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Autore: Life in technicolor    20/01/2013    5 recensioni
Sapevo cosa sentivi. Sentivi l'odore di carta vecchia, di pagine sfogliate centinaia di volte, di ricordi e di memorie, di rugiada ed erba tagliata, di mamma che racconta una fiaba... E mi ritrovai a desiderare ardentemente che tu alzassi gli occhi e incrociassi il mio sguardo per la prima volta, che compatissi un povero ragazzo esposto alle angherie del mondo, che mi comprendessi senza fare commenti, io, così ridicolo con il naso rosso incollato alla vetrina e i ghiaccioli nei capelli, i vestiti smessi e gli occhi colmi di lacrime, e magari mi invitassi al tuo calore per scaldarmi, per ascoltare la mia storia, e perché no, anche per offrirmi una tazza di caffè...
E, nell'irreale verità, ti vidi ascoltare la mia muta preghiera, spostare lo sguardo oltre la vetrina e mettere fine all'impellente desiderio esploso nel petto.
Otto dicembre duemilasette.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Nuovo personaggio
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Open your eyes 
Questa dedica va a tre persone fondamentali.
A Silvia, che è come l'alta marea. Anche se non la senti, lei c'è sempre.
A Chiara, che è l'anima portante di questa storia. 
Probabilmente le idee non sarebbero bastate se lei non mi avesse spronata a continuare. Grazie.
E a lui che mi ha insegnato tanto, mio nonno, che adesso non c'è più.
 
L'ho perso per sempre, l'otto novembre duemiladodici.





Dove sei, Faith? Come sarai quando ti sveglierai? Resterai sempre la stessa, fragile, piccola donna di una volta, oppure dovremo imparare a conoscerci di nuovo come due estranei? Avrai memoria o dovrò raccontarti pazientemente i venticique anni della mia vita e i ventitrè della tua, senza tralasciare nemmeno una virgola? E tu ti fiderai più di un uomo, o meglio, di un ragazzo cresciuto troppo in fretta, disperato, solo, testardo, schiacciato dai segni prepotenti di un tempo immobile in questa stanza d'ospedale? 

Sono seduto sulla vecchia, solita, sedia di plastica della clinica, un blocco di fogli in grembo, la penna che picchietta fastidiosamente sulla superficie opaca e un po' scolorita. Una scena abituale, uno spicchio di vita che ormai non mi appartiene più, agli occhi della gente che lancia sguardi distratti e prosegue svogliatamente oltre,senza curarsi minimamente dell'ombra che ha preso il tuo posto e adesso giace sotto le coperte striminzite per farti dispetto, senza curarsi delle linee piatte che di tanto in tanto lo schermo disegna lampeggiando, per rassicurarmi, per farmi sapere che tu, in fondo, ci sei ancora, e non mi hai abbandonato del tutto. Mi allungo sulla sedia e sfioro con il polpastrello le lacrime appese alle tue ciglia.

E mi chiedo cosa diavolo ci faccia io qui. 

"Che Dio ti benedica, ragazzo mio." mi sussurra piano l'infermiera nel letto accanto al tuo, avvicinandosi e accarezzandomi la spalla rudemente con la mano poco curata, per poi oltrepassare la porta e sparire nella piccola folla che si è creata nella camera accanto. 

"Dio protegga questa povera creatura"- ha pregato ieri dispiaciuta una giovane donna che lotta ancora contro il male e la morte. Lei, forse, sa più di tutti cosa significa aprire una voragine nell'animo di chi ama incondizionatamente. È venuta a conoscenza del tuo caso e ha sperato inutilmente di offrirmi speranza.Anche lei ha avuto un attacco di porfiria qualche anno fa, è rimasta in coma per più di un mese, ma adesso sta bene. Dovrà curarsi per il resto dei suoi giorni, certo, ma ora lavora, ha un marito, due figli, una famiglia a cui badare. Tu, invece, non hai nessuno, all'infuori di un ragazzo innamorato dell'Amore, salvato per miracolo da un destino già segnato grazie al sorriso lieve sul volto stanco di chi ha già lottato fin troppo senza rinunciare ad arrendersi. 
 

Eppure non puoi essere così stremata. Mi hanno assicurato che il coma è come dormire senza sogni, galleggiare tra le soglie di due mondi senza peso, una meravigliosa parentesi che non vuole chiudersi. Niente di troppo difficile, niente che possa farti del male, vero? 

Ogni mattina perlusto i corridoi del sesto piano a caccia dello specialista, per indagare nuovi dettagli. Quest'uomo ha la tua vita nelle sue mani, ma forse neanche se ne accorge. Cammina distratto con mille pensieri più importanti nella testa, quasi fluttuando tra una stanza e l'altra, lasciandosi dietro solo una scia di brutte notizie, pianti repressi, rabbia, delusioni e improponibili scartoffie mediche che ci si sforza di capire ma che, nonostante tutta la buona volontà, si finisce per abbandonare con un sospiro, tornando a contemplare il tempo che scava il tuo volto senza i minimi progressi. Ma questo, al tuo competente medico di cura, non importa proprio per niente. Passa veloce con il manico della cartellina ben stretto nel pugno della mano, frettoloso, e rincorrerlo, scrollarlo, soffiargli sul viso senza più neanche la forza di replicare, serve solo ad intrattenerlo con noiosi discorsi sugli enzimi, e copie di articoli sulla tua malattia, e di gente che non c'è più. Sembra più interessato ad imbastire le statistiche del suo computer e le formule del suo laboratorio, che al tuo corpo crocifisso su questo letto d'ospedale.

Ed io, oramai, ho perso ogni speranza.

Inevitabilmente rinuncio a chiedere spiegazioni, a pormi domande, ad aspettare che qualsiasi medico di questa clinica varchi la porta, si inginocchi accanto al tuo letto e mi garantisca che tu stia bene, che ti riprenderai presto e che uscirai di qui con le tue gambe. Rinuncio, perché l'unica anima disperata che verrà a farti visita, oggi come ieri, domani come la settimana precedente, sarò io, solo e impaurito, svuotato completamente di emozioni,  troncate dalla linea sottile di confine tra la realtà lì fuori e il pallido grigiore qui dentro. Rinuncio, perché so che al mattino aprirò gli occhi con un nuovo tormento che mi avviluppa il cuore, una coperta fitta di aghi, che ogni giorno affonda un centimetro più in profondità. Verso di te, verso di me. Ma poi ti penso, taciturna, attendermi inconsapevole e speranzosa, e non posso far altro che accantonare il mio egoismo e girare l'angolo della strada principale, con gli occhi colmi di dolore.

Silenziosi, i ricordi mi richiamano irrimediabilmente verso di te. Senza una parola, mi riduci in polvere, semplicemente rifiutandoti di battere le ciglia e tornare a vivere. 

