Disclaimer: La canzone citata in questa storia è "Play, Minstrel, Play" ed appartiene ai Blackmore's Night.
I personaggi, invece, sono frutto della mia fantasia, pertanto di mia esclusiva proprietà.
PLAY, MINSTREL, PLAY
"Underneath the harvest moon
Where the ancient shadows will play and
hide...
With a ghostly tune and the devil's pride...
"Stranger" whispered
all the town
"Has come to save us from Satan's hand?"
Leading them away to
a foreign land..."
Trad.: "Sotto la luna di settembre
Dove le antiche ombre giocano e si
nascondono...
Con un suono spettrale ed il dominio del
diavolo...
"Straniero" sussurrò l'intera città
"E' venuto per salvarci
dalla mano di Satana?"
Portandoli lontano verso una terra
straniera..."
Amo le notti di luna piena.
Potrei restare ore con gli occhi rivolti
al cielo, fissi su quel chiarore pallido, unico appiglio di luce nella
sconfinata oscurità della notte.
Così bella e limpida, così rotondamente
perfetta, sembra guardare l'imperfetto mondo sotto di lei con un sorrisetto
beffardo di compatimento e pensare: o piccoli ed insignificanti esseri che state
ai miei piedi, siete vani come un filo di fumo; io ero prima di voi e sarò dopo.
Al mio confronto, non siete altro che farfalle dall'effimera vita
giornaliera.
E' vero: l'uomo è un nano trapiantato nella casa di un gigante,
si affanna invano a cercare di adattare la realtà circostante ai propri bisogni,
vuole cambiare il mondo senza capire che dovrebbe prima cambiare se
stesso.
Amo le notti di luna piena, perchè mi riportano indietro nel
tempo.
Ogni volta in cui alzo lo sguardo ad incontrare il cielo rischiarato
da quella luminescenza candida, sento il sangue scorrere più impetuoso nelle
vene, la memoria mi mostra immagini che nemmeno saprei dire da dove provengono,
non avendo io mai visti luoghi così selvaggiamente belli se non in sogno.
Allora
è come se il tempo non fosse mai trascorso, come se io e tutta la mia stirpe
fossimo ancora liberi e felici: lo eravamo, in un momento talmente remoto da
sfumare nelle nebbie dell'oblio quasi fino a divenire leggenda.
Non avevamo
vincoli, se non quelli di sangue.
Non avevamo regole, se non quelle di
pacifica convivenza.
Non avevamo padroni, se non i capi che per il loro
valore si distinguevano dalla massa.
Avevamo noi stessi, e questo era più che
sufficiente per essere soddisfatti.
Poi sono arrivati loro, i signori, gli
esseri superiori, e noi siamo divenuti nient'altro che una deprecabile schiatta
di schiavi al loro servizio, debitori nei loro confronti di una devozione che
non meritano.
Abbiamo perso la nostra libertà e la nostra identità, non
abbiamo più mordente, nè voglia di combattere per tornare ad essere liberi:
meritiamo di essere schiavi soltanto per la nostra colpevole mollezza.
Questi
sono i pensieri che le notti di luna piena suscitano in me, pensieri che i
padroni mai immaginerebbero di trovare nella mente di un misero schiavo;
dovrebbero temermi, e invece mi disprezzano.
Non sono consapevoli del rischio
che corrono: il giorno in cui io e la mia stirpe riusciremo a trovare la forza
per ribellarci, loro non avranno scampo.
Perchè noi non
dimentichiamo.
Perchè i nostri patti di lealtà sono più saldi e duraturi dei
loro, che conoscono soltanto il tradimento e l'inganno.
Perchè noi uccidiamo
solo quando è strettamente necessario, e non è detto che questo sia meno letale
del loro sterminio indiscriminato ed ingiustificato.
Quella notte meditavo
proprio riguardo a questo, sapendo che mi sarebbe venuto il sangue amaro e il
sonno non avrebbe fatto altro che scivolarmi via dalle palpebre, ma provate voi
a dormire gettati su di un pagliericcio al centro di una stalla scoperchiata
dall'ultima tromba d'aria: io sono un oggetto, esattamente come un forcone da
fieno, e si sa che gli oggetti si ripongono nello sgabuzzino, o comunque fuori
di casa.
Riesco ad addormentarmi solo quando la fatica mi ha stremato a tal
punto da impedirmi di formulare pensieri coerenti gli uni con gli altri,
altrimenti passo le nottate a riflettere su qualsiasi argomento susciti il mio
interesse.
Ho una personalità eclettica, sebbene faccia di tutto per
nasconderlo, soprattutto ai miei simili di questo buco di villaggio, capaci
soltanto di leccare servilmente i piedi dei loro padroni: non mi capirebbero, in
loro compagnia devo fingere un'ottusità che non mi è propria.
