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Autore: LilithJow    20/01/2013    2 recensioni
Il mio nome è Samantha Finnigan. Sono nata e cresciuta a Rossville, una cittadina con poco più di mille abitanti nell'Illinois, Stati Uniti.
Sto per compiere ottanta anni.
Ho vissuto una vita meravigliosa, ho avuto un marito affettuoso e tre fantastici bambini.
Ma non è di questo che sto per scrivere. Sono convinta che alla gente piacerebbe leggere di una grande storia d'amore, con un bel lieto fine, ma purtroppo io e i lieti fine non siamo mai andati d'accordo.
Ciò che state per leggere, perchè se adesso avete queste righe sotto gli occhi, presumo lo stiate per fare, non ne ha neanche l'ombra, o, per meglio dire, dipende dai punti di vista.
Voglio raccontarvi di un periodo particolare della mia vita, di molti anni fa, cinquantacinque per l'esattezza. Per me è come fosse ieri, forse perchè non ho mai dimenticato quello che successe. Impossibile farlo.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Avevo sempre adorato il freddo e il silenzio. Entrambi, erano sempre scaturiti da Daniel. Amavo ogni aspetto, ogni sfaccettatura e sfumatura di lui e il gelo della sua pelle e il suo solo fissarmi, senza proferire parola, faceva parte del suo modo di essere, che fosse l'introverso ragazzo di quindici anni, con gli occhi coperti da un velo grigio, o l'angelo sarcastico e protettivo con cui avevo avuto a che fare negli ultimi mesi.
Otto. Il mio angelo custode era rimasto con me per esattamente otto mesi. Fino ad allora, non ci avevo mai fatto caso. Non avevo badato troppo al tempo, sebbene avessi paura che esso trascorresse troppo velocemente.
In realtà, lo aveva fatto. Era trascorso e Daniel se ne era andato, anche se il mio bisogno di lui non era affatto cessato, anzi: la sua assenza, nei giorni che seguirono il suo addio, si fece ancora più pesante, più difficile da sopportare.
Come aveva potuto dirmi che sarei stata felice in quelle condizioni? Ero assolutamente a pezzi, distrutta, tanto da rifugiarmi sotto le coperte, senza nemmeno alzarmi per mangiare o fare altre cose. Era come se fossi morta anch'io, come se mi fossi dissolta al suo posto, perché, senza di lui, il mio universo era svanito.
Non avevo più contatti con la realtà. Uscendo, quasi sicuramente, sarei stata frastornata dai troppi rumori, dalle chiacchiere delle gente, dalla luce del sole e dall'aria pungente.
Era meglio, per me, stare in casa, tentare di dormire, anche se, ogni volta che chiudevo gli occhi, era come trovarmi in un buco nero, un luogo opprimente, dove a stento riuscivo a respirare, sommersa da mille domande, su Daniel, per prima cosa, ma anche su Evelyn, su Eric e su tutti gli angeli.

Anche quella mattina, ero sprofondata nel mio letto, avvolta nel piumone, con gli occhi socchiusi, cercando di non pensare, di lasciarmi andare lentamente.
Sarebbe passato tutto in silenzio, come i giorni precedenti, ma, quella volta, lo squillo del telefono di casa, che a me parve più una sirena nelle mie orecchie, mi distrasse da ogni cosa e mi fece sobbalzare. Avrei davvero evitato di rispondere; tuttavia, quel rumore era eccessivamente assordante per me e, pur di farlo smettere, fui costretta a rispondere. Mi alzai faticosamente in piedi e raggiunsi il telefono appoggiato sul comò della camera.

«Finnigan!» esclamò una voce che riconobbi immediatamente: era Josh, il mio capo alla redazione del giornale. Ma perché mi aveva chiamato? Non era uno di quelli che si scomodava più di tanto per i propri dipendenti, a tal punto da chiamarli a casa; e poi, io ero in aspettativa da più di un mese.
«Josh» replicai e sentire il suono della mia voce fu abbastanza strano. Mi bagnai le labbra con la lingua più volte, affinché il mio tono non fosse troppo flebile.
«Finnigan!» continuò lui «Dio, sono giorni che provo a chiamarti sul cellulare, ma è sempre staccato. Ti ho fatto mandare un sacco di e-mail e messaggi. Ma che fine hai fatto?».