Quando ti sveglierai avremo mesi, forse anni, per incollare insieme i frammenti del tuo passato, o, meglio ancora, potremo inventare i ricordi secondo le tue fantasie: ti descriverò di me e di te, dei camini accesi a Natale, dei bambini che giocano al parco, dei miei occhi prestati, perché i tuoi non colmavano più la tua eccentrica curiosità, e, di nuovo, di due universi paralleli che, in un modo o nell'altro, sono riusciti a convergere in un unico, meraviglioso, punto di domanda. 

Per adesso mi limiterò a  raccontarti dei freddi pomeriggi d'inverno, quando la voglia di scappare dal mondo era tanta, e le parole troppo poche per essere cacciate di bocca. E allora avevamo bisogno di tempo, io e te, e guardarti fissare gli alberi carichi di pioggia oltre le vetrate, scribacchiando veloce su un foglio di carta stropicciato, la fronte corrugata e gli occhi socchiusi, un mozzicone di matita tra le mani e la mano che corre veloce sulla facciata giallina, probabilmente è stata l'unica cosa che mi ha permesso di restare.

Nessun litigio è mai riuscito a dividerci, nessuna forma di gelosia, o presunzione, o ancora, rabbia e delusione. Più che divergenze, i nostri battibecchi erano lievi, leggeri come la pioggia che picchietta le foglie in autunno. Per un'ora o due, ti rifiutavi di vedermi, ti chiudevi in te stessa senza un motivo preciso, e io non capivo. Non capivo,ma ti accettavo, perchè la ricompensa più grande alla mia pazienza era la vista dei tuoi occhi brillanti sotto il mio sguardo indagatore, quando, preda dell'euforia, mi sventolavi davanti al naso una nuova creazione scaturita dalla tua penna. Dimentica delle discussioni ormai accantonate, ti accoccolavi tra le mie braccia e mi incitavi a commentare in fretta quello che pensavo. Sbuffavo per vedere scalpitarti, poi scorrevo con lo sguardo le righe scritte in una callifagria veloce e ordinata, ma pressocchè illeggibile. Scuotevo i ricci, incrociavo i tuoi occhi ansiosi, sorridevo, e calavo la testa in cenno di assenso. Ancora oggi potrei descrivere con precisione, senza il bisogno di pescare tra i ricordi, ogni singolo nostro momento, come se il tempo si fosse fermato solo ieri. 

Invece, di tempo ne è passato molto di più. Tu sei rimasta tale e quale, come a voler testimoniare che sono io quello che sbaglia. Sono cambiato, ma non sono cresciuto. La mente è sempre quella di uno stupido adolescente alle prime armi con l'Amore, troppo impaziente per aspettare quella famosa cotta di cui tutti parlano, troppo inesperto per accennare i primi passi in un mondo così grande e sconosciuto.

È questo l'amore? È sentire le gambe tremare, danzare sul ciglio di un baratro? 

Oggi è l'otto novembre duemiladodici. In un giorno come questo, sette anni fa, sono partito per non ritornare più. Ricordo di essere andato via di casa a causa dell'odio che mi opprimeva i sensi. Ne avevo abbastanza dei pettegolezzi di paese, ne avevo abbastanza di dita puntate, risate di scherno, di facce apatiche e tutte uguali. Ne avevo abbastanza perfino di una famiglia che non comprendeva, così ho deciso di chiudermi la porta alle spalle e di ricomparire quando mi sarei sentito pronto. 

Otto settembre duemilacinque.

Non una telefonata, una lettera, una notizia giunta per caso. Da sette anni, un vero uomo ha preso il posto dello sprovveduto ragazzino nascosto dietro il muro delle sue insicurezze. Da sette anni, l'apprendista adolescente ha lasciato il suo villaggio in cima alla collina per abbracciare una speranza, incrociare sguardi nuovi, osservare la gente che cammina per le strade con le mani nelle tasche. 

Da sette anni, Harry Styles non esiste più. 

È vero, tu conosci a memoria la mia storia. Ho speso intere serate a cullarmi nella luce dei tuoi occhi, attingendo il mio coraggio nelle mille sfaccettature del tuo sguardo paglierino, nella sicurezza delle tue mani, nella purezza del tuo sorriso, piangendo, pregando, credendo. Ho sempre avuto paura di non essere abbastanza per te. Tu, così forte e determinata, non ti arrendevi davanti a nulla. Io, così debole e confuso, al primo ostacolo tendevo le mano e cercavo la tua, ti affliggevo con sciocchi dilemmi di un bambino impaurito. Eppure trovavi sempre il tempo e il sorriso per una chiacchierata, una stretta di mano, una certezza per non andare via.

È sempre spettato a te essere forte per tutti e due. 

Sette anni fa, probabilmente avrei riso se qualcuno mi avesse informato di come sarebbero andate realmente le cose, di quanto sarei cambiato e di quanto riuscissi a cambiare in così poco tempo. Oggi, ricordare è l'unica risorsa che mi tiene ancorato a questa città, mi distrugge e mi conforta allo stesso tempo. 

Quando, per la prima volta, decisi di ribellarmi alle mura che per diciotto anni mi avevano tenute nascoste le ingiustizie del mondo, pensai di essere importante, a modo mio, pensai di poter lottare contro l'universo tutto solo. Mi spostai di città in città, conobbi tante cose. La povertà, l'egoismo, la presunzione, l'avidità, la tristezza, la solitudine. Inciampai in visi nuovi, visi grigi e annoiati, e ne ebbi paura. Scappai, senza sosta, e capii perchè mi era sempre stato vietato affrontare la vita. Fuggii, senza meta, pentendomi delle mie azioni, rimpiangendo la mia villetta a schiera davanti alla panetteria, attaccando al chiodo il mio cappello consumato e la mia sacca sgualcita ogni qualvolta un pezzetto di anima si insediava nei recessi misteriosi e agghiaccianti delle grandi città d'Inghilterra. Smisi di scrivere, troncai la mia più grande passione e la sostituii con il terrore e l'emarginazione dalle vite altrui.

Passarono due anni, due anni di demolizione di ideali, disfacimento di sogni e crollo di aspettative. Per due anni non cedetti, motivando i miei ideali e guizzando veloce alla presa sfuggente della sconfitta. Per due anni scappai, vigliaccamente, contro la coscienza che sembrava volermi annunciare che non ci sarebbe mai stato un posto nel mondo adatto a me. E, proprio quando pensai che le suole delle scarpe fossero troppo stanche e consumate per continuare, proprio quando credetti che forse troppo tempo era passato per sperare, le prime, chiare, luci di Londra mi stregarono con il loro scintillio malevolo e mi  rapirono,  splendidamente, nell'inganno più dolce della mia vita.

Londra non era come tutte le altre città. Londra era forza, Londra era saggezza. Londra era vita, con le insegne luminose che brillavano nel buio, con il clamore dei clacson nel vociare della notte, con le nuvolette chiare di freddo respiro condensato, con i rumori, con il gelo nelle ossa, con le risate e il Big Ben alto nel cielo. Londra mi colpì come un pugno nello stomaco, come ciò che avevo sempre aspettato.