Me ne stavo
così, raggomitolato sul mio misero giaciglio per non sentire il freddo che mi
penetrava crudelmente nelle ossa, con la sola compagnia di un quartetto di
vecchie e grasse mucche, intente a ruminare la loro cena con lo sguardo vacuo
fisso su di me: anche loro sono oggetti nelle mani dei padroni, come me, ma non
sembrano aver mai conosciuto una vita migliore.
Fu allora che per la prima
volta lo sentii: all'inizio era un suono talmente flebile da farmi sospettare un
inganno dei sensi, oppure il principio del sogno in cui il sonno mi avrebbe
entro breve precipitato; poi la melodia si fece sempre più nitida, risuonava
sonoramente nell'aere placido della notte di plenilunio, mi invitava a scoprire
la sua fonte.
Mi alzai tranquillamente, camminai fino in strada e mi accorsi
di essere giunto piuttosto in ritardo: l'intera popolazione del villaggio si era
già riversata nella piazza principale, formando un solido capannello intorno
alla "cosa" che mi aveva chiamato fuori dalla mia apatica meditazione notturna.
Una sola parola serpeggiava fra gli abitanti, debole come un bisbiglio,
sussurrata di bocca in bocca ed arricchita di tutte le possibili inflessioni che
denotino paura e sgomento: "Straniero!"
Cercai di farmi largo fra la folla,
curioso di trovarmi faccia a faccia con questa apparizione improvvisa e
misteriosa, ma i superiori mi respinsero con sdegno: il più gentile di loro si
limitò a ringhiare un ordine digrignando i denti, il più crudele mi diede un
calcio che per poco non mi fece rovinare nella polvere.
Capendo che non avrei
ottenuto alcun risultato apprezzabile se avessi tentato una seconda volta di
forzare il loro schieramento, mi servii della mia innata agilità per issarmi su
uno dei tetti delle case circostanti: di fango e paglia, non avrebbe mai retto
il peso di un superiore, soprattutto dei più opulenti che vivono al centro del
villaggio, ma noi schiavi mangiamo poco e consumiamo quella miseria di vitto
datoci lavorando fino allo stremo delle forze.
Lo vidi, finalmente,
circondato dagli sguardi incuriositi e sospettosi della folla, che si scambiava
pareri discordanti sulla sua identità: un monaco errante sulla strada per il
monastero oltre la montagna, un predicatore di città in cerca di una nuova folla
da arringare, un esattore del signore vassallo giunto ad un'ora piuttosto
insolita, un cavaliere di ventura privo di destriero e scudiero.
Lo
straniero, senza togliere il cappuccio che portava calato sulla testa, rivelò in
tono pacato, con una tranquillità nella voce che non potè non inquietarmi: "Sono
un menestrello."
And take away our sorrows...
Play for me, minstrel, play
And we'll follow...
Hear, listen, can you hear,
The haunting melody surrounding you,
Weaving a magic spell all around you..."
Trad.: "Suona per me, menestrello, suona
E porta via le nostre
sofferenze...
Suona per me, menestrello, suona
E noi
seguiremo...
Senti, ascolta, riesci a sentire,
L'ammaliante melodia che ti
circonda,
Intrecciando un magico incantesimo tutt'attorno a te..."
L'alba del giorno successivo all'arrivo del menestrello al villaggio
sorprese gli abitanti intenti a prepararsi alle celebrazioni del loro giorno di
riposo settimanale.
La domenica non si lavora, si mangiano cibi più raffinati
(se ce li si può permettere), si ozia.
Tutto questo se sei un
superiore.
Per noi schiavi non c'è riposo, al massimo è non-lavoro, e non è
detto che i due concetti siano obbligatoriamente o necessariamente uno il
sinonimo dell'altro.
Mi incamminai con passo lento e cadenzato verso il
centro del villaggio, mantenendo la giusta distanza che i padroni ritengono
necessaria porre fra loro e i servi: probabilmente avrei dovuto raggiungere i
miei compagni al limitare del bosco, dove sono soliti riunirsi per ciondolare
apaticamente nel giorno di festa, ma, come ho già detto, non tollero granchè la
loro compagnia e quel giorno ero meno disposto del solito ad ascoltare e
sopportare le loro futili amenità.
Mi abbandonai docilmente al flusso della
folla, che sciamava in direzione della chiesa del paese: errore tipico della
stupidità umana, era stata costruita e progettata per contenere meno della metà
degli abitanti, e guarda caso a restare fuori erano sempre i più poveri e simili
a noi schiavi.