«Sono in aspettativa, Josh. Ho lasciato la richiesta a Kelly, ha detto che non c'era nessun problema».

«Kelly? No, non mi ha detto nulla del genere. Ascolta, ho saputo quello che ti è successo. La morte di quel ragazzo ti ha davvero sconvolta, e so che una settimana è troppo poco per elaborare un lutto e...».

Spalancai gli occhi. «Una settimana?» balbettai.

«Sì, è passata una settimana dalla morte di quel ragazzo che frequentavi. Non che io sia pettegolo, ma in una città piccola come questa, notizie del genere circolano molto velocemente».

«Uhm, sì, ecco... Devo aver perso un po' la cognizione del tempo, io... Che giorno è oggi?».

«Venerdì 16 novembre».

A quel punto, fui del tutto sconvolta e sbiancai. Daniel era morto il 9 novembre, me lo ricordavo benissimo. Mi ricordavo dei tre giorni che seguirono, immersa nel dolore, la sua apparizione, poi, e tutti i momenti passati insieme successivamente, tristi o allegri.
Non potevano essere trascorsi solo sette giorni. Era improbabile, incomprensibile, almeno dal punto di vista umano. Che gli angeli avesse fatto tornare indietro il tempo? E perché farlo, lasciandomi impressi nella mente tutti gli attimi vissuti con colui che consideravo la mia anima gemella?

Forse era per questo che Daniel sorrideva, dicendomi addio.

«Scusa, Josh, devo... Fare una cosa. Ti richiamo io più tardi, okay?» sussurrai.

«Oh, no, non voglio che chiami. Presentati solo in redazione lunedì mattina. Ti aspetto, ci conto». E riagganciò.

Restai per qualche minuto a fissare la cornetta muta, quasi trattenendo il fiato, e sentii una lacrima scendermi lungo la guancia. Mi sembrò bruciare, a causa della lentezza con cui scivolo sulla mia pelle. La confusione tornò prepotente su di me.
Gli attimi passati con Daniel, come mio angelo custode, erano vivi e nitidi nella mia testa, ma, nella realtà, essi non erano di fatto accaduti. Se davvero il tempo era tornato indietro, allora Lucas ancora mi odiava e il senso di colpa era ancora opprimente.

Dovevo verificare tutto.

Non pensai molto al mio aspetto. Mi vestii rapidamente, indossando le prime cose che mi capitarono tra le mani, ovvero un paio di jeans blu e una maglia grigia, a maniche lunghe. Infilai un paio di scarpe da ginnastica e la mia giacca di pelle, per poi uscire di casa.
L'aria fredda e pungente di quel pomeriggio di tardo autunno, come avevo previsto, mi fece pizzicare il viso, ma la sensazione durò poco, forse offuscata dai miei dubbi. Salii in macchina e sgommai, verso casa Monroe, che raggiunsi a tempo di record, in soli dieci minuti.
Parcheggiai in malo modo davanti al vialetto della piccola villa, a luci tutte accese, anche in pieno giorno. Scesi dall'auto e camminai dritta, verso la porta, alla quale bussai e attesi, mordendomi il labbro inferiore, così forte, da rischiare di farlo sanguinare.

Lucas mi aprì dopo esattamente quaranta secondi. Il suo sguardo era esattamente come quello che, per me, era di mesi fa: triste, spento, grigio, ancora in collera con me e con se stesso.

«Che ci fai qui?» disse, con voce roca. Mi sorpresi del fatto che non mi avesse chiuso la porta in faccia: del resto, era già successo.

«Volevo vederti» replicai, stringendomi nelle spalle. «Come... Come stai?».

«Me lo stai davvero chiedendo?».