Ma, ancora di più, mi folgorò la piccola insegna del tutto anonima in fondo alla Westminster Bridge, così diversa dalle luccicanti targhe sfavillanti che la circondavano, che le intimavano di sparire, come a volerla stringere un po' di più per farsi spazio agli occhi dei passanti. Non so spiegare cosa mi attirò a tal punto da costringermi ad avvicinarmi e a lanciare uno sguardo oltre le vetrate polverose di quella piccola biblioteca senza pretese. Forse il crepitio di una debole fiammella nelle vene, o forse il basso richiamo malizioso di un sogno di carta e inchiostro svanito all'inizio del mio viaggio. Strascicai i piedi e mi accostai alla vetrina. Poi, con un gesto secco, spazzai via le gocce metalliche di pioggia e spalancai gli occhi, stupito.

Il tepore accogliente di una lampada da scrivania si allungava languidamente sulle assi di legno di un parquet perfettamente lucidato, abbozzando ombre morbide sulla schiena delle poltrone scarlatte al centro della stanza. Addossati alla parete, decine di libri si affollavano stringendosi l'un l'altro su interminabili scaffali, mostrando le copertine dai titoli ormai sbiaditi. In fondo alla sala i tratti appena schizzati di una figura minuta accennavano il contorno delicato delle sue spalle e la curva soffusa di un paio di fianchi, le dita protese gentilmente a sfiorare il dorso logoro di una fila di testi consunti, quasi a carezzare con timore reverenziale le storie silenziose di poeti senza frase. D'un tratto si fermò, le spalle ben dritte abbracciate da una cascata di corti capelli bruni, incorniciati in cima al capo da un buffo berretto grigio, come a voler nascondere le punte leggermente mosse. Cauta, allungò la mano e afferrò un libro, lo aprì e lisciò con cura le orecchie in fondo alle pagine. Lo rigirò tra le mani, poi si voltò ad occhi bassi e, con una certa eleganza, appiattì le pieghe del cappottino nero, per poi sedersi a gambe incrociate sulle assi chiare del pavimento. Avvicinò il naso alla pagina, chiuse gli occhi e trasse un profondo respiro. 

Sapevo cosa sentivi. Sentivi l'odore di carta vecchia, di pagine sfogliate centinaia di volte, di ricordi e di memorie, di rugiada ed erba tagliata, di mamma che racconta una fiaba... E mi ritrovai a desiderare ardentemente che tu alzassi gli occhi e incrociassi il mio sguardo per la prima volta, che compatissi un povero ragazzo esposto alle angherie del mondo, che mi comprendessi senza fare commenti, io, così ridicolo con il naso rosso incollato alla vetrina e i ghiaccioli nei capelli, i vestiti smessi e gli occhi colmi di lacrime, e magari mi invitassi al tuo calore per scaldarmi, per ascoltare la mia storia, e perché no, anche per offrirmi una tazza di caffè... 

E, nell'irreale verità, ti vidi ascoltare la mia muta preghiera, spostare lo sguardo oltre la vetrina e mettere fine all'impellente desiderio esploso nel petto. 

Otto dicembre duemilasette.

La gente mi urtava, imprecando a mezza bocca contro la pioggerellina fitta del freddo inverno londinese. Le mani intirizzite, strette a pugno sulla superficie liscia e bagnata del vetro, inviavano pericolosi segnali al cervello. Qualcuno mi scosse insistentemente per un po', poi, preoccupato e sconfitto, si allontanò nella direzione opposta senza dire una parola. Ma io, immobile e silenzioso, sordo al resto del mondo che non comprendesse me, te e quella biblioteca, tremante, incuriosito, affascinato, rimasi senza parole giusto l'attimo che precede la consapevolezza di aver ricevuto un invisibile pugno nello stomaco da uno sguardo dalla forza prorompente.

Oltre le lenti dalla spessa montatura, il più stupefacente paio di occhi che avessi mai incrociato in vita mia mi studiava curioso, quasi apprensivo, senza la minima traccia di malizia a delineare il contorno sottile delle lunghe ciglia scure. Vagai delicatamente a scoprire la vita oltre le pupille, brune della danza di fiammelle luminose, finestre dell'anima che mi osservavano gentili, senza pretese. Carezzai con dolcezza la tiepida innocenza nelle pagliuzze dorate, mi accoccolai cautamente nei ricordi della tua energia. Poi, come a voler infondermi coraggio, mi soffermai, di nuovo, nella forza docile e silenziosa che leggevo nelle tue iridi.

Una chiara, trasparente, del colore lucido e brillante di un cielo senza nuvole, tendente al grigio cenere intorno alla pupilla. L'altra cupa, profonda ma viva, scintillante e fervida, notte mai vuota che si accende di mille piccole lucciole.

Sentii il cuore martellare nel petto, risalire la gola e precipitare giù, in fondo allo stomaco, stabilizzarsi incerto al centro della cassa toracica e compiere un'ultima, disperata capriola, prima di arrestarsi convulsamente con un ultimo sospiro. 

Non avevo mai creduto al colpo di fulmine. In realtà, non avevo mai creduto che l'uomo potesse davvero amare qualcosa. Una macchina, una chitarra, un tavolo da biliardo o, addirittura!, una persona. Mentivano. Semplicemente si aggrappavano a inutili menzogne,  allo scopo di blaterare in giro quanto la loro vita fosse piena, come i loro giorni fossero illuminati da una presenza al fianco, e chissà a quando il matrimonio. Perché in fondo, la gente, voleva sentirsi dire questo. Voleva crogiolarsi nell'autocommiserazione al pensiero  di coppiette felici mano nella mano, e piangersi addosso al posto di darsi una mossa ed evitare di perdere le poche occasioni che gli passavano davanti per interminabili ultime volte. 

Eppure, sarebbe mai stato possibile innamorarsi di uno sguardo? 

Quello che successe dopo lo ricordo vagamente, come se gli eventi si fossero svolti ad una velocità allucinante. Lo scricchiolio del legno sotto passi leggeri e affrettati, lo scampanellio dello scacciafantasmi in cima alla porta e il lento sussurrare di due labbra agitate, una presa decisa sul braccio, poi il calore che avvolge le ossa, fino a raggiungere le terminazioni nervose più distanti e risvegliare con uno scossone violento ogni capacità motoria  momentaneamente perduta. Mi ritrovai seduto, le mani impegnate a reggere una tazza fumante, lo sguardo ancora perso in quei meravigliosi occhi ipnotici. Uno azzurro, l'altro nero. 

Mai mi parve di aver visto occhi più belli e sinceri di quelli. Forse perché per un attimo, un momento soltanto... Un momento che parve un'eternità, in quegli occhi ci lessi i miei sogni. 

