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Autore: Princess of the Rose    20/01/2013    4 recensioni
Se dovessi immaginare gli occhi del diavolo, probabilmente sarebbero belli, folli e tristi come i suoi. E’ migliore di me perfino nel sembrare un demonio.
Seconda classificata al contest "A che gusto vuoi il gelato" indetto da Sofia_EFP e giudicato da HopeGiugy
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: 2p!Hetalia, Nord Italia/Feliciano Vargas
Note: What if? | Avvertimenti: Violenza
- Questa storia fa parte della serie 'Through the Looking-Glass and what Hetalians found there'
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Titolo: Demon’s world
Autore: Princess of the Rose
Gusto scelto: Stracciatella – “Tu pensi che io sia un demonio, ma credimi, è solo perché sono vissuto all’inferno e voglio uscirne.
Genere: Malinconico, Tragedia.
Avvertimenti: Un po’ di gore; What if/Semi-AU; forse OOC
Introduzione: Se dovessi immaginare gli occhi del diavolo, probabilmente sarebbero belli, folli e tristi come i suoi. E’ migliore di me perfino nel sembrare un demonio.
Note vecchie: Un parto. La fic è stata un parto perché si è accavallata con altre tre fic, due delle quali dovevo aggiornare entro la fine del mese, ma che alla fine verranno rimandare a Novembre.
La frase che mi è stata data mi ha subito affascinato, e non ho potuto non utilizzare Feliciano Vargas e la sua controparte Marco (per come lo concepisco io, almeno).
Innanzitutto, Marco è quello che nell’ambiente è chiamato “2p!italia”, ossia la versione alternativa di Feliciano. Nacque tutto quando Himaruya, l’autore (parto dal presupposto che tu non conosca la serie) disegnò questa versione alternativa di alcuni personaggi, chiamandoli “2p”, abbreviazione di “second player”. Non si è mai capito cosa dovesse farci con questi design alternativi, tuttavia, alcuni fan hanno supposto che fossero le loro versioni malvage o, comunque, con un carattere totalmente diverso. Tutto quello che leggerai del carattere di Marco è stato partorito dalla mia testolina malata.
Inoltre, tutti i personaggi sono le reincarnazioni delle nazioni. Per maggiori informazioni, ti consiglio di vedere wikipedia, che sicuramente è più esaustiva di me.
La spiegazione è alla fine della fic, perché si può comprendere solo dopo aver letto la shot – inoltre, non voglio anticipare nulla >_< 
Note nuove: la fic partecipa ad un contest che, tra alti e bassissimi, sembra che si sia finalmente avvicinando alla sua fine. Ho cambiato molte cose, e ammetto che la fic mi sembra meno bella di quando la buttai giù la prima volta, ma spero comunque che non sia uno schifo.
Ero indecisa se metterla come parte della raccolta "Giorni di ordinaria follia", didecata a 2p!Hetalia o metterla come fic a sé stante: alla fine, ho deciso per quest’ultima opzione, in quanto la raccolta è incentrata esclusivamente sui 2p.
Ah, e per chi l'avesse letta e se lo stesse chiedendo, si: è il prequel di "Comprensione della follia", altra fic sui 2p. Non è necessario leggerla per comprendere questa fic.
Non ho altro da aggiungere rispetto alle note iniziali.
 
Buona lettura, e spero che vi piaccia!
 
Enjoy!
 
PS: la prima parte è al passato perché si tratta di un ricordo, mentre il resto è al presente perché quella è la storia vera e propria. A  causa dei pensieri di Feliciano, non ho potuto usare il corsivo nella prima parte, quindi è il caso che lo precisi.
 
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Feliciano non era mai stato un cuor di leone. Anzi, nel suo personalissimo vocabolario, la parola ‘coraggio’ non era nemmeno annoverata.
Non era un’esagerazione dire che quasi tutte le cose lo spaventavano, dal soldato nemico che gli puntava contro un fucile al ragno salito sulla sua gamba mentre si prendeva cura del giardino, e in genere le sue reazioni andavano da una violenta quanto patetica crisi di pianto a urla isteriche in grado di svegliare mezza Europa.
 
Eppure…
 
Se cercava nel suo passato, gli era impossibile comprendere quale evento lo avesse segnato al punto da creare in lui una tale paura, per molti versi ingiustificata, verso tutto e tutti – perché  sarebbe troppo semplicistico racchiudere tutti i suoi comportamenti nell’espressione di “fifone”: anche i fifoni hanno un loro limite.
Forse era la sua storia, così piena di guerre e violenza; forse era stata la separazione traumatica delle due persone più importanti della sua vita – suo nonno e il suo primo amore; forse era semplicemente molto pauroso e il suo era un tentativo patetico di giustificare il suo comportamento.
 