Sospirai. Per mia fortuna, mi parve meno distaccato e rabbioso, rispetto alle altre volte. «Ovviamente non stai bene» sussurrai. «Ascolta, io... Daniel è morto tra le mie braccia e stava sussurrando “Silent lucidity”. E' quella canzone che vi cantava vostra madre, come ninna nanna, per non farvi avere paura. E lui non ne aveva, perché io lo stavo stringendo a me. Adesso ti senti in colpa, per non essergli stato vicino in un momento del genere, ma io c'ero e Daniel era felice. E' felice ora, ovunque lui sia. Non aveva paura, perché stava cantando e non provava dolore, a causa dell'amore con cui tu sempre lo hai avvolto e con il quale ho provato anche io a farlo. E' stato lenitivo. Non avresti potuto fare niente per evitare tutto questo. E' stata opera del destino, e il destino è quasi sempre crudele. Vivi in pace, Lucas, meriti di essere felice anche tu».
Trattenni il respiro per tutto il tempo che parlai e, non appena finii, indietreggiai subito, temendo la sua reazione, qualunque essa fosse stata. In un primo momento, lui non replicò. Solo quando mi ritrovai a metà del vialetto, sentii la sua voce chiamarmi: «Sam?».
Mi girai, socchiudendo gli occhi.

«Grazie» mormorò Lucas. «Non c'è di che» replicai, abbozzando un sorriso e tornai in auto, il più veloce possibile.

Dire quelle cose a Lucas mi tolse un peso dal petto, e non se capii il motivo. Ma sapevo bene di avergli detto la verità. Daniel aveva affermato di non avere paura, a causa mia. Sorrisi, al pensiero, mentre guidavo verso il cimitero di Rossville. Abbandonai l'auto nel grande parcheggio deserto del posto e mi incamminai tra le lapidi spoglie, fino alla cappella della famiglia Monroe. L'odore dei pini, mossi dal vento, era più forte del solito.

Mi fermai, totalmente immobile, di fronte alla sua lapide, a fissare quella foto sorridente, quell'espressione che, molto presumibilmente, non avrei più rivisto. «Ciao, amore mio» sussurrai, sfiorando con i polpastrelli i bordi della cornice dorata. Stranamente, nessuna lacrima mi scivolò sul viso. Forse, le avevo solamente esaurite. Appoggiai la fronte sul marmo gelido e chiusi gli occhi. Il silenzio, lì dentro, era ancora più surreale di quello di casa mia e fu facile interromperlo.
Udii un frastuono, proprio fuori alla cappella. Sulle prima, non mi passò nemmeno per la testa di andare a controllare cosa fosse successo, ma poi, la voce di qualcuno, di un ragazzo, mi spinse ad uscire dalla cappelle e andare a vedere.
Proprio lì fuori, quindi, vidi un biondo, che cercava di raccattare i vasi di pittura che aveva fatto cadere, urtando un grosso carrello, di lavori in corso, per nuove lapidi, forse. La scena mi fece quasi ridere, anche perché non riusciva a trovare un modo per riparare il danno.

«Serve una mano?» esclamai, cercando di non scoppiare. Solo allora lui alzò gli occhi e... Erano azzurri, di ghiaccio, penetranti, esattamente come quelli di Daniel. E non era l'unica cosa a richiamare la sua figura: quel ragazzo sembrava davvero lui, anche dalle espressioni che fece dicendomi che accettava il mio aiuto, dal modo in cui mi sorrise e da quello col quale si sistemò i capelli.

Tutto ciò riuscì a bloccarmi, mentre sentivo la voglia di piangere tornare prepotentemente in me. Lui, a quanto parve, se ne accorse, e lasciò perdere il proprio disastro – al quale, comunque, non avrebbe mai potuto porre rimedio.

«Tutto okay?» mi chiese, muovendo un passo verso di me.

«Sì» replicai, distratta e scuotendo appena la testa. «Sì, è solo che...» interruppi la frase, mordendomi appena il labbro inferiore.

«Solo che...?».

«Niente, è che... Mi ricordi una persona che ho... Che ho perso».