Quella sera, scoprii più di quanto avessi imparato negli ultimi anni. Assaporai il rumore di una risata repressa che spezza il silenzio, lessi la complicità tanto palpabile tra due corpi sconosciuti, mi agitai nella bellezza della semplicità e al tuo donarti alle parole, senza riserve, e compresi che da troppo tempo non mi beavo delle piccole soddisfazioni della vita. Avevo cercato spasmodicamente ciò che avevo sempre avuto sotto il naso: un sorriso, una stretta di mano, la felicità. E avevo avuto bisogno di te per capire che in fondo bastava poco per piacere alla vita.

Parlasti tanto che le guance ti s'infiammarono, mentre gesticolavi con veemenza e gli occhi ti brillavano, il tono di voce si alzava e scuotevi il capo quando ti esprimevi sui tuoi pensieri o sui tuoi ideali. Muovevi passi concitati lungo il perimetro della stanza, di fretta, come se non avessi avuto abbastanza tempo per raccontarmi ciò che inizialmente il tuo silenzio aveva taciuto: in un primo momento avevo ben pensato che non avessi voglia di parlarmi, ma avremmo potuto intenderci anche rimanendo in quel tuo strano silenzio, insieme. Invece c'era voluto poco per fidarti e cominciare a raccontarmi l'intricato disegno della tua vita, a partire da una famiglia che aveva deciso di non seguire i tuoi sogni, per finire a un pugno di aspirazioni mai abbandonate del tutto. Però ce l'avevi fatta, tutta sola, come un fuscello che si piega ma non si spezza, e Dio sa quanto ti ammirai mentre sentivo il mio coraggio rialzarsi dalla polvere.

Capii che la saggezza imitava un po' te, sentii montare nelle vene una fiducia cieca mentre alcune ciocche scomposte ti vorticavano intorno al viso e le tue parole davano voce ai miei pensieri, profonde e un po' roche per il tanto parlare. Forse per la prima volta fui un buon ascoltatore, uno spettatore obbediente che rimase per tutto il tempo interdetto, senza capacitarsi di come potessi confessarmi così facilmente i piccoli, grandi drammi che ti accompagnavano. In seguito mi raccontasti che nei miei occhi balenava qualcosa che non avevi mai visto, che ti imploravo aiuto con quel disperato sguardo languido e umido, e solo rincuorandomi con le giuste parole avevi sperato di potermi sollevare sulle ginocchia scorticate dalle ferite della solitudine.

Dicesti di chiamarti Faith, e mi parve subito un nome bello e degno di nota. Faith. Destino. Sembrava scivolare tra le labbra e accarezzare la lingua con mille promesse quasi inesaudibili. 
***

"Non credi sia sbagliato?" 
"Che cosa?" 
"Tutto questo. L'emarginazione, la solitudine, la sfiducia. Non pensi che il miglior modo per logorare l'animo di una persona sia guardarsi attorno e non trovare altro che indifferenza e frustrazione?"

***
Da quel giorno, fu tutto un susseguirsi di strani eventi che spazzarono completamente via le mie certezze e le mie solite priorità giornaliere. Dapprima, sono certo, la mia era soltanto curiosità. Mi avevi offerto gentilmente un posto per dormire, almeno per quella notte, ma io avevo declinato l'offerta, scuotendo il capo e assicurandoti che sicuramente avrei trovato un luogo per riposare, in quella sera in cui tutto sembrava essersi capovolto. Non replicasti più di tanto, sapevi già che le parole non sarebbero servite a nulla, e che sarei tornato comunque. Allungai la mano e strinsi la tua, ringraziandoti. Per che cosa, lo sapevamo solo io e te. Ci guardammo un po' dispiaciuti per una frazione di secondo, le mani ancora intrecciate esitavano più del dovuto, occhi negli occhi che scrutavano la speranza in fondo alle pupille brillanti. Poi voltai le spalle e uscii da quella porta che tante altre volte mi avrebbe visto ritornare, eppure io non potevo ancora saperlo.

Il sole sorse prima del previsto, sull'albeggiare pallido del mattino, più di quante volte avessi immaginato. I piedi ormai si spostavano da soli, ripercorrendo ogni giorno la stessa strada imparata a memoria, senza che prestassi molta attenzione. Camminavano attirati da una forza irresistibile, e macinavano chilometri con la stessa rapidità con cui le suole delle scarpe si consumavano sotto passi veloci e impazienti. La meta, comunque, era sempre quella. L'insegna sulla porta non sembrava più tanto insignificante, i mucchi di libri accatastati alle pareti non furono mai rifugio così accogliente. Tutto sembrava acquistare un fascino particolare, quando la polvere danzava nel cono di luce proveniente dalle finestre socchiuse nella luce del mattino.

La prima volta tornai dopo una notte insonne trascorsa a pensare, con gli occhi così gonfi di torpore represso da confondere persino i lampioni con le cabine telefoniche. Spinsi la porta con delicatezza e sorrisi alla vista del disordine che regnava sovrano nella stanza. E nel bel mezzo di pile di libri c'eri tu, l'essere più incasinato di tutti, il capo affondato in un volume gigantesco e il totale disinteresse per il caos intorno a te. Alzasti il capo e sorridesti, sorniona, perché non aspettavi altro che me, ed evidentemente la tua attesa era stata ripagata con la giusta previsione. Neanche una parola, eppure capii con esattezza quello che bisognava fare. Fianco a fianco lavorammo tutta la mattina, disponendo i libri sulle vecchie scaffalature a muro, spazzando i pavimenti, ripulendo le vetrate e imballando scatoloni, disfacendo ciò che restava delle vecchie tracce dei passati proprietari. Faticammo tutto il giorno, ma quattro braccia non bastarono in così poco tempo per rimettere in sesto un luogo trascurato da anni.

