UN DETECTIVE IN UNIFORME
SCOLASTICA
Incontro
“Stevens?”
“Presente”
“Daniels?”
“Presente”
“Ci siete entrambi?”
“Sì, prof”
“Bene, non penso che manchi
nessuno allora. Iniziamo con l’argomento odierno: Freud”
I ragazzi tirarono fuori dalle
cartelle in pelle marrone i quaderni per gli appunti e si misero a scrivere.
Nessuno aveva davvero voglia di studiare filosofia psicologica, ma quella
sarebbe stata la loro ultima lezione prima delle vacanze pasquali e quindi la
professoressa aveva tutta l’intenzione di spiegare un carico maggiore di
argomenti.
A Fabio arrivò un foglio
scritto nella brutta calligrafia di sua sorella e lo lesse. “Noia! Emma non fa che prendere appunti e io non so cosa fare! Mi
dai un soggetto per un disegno?”
Il ragazzo si voltò verso di
lei, che gli sorrise e fece un occhiolino, e poi scosse la testa. Prese la
penna e rispose, lanciandole il pezzo di carta. “Potresti ascoltare la lezione, no? Comunque
penso che due ragazzi abbracciati al tramonto siano un meraviglioso soggetto”
Lei lo lesse e poi si
illuminò. Mimò con le labbra un “Grazie fratellone” e chinò la testa, mettendosi a disegnare.
Fabio sospirò e mise la testa
appoggiata sul palmo della mano. Quella lezione sarebbe stata infinita, già lo
sapeva. Con la professoressa Isaac era sempre così: si dilungava in spiegazioni
inutili su persone morte da decenni, spesso anche secoli, facendo parabole
enormi sulla loro vita da sfigati. Niente di più noioso della filosofia, non
aveva altro da dire.
In quel momento bussarono alla
porta di classe e lui alzò la testa speranzoso: magari dovevano evacuare per
colpa di un incendio.
“Avanti” rispose la
professoressa.
Il preside, un uomo sulla
sessantina con un viso rubicondo e un corpo che più che un essere umano lo
faceva somigliare a un cerchio, apparve sorridendo.
“Mi scusi, signorina Isaac, lo
so che interrompo la sua meravigliosa lezione su Freud, ma ho un annuncio da
fare, per quanto questo possa essere anormale” spiegò imbarazzato.
Tutti gli allievi si voltarono
verso di lui, incuriositi.
“Mi dica, signor preside”
acconsentì la donna. L’uomo si schiarì la voce e poi si spostò di un paio di
passi, lasciando intravedere il corridoio.
“Ecco, per colpa di alcuni
cavilli burocratici stamani questa deliziosa fanciulla è dovuta rimanere con me
in presidenza, perdendo le prime tre ore di lezione e arrivando tardi per
l’inizio della quarta, così l’ho accompagnata io. Si è trasferita qui una settimana
fa e ho già provveduto ad inserirla nel nuovo elenco del registro di classe.
Sono davvero desolato che abbia la possibilità di frequentare questa classe
solo per due giorni prima delle vacanze pasquali, ma comunque spero che la
farete sentire a suo agio” disse.
Una ragazza piccola e
imbarazzata entrò nella stanza tenendo gli occhi bassi e le mani giunte sulla
pancia, rivolte verso il basso. Aveva i capelli castano ramato che arrivavano
alle spalle e le lentiggini sparse su tutta la faccia. Fabio notò anche che era
molto formosa, ma quel che più lo incuriosiva era il colorito rosso che aveva
sulle guance.
“Piacere,
io mi chiamo… Rea, Rea Simon” si presentò semplicemente.
“Salve, signorina Simon, io
sono la professoressa Isaac. Puoi sederti qui alla cattedra, dato che non
avanza un banco per te” rispose l’insegnante, avanzando sorridente verso di
lei. Le indicò una sedia vuota vicino alla sua e la ragazza annuì senza dire
una parola per poi avvicinarsi e accomodarsi.
Il preside batté le mani
soddisfatto.