«Oh, mi... Mi dispiace. Anche io ho perso qualcuno, di recente, perciò... Ti capisco».

Ovviamente non poteva capirmi per davvero, ma apprezzai lo sforzo.

Abbassai lo sguardo, sentii il respiro mancarmi, per qualche istante. «Io sono Christopher Robbins comunque» disse il ragazzo, costringendomi a guardarlo nuovamente negli occhi. «Chris, per gli amici e per chi vuole risparmiare tempo» Sorrisi appena, con un briciolo di entusiasmo che non sapevo di avere ancora. «Samantha Finnigan» replicai, stringendo la mano che mi aveva teso, fredda, come quella di Daniel. «Sam, se anche tu vuoi risparmiare tempo».

«Sam mi piace parecchio».

«Già. Anche Chris non è male».

Alzò un sopracciglio, abbozzando un sorriso. Pregai che smettesse di comportarsi così, per la mia sanità mentale. «Era molto importante la persona che hai perso, Sam?».

Annuii. «Più che importante».

«Te lo si legge negli occhi: sono spenti, ma... Credo che tu possa trovare un modo per riaccenderli».

«Ne dubito, Chris, ma ci proverò».

Lui mi sorrise ancora e io rischiai di impazzire. La mancanza di Daniel era così forte da farmelo individuare in perfetti sconosciuti? Lo credetti. Credetti che fosse così, che fosse tutto frutto del mio inconscio, una parte troppo protettiva da crearmi false illusioni per attutire il dolore. Lo credetti fino in fondo, fin quando Chris non ci congedò dicendo: «Ho l'impressione che tu sia splendente, Samatha Finnigan. Spero di riuscire a vederti brillare».

Le parole di Daniel: dette in modo diverso, parafrasate, ma con lo stesso identico senso. Il cuore mi batté all'impazzata.

Lo vidi allontanarsi piano, dandomi il tempo di analizzare ancora, a fondo, i suoi lineamenti, i suoi gesti, il suono della sua risata.

Ebbi la fortuna di rincontrare Chris tre giorni dopo, alla tavola calda di fronte al mio ufficio, e non la considerai una coincidenza, come non lo era il fatto che avesse usato le stesse parole del mio angelo.
Uscii con lui, per un vero e proprio appuntamento e riuscì a farmi ricominciare a ridere e, per citarlo, a farmi splendere.


Christophen Robbins mi chiese di sposarlo dopo quattro anni di felice fidanzamento. In lui, rivedevo Daniel in tutto e per tutto, e quella frase, quel giorno, al cimitero, non fece altro che montare sicurezze nella mia testa, del fatto che lui, che Daniel, fosse in qualche modo dentro di Chris, che la sua anima ci fosse, insieme al suo amore.

Con Chris non ne parlai mai, non gli chiesi mai nulla a riguardo, anche perché, ammesso e concesso che avessi ragione e Daniel fosse con me sotto un altro aspetto, non mi avrebbe mai rivelato nulla. Se ne sarebbe uscito con il suo ritornello del “non posso dirtelo”, ma a me stava bene così.


Sono sempre stata convinta che per ognuno di noi esista un'anima gemella. Una ed una sola.
Daniel Monroe era la mia e, in qualche strano modo, con trucchetti angelici, ho avuto la possibilità di vivere quella vita felice che lui mi aveva promesso, con Chris, che lo rispecchiava tanto.

 

Lo so, forse vi ho ingannato, dicendovi che questa storia non avrebbe avuto un lieto fine, ma ho anche aggiunto che sarebbe dipeso dai punti di vista.
Non sono riuscita a vivere una vita felice con Daniel, ma l'ho fatto con Chris, e molti possono non credere al fatto che dentro quest'ultimo ci sia sempre stato il primo. Ma io ne sono sicura, lo sono sempre stata, sebbene solo io ne sia a conoscenza, e ne abbia la conferma ogni volta che mio marito, anche ora, come in questo momento, mi guarda e mi sorride, facendomi splendere.

  
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