La palla di fuoco di un Sole vivace che tramontava oltre il Big Ben ci vide spossati, schiena contro schiena sul freddo pavimento tirato a lucido, le maniche delle camicie tirate sopra i gomiti e i respiri affannosi, le spalle scosse da sospiri sommessi e le teste chine, arruffate. 
***
"Ho sempre sognato questo, sai? Gestire una piccola biblioteca in centro Londra e abbandonare tutto il resto, vivere per i libri, intendo."  
"Hai avuto coraggio."
"Credi? Mi appare più come vigliaccheria. Mollare tutto proprio quando c'è più bisogno di te, capisci? Scappare per non ritornare, perché la paura è tanta e tu sei troppo debole per affrontarla." 
"Devo essere stato vigliacco per molto tempo, allora. Uno sfollato della società, recluso ai bordi delle panchine ogni notte, e a quello dei marciapiedi ogni giorno. Non ho combattuto. L'unica fissa dimora che ancora ricordo è quella della mia casa nel Cheshire, le uniche braccia accoglienti quelle di mia madre. Eppure sono andato via, rifugiato nell'abbraccio del destino, lo stesso giorno in cui ho salutato la mia terra. Buffo, no? La paura alle volte non ti lascia scampo. Ti sfonda la porta di casa e ti trascina con se', e non puoi far niente per opporti." 
"Come hai detto di chiamarti?"
"Harry."
"Harry. È il presagio di qualcosa di grande." 
***
Tra le mensole di una vecchia biblioteca la curiosità si trasformò in fiducia, la fiducia in amicizia, e l'amicizia in qualcosa di indefinito e immenso, ma piacevole. Fu un'emozione graduale, che si insediò in punta di piedi in ogni parte del mio corpo e, quasi invisibile, andò ad ingigantirsi minuto dopo minuto, ora dopo ora, giorno dopo giorno. Me ne accorsi troppo tardi, quando sempre più spesso mi incantavo a guardarti nei tuoi scoppi d'ilarità, mentre i pennelli gocciolavano sul pavimento e la carta da parati si afflosciava tra le mani, e tu venivi a rimproverarmi con un sorriso, per poi spintonarmi a riprendere a lavorare con il naso sporco di calce. Passò tanto di quel tempo che i mesi non si contavano più sulle dita di una mano, ma la nostra fatica ebbe modo di essere ricompensata. 
***
"Quanti mesi potremo buttar via per completare l'opera? Tanti, troppi. Non sei obbligato ad aiutarmi. A dir la verità non capisco neppure perché tu lo faccia. Sei un pazzo, Harry. Luoghi da visitare, storie da scoprire. E tu qui, con una completa estranea, pronto a segnare un percorso e centinaia di occasioni che non si ripeteranno più..."
Non ci guardavamo nemmeno, gli occhi fissi alla parete, le mani sui fianchi. Allungai un braccio e le spettinai i capelli con un gesto amichevole, come un fratello maggiore che punisce la sorellina più piccola per qualche marechella appena combinata. Lei, stranamente, non cercò di respingermi, non strillò neanche quando le mie mani andarono ad aggrovigliare la matassa morbida di capelli informi. Fatto insolito, per una ragazza.
"Tu non sei una completa estranea. Sei la svampita bibliotecaia dagli occhi strambi che mi ha salvato, una notte di dicembre, al freddo pungente di Londra. Quindi, se non te lo avessi fatto presente prima, grazie. E credo proprio che quattro braccia siano più veloci di due, no?" 
"Non devi aiutarmi perché credi sia il giusto prezzo da pagare per ringraziarmi. Dovrei essere io a chiederti scusa. Hai ascoltato le mie lamentele senza fiatare, mi hai consolata senza bisogno di spiegazioni, sei rimasto in silenzio, acconsentendo, senza che io ti chiedessi il permesso per tutto quello che stavo rovesciandoti tra capo e collo. Decisamente, sono io a doverti ringraziare." 
"Ad ogni modo, non credo che questo rientrerà nel tempo della mia vita che rimpiangerò. Non hai niente per cui scusarti, se non la tua insicurezza. Adesso mettiamoci al lavoro. Prima cominciamo, prima finiremo, giusto?"

Lei non capiva. Credeva di dover essere in debito con lui, Harry, quando invece, per una questione o per l'altra, per una ragione o un motivo inspiegabile, era lui a sentire le ginocchia cedere davanti al suo sorriso da bambina. Era lui a dover essere riconoscente a quello sguardo che l'aveva sì, salvato quella notte, molto più di quanto avrebbe mai potuto aspettarsi in vita sua.
 
***
"Harry?"
"Mmmh?"
"Sei mai stato innamorato?" 
Abbassai il pennello, lentamente, e sospirai. Accarezzai con lo sguardo la figuretta sul pavimento, il capo rivolto a scrutarmi, gli occhi grandi di curiosità e innocenza. Pareva quasi una scolaretta bisognosa d'apprendere, e io il suo maestro che avrebbe dovuto insegnarle ciò che smaniava di sapere. Poteva l'insegnante presentarsi impreparato? La sua espressione mi infondeva un'immensa tenerezza: dolce e buffa allo stesso tempo, caparbia, orgogliosa, risoluta più che mai a risolvere quella domanda che, sapevo per certo, le frullava in testa da tanto tempo, ma nessuno aveva mai saputo risponderle. Non potevo deluderla, non io. Tirai un sospiro e mi accovacciai ai suoi piedi, molleggiando sulle ginocchia. I suoi occhi non abbandonavano ancora i miei, tristi.

"Io... potrei dirti che sì, tanto tempo fa sono stato innamorato di una donna estremamente importante per me, senza la quale non avrei mai potuto concludere un capitolo altrettanto importante della mia vita. Ma questo equivarrebbe a mentirti, e io non voglio farlo.E allora, per questa volta, ti dirò la verità. Non sono mai stato innamorato, se non della carta e dell'inchiostro, perché troppo impegnato dalla vita che mi soffocava e mi vinceva, troppo schiavo di piaceri quotidiani e inutili tanto quanto la mia esistenza prima di capire cosa significasse essere innamorati. Adesso, credo di esserlo. Sono innamorato di nuvola, fiore, silenzio e betulla, profumo e rugiada, carta e sorriso, pioggia e aghi di pino, musica e soffio... e potrei continuare all'infinito, perché tutte queste cose me le hai insegnate tu, nella tua semplicità."
Sorrisi, quasi involontariamente. Le brillavano gli occhi, e mi ringraziava, mi stava ringraziando per averle dimostrato che tutti, a questo mondo, compiono qualcosa di buono per gli altri. Allungò le braccia, timidamente, e mi strinse in un abbraccio fragile, sperando di trasmettermi tutto il calore di cui avevo bisogno. Credo proprio che ci riuscì.