La nostra società era molto meno settaria della loro: si
accoglievano tutti, senza distinzioni di alcun tipo; le nostre sole ricchezze
erano la libertà e la salute, chiunque difettava di quest'ultima sarebbe stato
giudicato dalla natura, non certo da noi suoi pari.
Mi separai da loro sul
sagrato, lanciando un'ultima occhiata perplessa alle loro espressioni assorte e
alle loro labbra in movimento, intente a salmodiare continue preghiere al loro
dio: probabilmente le mie parole sono dettata dalla pura invidia, perchè noi
schiavi abbiamo perso la nostra libertà di culto il giorno in cui abbiamo anche
perso noi stessi, però credo di non aver mai visto creature tanto ottusamente
devote come i superiori.
Il loro comportamento nei confronti della divinità,
poi, è a dir poco paradossale: se ne vanno in giro, inspiegabilmente tremebondi
per qualsiasi ombra li sfiori, come se in ogni angolo fosse acquattato in
agguato uno spirito demoniaco pronto a sbranarli, per poi compiere in segreto le
azioni più abiette, meschine e deplorevoli, troppo spesso anche in nome del loro
dio d'amore e di pace.
I superiori uccidono e devastano, in nome del loro dio
d'amore e di pace.
Ero ancora intento a gironzolare nella piazza,
crogiolandomi nelle mie riflessioni pessimistiche, quando un dolore lancinante
quanto improvviso mi pervase la schiena, strisciando vilmente lungo la mia
intera spina dorsale; il mio occhio, di sfuggita, venne attirato dal rotolare di
una pietra, presumibilmente l'oggetto che mi aveva colpito con tanta
violenza.
"Vattene via, feccia!" mi gridò contro una vocetta stridula, che
riconobbi essere quella del figlio minore dei miei padroni.
Odio i bambini
quasi più degli adulti, perchè quel sentimento di cinica indifferenza che i
superiori maturi provano nei confronti degli schiavi, nei più piccoli è infida
crudeltà allo stato puro.
Sembrano essere stati creati, loro più degli
adulti, per la dannazione perpetua della nostra stirpe.
Scattai di lato appena
in tempo per evitare una seconda sassata e posai su di lui uno sguardo colmo di
biasimo: non che non fossi abituato a simili trattamenti, avevo subito anche di
peggio da suo padre, quando ero ancora troppo giovane per comprendere appieno i
suoi ordini ed eseguirli quanto più rapidamente possibile; tuttavia, avevo avuto
la sinistra impressione che il bambino mi avesse colpito con più crudeltà del
solito...
La possibilità di protestare non venne nemmeno presa in
considerazione: uno schiavo non ha libertà di parola e deve essere abituato a
subire ingiurie.
Nulla di ciò che gli accade riguarda strettamente il padrone, e
la sua eventuale morte non è nient'altro che uno spiacevole incoveniente
causante il rallentamento della produzione ed una snervante seccatura per quanto
riguarda la sepoltura.
Non abbiamo neppure diritto ad un rito
funebre.
Scrutai il suo viso: i suoi occhi mi spaventarono a tal punto che
fui costretto a chinare lo sguardo; luccicavano di una perfidia ferina che non
avevo mai visto prima, neppure nel più spietato dei superiori.
Era una
ferocia soprannaturale, non umana.
Colsi un fruscio impercettibile alle sue
spalle e, in un istante, mi ritrovai di fronte anche il misterioso menestrello
giunto la sera precedente.
Fissandomi con un sorriso che avrebbe dovuto
essere di comprensione, e che invece mi apparve terribilmente simile ad una
smorfia minacciosa, congedò il bambino con un'affettuosa pacchetta sulla spalla;
poi, strinse fra le mani secche e nervose la mandola e cominciò a
suonare.
Non trascorsero che pochi istanti e gli sguardi dell'intera
popolazione del villaggio si appuntarono su di lui, il mio compreso: senza
sapere perchè, non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso, lo comandavo alla
mia mente, ma questa non voleva saperne di obbedirmi.
La musica scivolò
lentamente dentro di me, pericolosa come un veleno che cade a stilla a stilla,
ammansendo la mia volontà e catturando i miei pensieri.
Sentivo il sangue
ribollirmi nelle vene, la tentazione di abbandonarmi completamente a quella
realtà sconosciuta, che temevo e volevo allo stesso tempo.
Allora giunse la
voce, desiderabile e seducente come un canto di sirena: mi sobillava a compiere
azioni cui ardivo a malapena pensare, mi spingeva perchè rompessi i vincoli
della schiavitù e guidassi i miei compagni alla rivolta contro i nostri
sfruttatori.
Come un canto di sirena era pericoloso, ed io lo compresi giusto
in tempo.
Fu il mio pessimismo a salvarmi: essere schiavi è brutto, ma essere
schiavi ed avere la consapevolezza di non poter sopravvivere senza un padrone è
addirittura mostruoso.