“Bene, direi che è tutto a posto.
Si diverta, signorina, e mi raccomando a voi altri: fatela sentire a suo agio”
si congedò l’uomo, uscendo di classe.
Ci fu un lieve brusio generale
tra gli allievi, subito soffocato dalla professoressa.
“Torniamo alla nostra lezione,
forza” li incitò, recuperando il libro a cui traeva spunto per le sue
spiegazioni.
Fabio continuò a guardare la
nuova arrivata: era carina, tutto sommato. Niente di particolarmente speciale,
ma carina. Sembrava completamente fuori posto per quella scuola e continuava a
tenere lo sguardo basso, evitando il contatto visivo con gli altri. Si
ripromise di parlarle una volta finita la giornata.
Rea prese le sue cose, tirando
un sospiro di sollievo: tutto bene, per adesso. Certo, non che avesse fatto
molto, però almeno era sopravvissuta, il che, per una come lei, era già una
conquista enorme.
Storse la bocca quando,
alzandosi dalla sedia, si rese conto che la gonna che portava era troppo corta
per nascondere le gambe storte e grassocce che si ritrovava. Odiava le divise
scolastiche, le aveva sempre odiate con tutta sé stessa, ma suo padre aveva
insistito tanto per farla andare lì che non aveva potuto rifiutare. Maledetto
dovere dettato dall’orgoglio!
“Ciao”
disse una voce accanto a lei. Alzò lo sguardo e si ritrovò due occhi profondi e
bellissimi piantati addosso.
“Ciao”
sussurrò in risposta. Nemmeno quel doversi fingere timida e remissiva le
piaceva.
“Io mi
chiamo Fabio Daniels, piacere” si presentò il
ragazzo, allungando una mano. La ragazza la strinse senza troppa convinzione e
tornò a prendere le sue cose.
“Rea
Simon” ricambiò.
Scese il silenzio mentre lei
finiva di fare la cartella, poi si mise in spalla la borsa e lo guardò.
“Dovrei
andare, mio padre mi aspetta” disse in un fil di voce.
“Ah,
sì scusami” rispose lui, spostandosi di lato. Con un lieve sorriso lei
lo sorpassò a testa bassa e corse fuori dalla classe, tirando un sospiro di
sollievo.
Non aveva mai saputo mentire,
recitare o fare qualsiasi cosa che si allontanasse troppo dalla realtà. Era
negata per queste cose e ciò la portava ad essere negata per quel lavoro.
Potevano dire ciò che volevano, nell’alto della loro idiozia, ma lei non era
quella adatta per quel compito.
“Stai
tranquilla, tesoro, che andrà tutto bene. Entri, prendi un paio di cartelle ed
esci. Filerà tutto liscio come l’olio e nel giro di un paio di settimane
torneremo nella vecchia casa. Certo, come no” sussurrò infuriata,
ricordando il discorso di suo padre un mese prima.
Costringerla a trasferirsi non
era stato un problema, era da quando era piccola che cambiava scuola e paese
ogni sei mesi per colpa del lavoro dell’uomo, il problema era stato solo
convincerla a collaborare. Tutto qui.
“Ah,
eccoti qua! Com’è andato il primo giorno di liceo?” la accolse suo
padre, dandole un bacio sulla testa.
“Direi
bene, se escludiamo che sono rimasta ferma nell’ufficio del preside per tre ore
e poi per le seguenti due mi sono sopportata una lezione interminabile su
Freud. Non sapevo che alle superiori si studiassero le cose in modo così
barboso” rispose, sedendosi scomposta sul sedile anteriore della
Mercedes nera che avevano da qualche settimana.
“Dai,
non è così male. Lo so che tu hai già dato la maturità con un anno di anticipo
e che non volevi rientrare a scuola, però consolati: non durerà molto”
le assicurò lui, mettendo in moto e partendo.
“Lo
hai detto anche per natale, papà, e ancora tutto questo non si è risolto. Odio
fare la ragazzina timida e impacciata” ammise controvoglia.