***
"Faith?"
"Mmmh?" 
"Cos'è l'amore?"
 
***
Otto luglio duemilaotto. 

Temevo. Avevo paura che, finita la nostra missione di salvataggio di un locale dimenticato da Dio, avrei dovuto salutarti per l'ultima volta e, questa volta, non tornare. Avevo da sempre saputo che quel momento sarebbe arrivato, ma chi si immaginava così presto? Ero irrimediabilmente dipendente ormai, dei tuoi occhi stanchi dopo una giornata di duro lavoro, delle gomitate in pausa pranzo, dei sorrisi e dei cappelli di carta, dei giornali sulle pareti e della massa informe sul tuo capo per le tante volte in cui avevi affondato le mani nei capelli profumati di vernice. Assuefatto da chi mostrava la semplicità, un modello di bellezza particolare, non troppo evidente, ma pulito, puro, genuino nei suoi piccoli difetti. Mi avevi dimostrato che non erano necessarie un paio di gambe chilometriche, due occhioni chiari, o dei capelli biondo platino, per essere davvero belle. L'arma vincente era un sorriso, un insulto amichevole, un discorso brillante. E non ero del tutto sicuro di essere pronto a disintossicarmene. 
***
"Finirà tutto qui, oggi, non è vero?" 
"Io non ho mai sostenuto questo, Harry."
Seguì un attimo di silenzio, interrotto solo da sospiri affranti. Un po' per la fatica, un po' per il vuoto incolmabile che stava cominciando ad allargarsi nel petto di ognuno dei due. Voltai la testa, consapevole che il tempo non sarebbe bastato se i rimpianti avessero preso il sopravvento. Allungai le mani e strinsi le sue, preparai mentalmente un discorso che mi convinceva ben poco. Per un attimo fui tentato di mollare, ma i suoi straordinari occhi dietro le lenti mi inchiodarono, insicuri.
"Faith..." Deglutii rumorosamente, cercando di cancellare il nodo che stringeva la gola. Sorrise, allungò una mano e mi fece una carezza. 
"Harry, parla pure liberamente. Hai paura, lo sento. Sai che di me puoi fidarti, cosa ti blocca di così spaventoso?"
Sembrava sinceramente preoccupata, e questo mi infuse nuovo vigore. Strinsi un po' di più le sue mani, mi inumidii le labbra e repressi le parole che lottavano per rotolare giù per la lingua. 
"Io non sono mai stato bravo con le parole. Ho tante cose da dirti, ma alla fine dimentico sempre ciò che è veramente importante. Quanto è passato da quando ci siamo conosciuti? Dei mesi? O un battito di ciglia? Non lo ricordo più, perché mi sembra un soffio tutto il tempo trascorso con te. Non ho mai avuto abbastanza coraggio, o spirito d'iniziativa, chiamalo come vuoi. E adesso mi sento un codardo, perché di tutto quel tempo concesso ce ne resta ben poco, e io non ho ancora trovato le parole adatte per arrivare dritto al punto senza ferire te e me. Il fatto, è che io non voglio che finisca tutto qui. Mi sono così abituato a te che non riesco a immaginare più i miei giorni senza la tua presenza al fianco. Sarebbero... sbagliati, capisci? Ho bisogno di te, della mia confidente, della mia amica, di chi più di tutti mi ha accolto e insegnato senza porre condizioni e domande, di te che l'amore me l'hai spiegato in  due semplici mosse, guardarmi e sorridermi, che mi hai ricordato di brillare nella mia luce, di accettare, di non arrendermi, persino di vivere... Mi rifiuto di credere che tutto possa essere cancellato così velocemente, da un giorno all'altro senza un rimorso, che ciò che ci ha legati non possa essere altro che aiuto reciproco, tanto fioco e sbiadito da permetterci di riprendere le nostre strade divisi, senza dispiacerci neanche un po'." 

Sapevo di aver detto le giuste parole. Sapevo di dover stringere ancora le sue mani e supplicarla  con lo sguardo, sapevo di non poterla  lasciare andare, anche ora che d'un tratto vacillava, colpita, senza tirarsi indietro. Eppure quegli occhi grandi, sorpresi, abbattevano le barriere delle mie certezze, e avrebbero continuato a farlo, anche se fossi stato l'uomo più sicuro e fiducioso sulla faccia della Terra. Però qualcosa mi frenava, mi tratteneva dallo spalancare la porta e correre via, lontano, e dimenticare tutti i miei errori.  

"Ti prego..."
Forse fu lo stesso principio per cui sentii esplodere i fuochi d'artificio nello stomaco, lo stesso istante in cui le sue labbra si posarono sulle mie. 
***

"Adesso capisci perché ho bisogno di ringraziarti, Harry?" 
"Che intendi?" 
"Sei capace di farmi sentire importante come nessun altro." 
***

Da lì in poi, le cose si inseguirono le une con le altre in una serie di eventi senza la minima sfumatura di quelli che io, fino a quel momento, avevo chiamato "problemi". Cominciammo a convivere in una modesta casa in centro Londra, e a gestire la biblioteca insieme, adesso ampiamente frequentata da clienti di fiducia capaci di ripresentarsi ogni giorno, pur di scambiare due chiacchiere con qualcuno che si presentasse così gentile e disponibile. 

Avevamo deciso di provarci, insieme, a costruire un rapporto basato sulla fiducia e sui comuni sentimenti, e a quanto pare le emozioni che ci legavano si rafforzavano ogni ora di più, rendendoci consapevoli dell'immensità di un amore di cui non potevamo più fare a meno. Il tepore di un bacio, la dolcezza di un sorriso. Ogni piccolo gesto era diventato fondamentale nelle nostre giornate. Cominciavo a sentirmi bene, bene con me stesso per la prima volta dopo tanti anni. Non avevo più bisogno di scappare, la mia certezza la trovavo lì,  dietro il bancone di una biblioteca, con la penna in mano e il foglio pieno di parole sotto il naso, oppure sul retro della nostra casa, dondolarsi piano sull'altalena in giardino, gli occhi chiusi rivolti verso il sole delle belle giornate. Iniziavo a pensare che potesse davvero nascere qualcosa di serio, mi guardavo intorno e vedevo la mia casa, il mio lavoro, la donna che amavo, e immaginavo le urla dei bambini e il chiasso di una stanza piena di parenti. Evidentemente ero deciso a compiere un passo più lungo di una gamba.

Bastarono pochi minuti per distruggere tre anni di amore incondizionato. 

***

"Harry? Puoi venire un momento per favore?" 
Mi affrettai a raggiungerla, un po' preoccupato, e notai che cercava di infilarsi i guanti sulle mani tremanti, con scarsi risultati. Inarcai un sopracciglio e aprii la bocca, pronto a formulare la mia domanda. Ovvero perché diavolo fosse vestita di tutto punto, come se fosse pronta ad uscire di lì a poco, quando non avevamo nessun programma per il pomeriggio. Lei mi bloccò prontamente, sistemandosi meglio il berretto sul capo. 
"Vieni, camminiamo." 
Acconsentii alla strana richiesta e mi chiusi la porta di casa alle spalle. Solitamente andavamo in giro a piedi per le vie di Londra quando avevamo bisogno di schiarirci le idee, e lei non riusciva a tenere per se' qualcosa di importante. 
"Faith, che succede?" 
Non mi rispose subito. Continuò a camminare a testa bassa, poi si fermò e prese un respiro. Voltò il capo e mi fissò con gli occhi più limpidi del solito. 
"Ti ricordi che ogni lunedì, tutti i lunedì, per un motivo o per l'altro, mi assento sempre, vero?" 
Annuii lentamente, cercando di anticipare il filo dei suoi pensieri. Tutto quello che percepii fu soltanto una strana inquietudine all'altezza del petto, che mi gravava pericolosamente sul cuore. Inspiegabilmente, iniziò a farsi strada nell'animo la paura, una paura piena d'angoscia, come quando sai che sta per succedere qualcosa di terribile, ma lo puoi solo presagire. 
"Tutti i lunedì vado in ospedale e faccio dei... controlli." 

Il cuore perse un battito. La conoscevo bene. Troppa incertezza in quelle parole, troppo nervosismo a fior di pelle inutilmente nascosto. 