Mi sottrassi all'incantesimo diabolico e, lanciando un
rapido sguardo intorno, mi accorsi che nessun altro fra i superiori era riuscito
ad imitarmi: chi più, chi meno, erano ormai completamente assuefatti agli ordini
della voce melodiosa ed infingarda.
Il menestrello, dinanzi a me, continuava a
suonare, come se ignorasse ciò che stava accadendo attorno a lui, come se
ignorasse di esserne il principale responsabile.
Con tutto il coraggio di cui
riuscii ad armarmi, cercai i suoi occhi sotto il cappuccio nero e li fissai
intensamente.
E allora, gelida e spietata come una lama di coltello, mi
trapassò la consapevolezza del vero, vidi con orrore e sgomento ciò che nessun
altro era riuscito a vedere.
We should have seen it from far away,
Wearing such a thin disguise in the light of day...
He held the answer to our prayers,
Yet it was too good to be...
Proof before our eyes, yet we could not see..."
Trad.: "Pericolo nascosto nei suoi occhi,
Noi avremmo dovuto vederlo
da molto lontano,
Indossando un travestimento così sottile alla luce del
sole...
Egli recava la risposta alle nostre preghiere,
Tuttavia era troppo
buono per essere...
Prova davanti ai nostri occhi, tuttavia non fummo capaci
di vedere..."
Sono libero.
O meglio, non ho più padroni, ma questo, come ho già
detto a proposito del riposo, non implica necessariamente che io abbia
riacquistato la libertà ancestralmente perduta dai miei avi.
Credo che me ne
andrò lontano, oltre le montagne o forse anche di più, alla ricerca dei padroni
di cui parlano le storie, dei superiori che deplorano la schiavitù e trattano
gli schiavi quasi come loro pari.
Mia nonna diceva sempre, quando terminava le
sue favole nel buio gelido del pagliaio in cui sono cresciuto e dove
presumibilmente sarei morto se non fossimo giunti a questo, che ogni leggenda ha
il suo fondo di verità.
Bene, non sono così pessimista da pensare che superiori
del genere non possano esistere...
Sicuramente ne esisteranno di migliori
rispetto a quelli del mio villaggio.
Stupidi idioti, hanno trascorso più di
metà della loro vita a guardarsi da tutti gli pseudo-demoni che reputano essere
nascosti nei boschi e nei fiumi e non hanno saputo riconoscere il più pericoloso
di tutti quando se lo sono trovato davanti.
La musica li ha fatti smarrire,
hanno perso tutto ciò che erano, precipitando anche più in basso del livello
occupato da noi schiavi.
Credevano di correre incontro alla libertà, ed
invece non facevano altro che stringere sempre più strettamente le loro
catene.
Il menestrello è pronto a partire, trascinandosi dietro a passo di
danza la sua nuova schiera di vittime, che finirà i suoi giorni eterni bruciando
nelle fiamme di un luogo di morte e disperazione che i superiori chiamano
Inferno.
Noi non abbiamo mai avuto qualcosa di simile, siamo convinti che
parlare del male non faccia nient'altro che renderlo più potente: quegli
sciocchi padroni, con il loro continuo, giornaliero, incessante lamentarsi e
salmodiare sul maligno, non hanno fatto altro che fortificarlo come lui
desiderava.
Hanno decretato la loro fine di propria spontanea
volontà.
Prima di allontanarmi per sempre da questo villaggio, ormai niente
più che un insieme di case spoglio e privo di vita, lancio un'ultima occhiata al
mentestrello, già pronto a guidare il suo piccolo corteo.
I nostri sguardi
s'incontrano, il mio venato di un'ilarità canzonatoria, il suo colmo di
risentimento che non può far altro che macerare al suo interno senza possibiltà
di essere placato: mi ha già sfidato ed ha già perso.
Oggi è una giornata
memorabile, anche se nessuno sopravviverà o avrà la possibilità di raccontarla
ed essere creduto: oggi Satana ha dovuto chinare il capo e dichiararsi sconfitto
da uno stupido, misero, inutile cane.
Questa è una storia che ho scritto all'incirca una vita fa, nel corso di una notte insonne dell'estate del 2004, avevo circa sedici anni e mezzo.
Tuttavia, siccome è stata a tal punto apprezzata ad un concorso letterario da aggiudicarsi il secondo posto nella categoria Narrativa Adulti, ho pensato di pubblicarla e sentire un po' se condividete l'entusiasmo dei giurati.
Edit del 15/06/2010
Ho rielaborato il codice HTML della storia con NVU, migliorato la paragrafazione e corretto alcuni problemi tipografici di punteggiatura.