Lui rise e le accarezzò i
capelli.
“Sei
adorabile quando storci il naso con quell’espressione buffa in volto, lo sai?
Somigli moltissimo a tua madre alla tua età” le disse nostalgico.
Rea sospirò e guardò fuori dal
finestrino gli alberi che ricominciavano a fiorire.
“Già,
la mamma. È un po’ che non vado al cimitero, quasi, quasi più tardi ci faccio
un salto” decise.
“Vuoi
che ti accompagni? In ufficio hanno bisogno solo fino alle cinque, poi sono
libero” le propose l’uomo, mettendo la freccia a destra.
“No,
forse è meglio se vado da sola. Tu mi stai antipatico ultimamente” lo
prese in giro.
“Così
mi ferisci! Potrei morire senza il tuo amore!” ribatté lui ridendo.
“Simpatico,
sì. Piuttosto, spiegami una cosa: perché io non posso venire nel tuo ufficio
quando sono la persona più importante per il tuo progetto?” chiese lei,
togliendosi la cintura di sicurezza quando la Mercedes imboccò il vialetto di
casa.
“Il
capo pensa che non sia saggio farti vedere in giro. Sai com’è, se ti
collegassero a noi probabilmente andrebbe tutto a monte” le spiegò,
spegnendo il motore.
“Ha
un suo senso” ammise la ragazza. Fissò la casa azzurra che aveva davanti
e scese di macchina: ancora non la sentiva sua nonostante fossero passati tre
mesi da quando erano andati a stare lì. Di tutta la costruzione l’unica cosa
che aveva deciso era stata la tintura dell’esterno.
Recuperò la cartella e se la
mise in spalla, camminando verso l’ingresso.
“Odio
questa gonnella” esclamò infuriata.
“Non
puoi chiedere al preside se ti fa usare i pantaloni?” le domandò suo
padre, posando il giacchetto sulla poltrona in corridoio.
“Figuriamoci,
quello è uno di quei signori che vedresti bene a interpretare Babbo Natale
sulle confezioni di Coca-Cola, non andrebbe mai contro le regole. Vado a
cambiarmi, con permesso” annunciò, lanciando la borsa a terra e andando
al primo piano.
La sua stanza era piccola e
rosa, come quella di quando era piccola, ma non le dispiaceva: le ricordava
tutto sua madre e ciò la faceva sentire felice.
Cercò sulla sedia una paio di
pantaloni, trovandone un paio della tuta nera che utilizzava per far finta di
fare ginnastica quando suo padre era in casa. L’unico sforzo fisico che aveva
imparato a fare era stato alzarsi dal letto per scendere le scale e andare a
prendere da bere.
Se li infilò e subito si sentì
meglio: con le gambe capaci di muoversi come volevano decisamente era tutto più
comodo.
Stiracchiò le braccia e si
guardò intorno cercando le chiavi di macchina e odiandosi: non le metteva mai
due volte nello stesso posto e puntualmente le perdeva.
“Ah,
eccole qui” esclamò soddisfatta afferrando il portachiavi a forma di
maiale gigante.
“Papà,
io vado, ci vediamo per cena!” annunciò, correndo fuori. L’uomo la seguì
sulla veranda e la fissò.
“Guida
con calma, mi raccomando” le disse.
“Come
sempre, papà. Saluterò la mamma anche da parte tua, promesso” rispose,
lanciandogli un bacio con la mano.
Appena fu lontana dalla
visuale che si aveva della strada da casa, accostò in uno spiazzo sterrato e si
afflosciò con la testa sulle mani che aveva appoggiato sul volante dell’auto.
“La
mia testa, di nuovo” si lamentò impaurita. Frugò nella borsa in modo
febbrile e ne tirò fuori una scatola bianca, da cui prese una pillola rosa.
“Accidenti,
non pensavo che potesse capitare di nuovo” ammise, cercando di calmarsi.
Aspettò un paio di minuti
affinché la medicina avesse effetto, poi rimise in moto. Aveva proprio bisogno
di visitare sua madre.