"Faith..." 
"Due anni fa mi hanno diagnosticato una malattia di poco conto. La chiamano "porfiria", che nome buffo, vero? Probabilmente cercano solo di mascherare la paura dei pazienti con epiteti ridicoli come questo. È una malattia genetica del sangue, niente di troppo grave. Qualche visita settimanale, compresse dopo pranzo e tanta buona volontà per superarla.  Mi sembrava stupido farti preoccupare per una sciocchezza come questa, in fondo è un po' come un'influenza prolungata che devi continuamente curare se vuoi guarirne. Ultimamente, però, si è presentato qualche... problema."
"Che genere di problema?" Sentivo il respiro farsi pesante, le mani sudavano e maledicevo il maledetto orgoglio di Faith, che le aveva imposto di superare quella malattia da sola, senza il mio aiuto. 
"Non è niente per cui preoccuparsi troppo, davvero..." 
"Di quale problema stai parlando?" 
La vidi torturarsi le mani e tormentarsi convulsamente il labbro inferiore. Brutto, bruttissimo segno. Lo faceva solo quando non aveva ispirazione e si bloccava sull'enorme manoscritto che aveva in cantiere da tantissimo tempo, e che non mi aveva mai permesso di leggere. In quei momenti si arrabbiava tanto da urlare alla parete di fronte al suo naso, spettinarsi i capelli e consumare il tappo della biro a forza di morsi nervosi.
"Non credevo di essere guarita, pensavo solo di aver domato la malattia, ma a quanto pare mi sbagliavo. Ho avuto un peggioramento, i medici lo chiamano "calo", e questo ovviamente comporta delle conseguenze." 
"Quanto leggero? Che conseguenze?" 
Ormai il senso di oppressione mi avvolgeva come una cappa stretta e senza via d'uscita. Dovevo sapere, subito, senza convenevoli o giri di parole. Volevo capire, volevo pregare ed illudermi. 
"Tanto leggero da dovermi costringere a un'operazione. Non sarà qualcosa di difficile, i medici mi hanno assicurato che non ci saranno complicazioni. Purtroppo è una malattia molto rara, e ne soffrono davvero poche persone, ma se l'operazione andrà bene potrò aiutarle, anche se indirettamente." 
Io l'avevo sempre saputo che era una donna molto, molto forte. Cercava di non piangere e ricacciare le lacrime indietro, rimandando il pianto in un momento di solitudine. Mi sconcertava la sua enorme forza: prima di tutto pensava agli altri, poi a se' stessa. Ma io non le credevo. O meglio, non credevo alle baggianate dei medici. E avevo paura, una paura folle, disperata, la paura di chi teme di perdere qualcosa di estremamente prezioso per la sua sopravvivenza. 

***

Eseguirono l'operazione qualche giorno dopo. La situazione stava precipitando più velocemente del previsto, eppure i dottori continuavano a rasserenarci con costatazioni stupide e prive di senso. Decisero all'ultimo momento di tenerti sotto controllo ed eseguire l'operazione il prima possibile. Via il dente, via il dolore, è così che si dice? 

***
"Speravo che questo giorno non arrivasse mai... Sei pronta?" Deglutii e le strinsi la mano pallida, cercando di infonderle un briciolo di forza, nonostante il nodo alla gola non mi permettesse neanche di parlarle.
"Tu non lo sei per niente, non è vero?" Sorrise, e allungò un dito per sfiorarmi la guancia. Non risposi, mi limitai a percorrere tristemente il tubo sottile che dal braccio si srotolava lungo le lenzuola candide. 
"Faith, io ti amo. Non posso perderti proprio adesso che ti ho trovata." La voce si incrinò pericolosamente, e probabilmente lei se ne accorse. Una lacrima solitaria le solcò la guancia. 
"Harry, ma tu non mi perderai. È solo una stupida operazione, una stupida operazione..." scrollò la mia spalla con veemenza. Scossi il capo. Volevo essere forte, più per lei che per me, ma non ci riuscivo. 
"Signorina, è ora di andare" una donna in camice si avvicinò al letto, e il mio cuore cominciò a battere all'impazzata.
Io non mi fidavo, non mi fidavo della donna vestita di bianco. Sentii la paura attanagliarmi le viscere e sommergermi con la propria straordinaria potenza. Non staccai gli occhi neanche un momento dalla figura che veniva caricata sulla barella, pesante come un soffio di vento. Non abbandonai le sue iridi cristalline neanche per un attimo, sperando di aprire gli occhi il prima possibile e risvegliarmi da un brutto sogno.
"Harry."
Alzai lo sguardo, ferito e distrutto. 
"Secondo cassetto a destra del primo scaffale. La chiave è sull'ultimo ripiano del bancone della libreria, accanto a quei libri di Sparks che ti piacciono tanto. L'ho scritto per te." 
Nessun potere per replicare, nessuna forza per sorridere.  
L'infermiera continuò a spingere la barella, le ultime urla furono soffocate dalla distanza che ci separava. Poi, però, non potei fare a meno di sentirle. Poche parole, chiare, distinte, sincere, le parole più semplici e belle che le mie orecchie avessero bisogno di sentire in quel momento. 
"Harry... Ti amo anche io." 
 
***
Otto dicembre duemilaundici.

Avevi mentito. Avevi mentito. 

Le lacrime bagnavano il foglio tremante tra le mie mani, fitto di una calligrafia minuta ed elegante. 

Avevi mentito, ed io, inconsapevole, avevo creduto bene di lasciarti andare. 

"Signor Styles, vorrei potermi avvalere della facoltà di non commentare queste brutte notizie, ma purtroppo fanno anche parte del mio lavoro. Abbiamo concluso l'operazione parecchie ore fa, ma la paziente pare non risvegliarsi. Momentaneamente non sappiamo darci una spiegazione, potrebbe essere causa di reazioni contrastanti provocate dall'anestetico, o di effetti collaterali innescati durante l'operazione. Mi dispiace informarla che la signorina è entrata in coma. Ma non si scoraggi" - il tono si era fatto più dolce, quasi paterno e comprensivo - "non sappiamo con certezza quando si risveglierà, ma sappiamo per certo che la sua attesa non sarà lunga, e sperare non nuoce mai." 

Bugia. Un'altra bugia, come se non ne avessi sentite abbastanza nell'arco di dodici ore. Quelle parole continuavano a frullarmi in testa, la tua ultima immagine a danzarmi dietro le palpebre. Avevo fatto come avevi detto. Avevo preso quella chiave, e aperto quel cassetto. E dentro avevo trovato un libro sottile, semplice, rilegato in pelle, datato al fondo della prima pagina bianca. 

8-12-2007. 
Tu non sai chi sei fino a quando non trovi te stesso.
E io ho trovato me stessa in te. Grazie di tutto, Harry Styles. 

E, dopo quella, altre pagine si susseguivano, si spintonavano le parole, si affollavano sotto gli occhi i ricordi di un passato così vivido da poter allungare la mano e sfiorarne i contorni. Ricordo che quel libriccino riuscì a cancellare, anche se per un paio d'ore, la disperazione e il dolore che mi circondavano. Bastava girare una pagina e scorrere le poche righe scritte in una grafia frettolosa e distante, per rivivere ogni momento dimenticato anni addietro, e sentire sulla pelle ogni sensazione come fosse la prima volta. Ogni parola fu la salvezza di un uomo devestato, e quasi ebbi paura di quel bianco accecante, maligno, quando voltai l'ultima pagina. Solo candido, lattiginoso, bianco inconsistente. Gli ultimi freghi calcavano la cima della facciata chiara pesantemente, come se l'autore avesse bisogno di più tempo prima di calare il sipario su quell'opera incompleta. 

