dire.

- Staremo ancora insieme, vero?

Lei si voltò verso di lui, staccando gli occhi dall’alba. Da quando era diventato così alto?

- Ma certo… Me l’hai detto tu l’altro giorno, ricordi? Abbiamo davanti ancora il liceo e l’università… Abbiamo davanti tutta la vita!

Si voltò anche lui e le sorrise.

- Hai ragione, abbiamo ancora tantissimo tempo.

Gliel’avrebbe detto, col tempo, avrebbe saputo dirglielo.

Nadia ricambiò il sorriso e tornarono insieme a guardare l’alba.

Dopo minuti, o ore, o secoli, poco prima di rimettersi in cammino verso la metro, quando il sole si era già staccato dal suo orizzonte parigino di tetti e antenne, e il rosa nel cielo pian piano sbiadiva, Nadia parlò e Jean ricordò una sua frase antica come la loro amicizia.

- Sai… Anche la domenica mattina il cielo è più azzurro…

 

Fine?

 

 

 


[1] Stando ai miei ricordi delle lezioni di francese dei tempi delle medie, in Francia il Mercoledì c’è scuola solo il pomeriggio, il sabato si sta a casa, le classi si contano dall’undicesima (6 anni) alla prima (16 anni), successivamente ci dovrebbero essere il liceo o la scuola professionale, le classi corrispondenti alle medie si chiamano collège, mentre le altre non saprei… Il resto (date, esami, usanze) l’ho deliberatamente inventato!

 

 

 

 

@@@@

 

BHA! BUBBOLE!!!!

 

Che emozione, (ieri) potevo postare dall’internet point di Djerba!!! Ero lì vacanza ed ero indecisa se postare a casa con calma, ma poi la cosa era troppo esaltante (come lasciare la ff in memoria su questo computer, imbucata in cartelle su cartelle… Chissà se qualcuno la leggerà mai… Che ridere!!!) E ci ho voluto provare… Ma stavo per partire per tornare in Italia, ero di fretta e ho miseramente fallito… Quindi pubblico da casa, anche se dal computer di mia sore perché li mio ha perso internet… eheheh

Giust’appunto, fra esami e vacanze con le amiche, ho scritto tutta la ff praticamente là… Su una tastiera franco-araba… Le lettere ci sono ma la punteggiatura è sparsa in giro…

Che bello, pubblico ancora in simultanea su manga.it e su efp… (Ma da due file diversi per il codice html… Che stress!!!) Ci sto prendendo gusto! Mi converrà spicciarmi con le altre fic

Bene, con questa fic partecipo al 26° concorso su efp… Che me ne dite???

Per vostra gioia non ho intenzione di aggiungere altro… Ho sonno…

Ciao Ciao!!!

 

Ps (non potevo aver già finito, no???): Di questa storia ci sarà sicuramente un seguito, che poi era il progetto originale, me che per motivi di tempo non ho potuto completare…

   
 
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