"È fatta, questa volta non riuscirò a superare quell'ostacolo che mi pare così vicino e insormontabile. Spero che tu, Harry, mi perdonerai e comprenderai questa mia piccola debolezza. Tu mi avresti spinta a lottare, mi avresti spronata a vivere e a non arrendermi fino all'ultimo. Ma io non sono così forte come credi, anche se possiedo una certa bravura nel nascondere i miei sentimenti quando mi guardi fiero e orgoglioso di una sicurezza e una decisione che non ho. Vedi, tutto ciò che rimpiango è il tempo che non potrò più dedicarti. Sono qui, seduta a guardarti con la penna tra le mani, e so già che verrai a chiedermi per l'ennesima volta di leggere "quel gigantesco blocco di fogli incomprensibili che scrivi da una vita. Diamine Faith, fammi dare un'occhiata!" ma tu in compenso sai che non ti lascerò neanche sbirciare la prima sillaba di questo libro che scrivo dal giorno in cui ci siamo conosciuti.
Ti guardo, ti guardo e ho paura, perché questa operazione mi porterà via ciò che amo di più. C'è la possibilità che non mi risvegli, ma io questo non te l'ho detto, perché so come avresti reagito e come avresti distrutto il mondo con quel tuo sguardo dolce e un po' remissivo. Non te l'ho detto, perché quello che ci sta accadendo è ingiusto, sbagliato come la neve in agosto o il sole in dicembre. Ciò che mi succederà dopo è già stato scritto. Quel che succederà a te, Harry, puoi ancora cambiarlo e renderlo migliore del futuro che verrà. Sei l'artefice del tuo destino, e tante, troppe persone hanno bisogno di te, te che riusciresti a far sentire unico e speciale anche l'uomo più insicuro su questa Terra. A proprio modo, certo,  ma riusciresti a far spuntare il sorriso anche a chi, piegato dall'amarezza e dall'infelicità, smette di sperare. Io non smetterò mai Harry, perché forse ti avrò insegnato ad amare, ma io, da te, ho imparato a lottare e sperare con tutta me stessa, a puntellarmi sull'ultimo briciolo di forza e rialzarmi dalla polvere senza un graffio da ricucire. Come una luce che avvolge e riscalda, mi fa sentire amata. E io, come il chiarore abbraccia la notte, come l'alba saluta le stelle, ti sfioro da lontano e calco un punto a questo libro, alla nostra storia, che più che un "addio", sarà un eterno "arrivederci".
Arrivederci, ragazzo sperduto nella notte di dicembre. Arrivederci, Harry Styles." 

***

Ho letto quelle ultime parole un anno fa. Quel libro mi salvò la vita. Mi accompagnò nella lenta agonia delle notti in ospedale, mi diede una ragione per cui credere ancora in qualcosa. Mi aggrappai disperato a un'àncora di salvezza, e quella, piano piano, si insediò in ogni recesso del mio corpo, tanto da diventarne parte stesso. E poi capii. Capii che nulla si lascia a metà, che ciò che si comincia ha bisogno di essere portato a termine. Capii a cosa servivano le mie mani e quella penna sul comodino, capii l'ordine implicito che mi avevi dettato tra le ultime righe. E capii che quel libro aveva ancora tante di quelle pagine bianche da riempire, che di tempo ne avrei avuto a sufficienza. 

***

Oggi, otto novembre duemiladodici, scrivo. Scrivo a tentoni nel silenzio della stanza ovattata dai suoni metallici delle macchine attaccate alle tue braccia, e scopro particelle di verità, piccoli cristalli che stanno nel palmo di una mano e giustificano il mio passaggio in questo mondo. Il numero otto ha segnato date straordinariamente importanti della mia vita, mi piace pensare che questo sia stato un segno che non ho mai voluto cambiare. Da quando, in quella sala dalle porte chiare, una negligenza nel reparto di terapia intensiva ti ha provocato gravi danni irreversibili, le forze mi bastano soltanto per farti compagnia. Ti chiamo e ti chiamo, ma il tuo nome si perde nel vuoto di questo ospedale. Ho l'anima soffocata dalla sabbia, non so pregare, e tutto ciò che mi resta è immergermi nel delicato disegno della parole sull'intricato schema dei fogli tra le mani. Mi rigiro in queste pagine nel tentativo irrazionale di vincere il mio terrore, penso che se do forma a questa devastazione riuscirò ad aiutare me e soprattutto te. 
Sette anni fa scrissi una lettera, l'ultima, per salutare il mio paese da una morte senza via d'uscita. Oggi, otto novembre duemiladodici, scrivo, Faith, scrivo per riportarti alla vita. 




---Clara's corner --- 
Bhe'. Credo che questa sia (e sarà) la one shot più lunga che io abbia mai scritto e che scriverò per il resto dei miei giorni. Quindi, se sei arrivata/o fin qui hai avuto molto, molto coraggio e ti ringrazio davvero tanto, perché non è facile leggere fino alla fine senza essere attaccati dal diabete o farsi prendere dalla noia. Chi mi segue già da un po' si starà chiedendo "ma non ha ancora smesso di intasare il fandom con queste stronzate!?" EBBENE NO, AMICI, ANZI, CON VOSTRA IMMENSA  SFORTUNA FORTUNA, HO GIA' IN PORTO UNA NUOVA ONE SHOT! So che non dovrei anticiparvi niente, ma so anche che purtroppo questa qui nuova lascia molto a desiderare. Principalmente scrivo in stile romantico, (forse perché non riesco a scrivere altro, God) ma "Open your eyes" supera qualsiasi limite di melensaggine. Ergo, vi consolo con la promessa che nella prossima non ci sarà neanche una tenerezza/ dolcezza/diabeticume quindi potete anche stare tranquilli c:
Che altro dire? Questa one shot è ispirata a un brano di Isabel Allende che mi ha illuminata (?). Spero moltissimo che vi piaccia (ne dubito fortemente), perché ci ho messo parecchi mesi a scriverla (sono tarda *coff coff*) e Faith... Faith è il mio alter ego. Cerco sempre di mettere un po' di me in quello che scrivo, ma in questo caso, io sono lei senza eccezioni. Se vi va, lasciate qualche recensione e fatemi sapere che ne pensate, sono sempre ben accette anche le critiche costruttive :) Avevo in mente di fare un banner, ma sono tremendamente negata, quindi non so quanto presto arriverà :') 
Per ulteriori chiarimenti, potete anche seguirmi su twitter o visitare la mia vecchia one shot :) 

 
  
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