Eppure
 
C’erano stati dei momenti in cui aveva avuto il coraggio di prendere in mano le armi e ribellarsi ai soprusi che aveva dovuto subire, ma erano stati eventi rari, che si potevano contare sulle dita di una mano.
Sadiq, quando lo incontrava, amava ricordare, tra l’imbarazzato e una certa nota di rispetto, le volte in cui aveva tentato di invadere il Vecchio Continente, e di come Feliciano, ancora fanciullo, fosse riuscito a contrastarlo, estinguendo i suoi sogni di gloria nel territorio europeo.
Roderich, anche se non l’avrebbe mai detto apertamente, lo stimava per la sua determinazione nell’aver voluto la sua indipendenza, tanti anni prima.
Sapeva che, ogni tanto, anche lui era in grado di farsi valere. Ma, molto più spesso, era la paura a fare da padrone alla sua mente, un istinto che metteva al primo posto sopravvivenza e autoconservazione rispetto a tutto il resto.
 
Io… Io non…
 
In lui, la paura si era sempre mostrata in atteggiamenti isterici, spesso patetici.
In quel momento, però, non riusciva a piangere, o a gridare aiuto con voce quasi spezzata, o a prendere la sua bandierina bianca e sventolarla con tutta la forza che aveva; non poteva correre via, nonostante addosso non avesse alcuna restrizione che glielo impedisse; non riusciva ad alzarsi, perché aveva sentito tutte le sue forze evaporare in un battito di ciglia.
In quel momento, non riusciva a capire nemmeno come riuscisse a respirare, o come il suo corpo riuscisse a tremare, dove trovasse la forza per scuotersi.
 
P-Perché…?
 
Questo terrore era il più subdolo che avesse mai provato: si era insinuato con la forza e la velocità di un proiettile in tutto il suo corpo, ma al contrario delle altre volte, non stava scomparendo con la stessa modalità in cui era arrivato. La paura congelava tutti i suoi muscoli, mentre dei lievi capogiri minavano la sua lucidità.
 
L-Lui…
 
La stessa cosa, tuttavia, non si poteva dire di quel ragazzo dai capelli rossi come il sangue che stava ad una decina di metri davanti a lui.
Avevano, loro due, la stessa fisionomia del volto e del corpo, gli stessi occhi da cerbiatto, le stesse mani affusolate, d’artista; ma i loro colori erano assai differenti: Feliciano aveva occhi color dell’ambra, sempre allegri e dolci, con dei riflessi mielati, i capelli castano-rossicci, la pelle chiara e un bel sorriso perenne sul volto.
Marco no. Marco aveva gli occhi violetti, con dei riflessi rosati, i capelli di un rosso intenso, la pelle sembrava abbronzata e sulle sue labbra era sempre disegnato un ghigno quasi di sfida.
Quando lo aveva conosciuto, la prima volta, Feliciano aveva provato inquietudine, più che paura: oltre allo shock del vedere una persona fisicamente identica a sé, non aveva potuto non notare come lo sguardo fosse fondamentalmente vuoto, come i suoi occhi non sorridessero come le sue labbra.
Poi lo aveva frequentato, un po’ per motivi lavorativi – il suo boss voleva che, almeno con l’Italia dell’altra dimensione, ci fossero buoni rapporti – un po’ per curiosità: aveva scoperto che entrambi amavano dipingere, cantare le canzoni paesane, cucinare e mangiare la pasta, specie se in buona compagnia; aveva scoperto anche le loro differenza – ad esempio, a lui piaceva rappresentare paesaggi naturali, a Marco gli interni delle stanze – ma, ai suoi occhi, erano apparse poco importanti, quasi superflue, rispetto all’insieme della persona.
Nella sua bizzarria, era stato inevitabile: Feliciano era rimasto affascinato dal suo alter ego. Ma si poteva poi definire alter ego una persona che ti assomigliava solo fisicamente?
 
Lui è…
 
Marco, infondo, era molto diverso da lui:  calmo, gentile, sorridente, ma sempre in qualche modo distante, come se avesse segnato una linea insperabile tra lui e il suo interlocutore; non parlava moltissimo, ma alle riunioni diceva sempre la sua senza risultare un idiota, e ogni suo gesto sembrava sempre velato da una certa grazia – almeno agli occhi di Feliciano, che, spesso, si ritrovava ad osservare attentamente la sua controparte, cercando di cogliere ogni minimo particolare.
Poi, era una persona arguta, molto furba e altamente rispettata – temuta, forse – dalle nazione della sua dimensione, tre cose a cui Feliciano non poteva nemmeno aspirare, goffo e fifone com’era.
Da qualunque lato lo si vedesse, Marco era completamente diverso da lui.
Certamente era migliore di lui: il fratellino che Romano avrebbe voluto, l’alleato che Germania e Giappone avrebbero voluto, l’interlocutore che tutti avrebbero voluto. L’Italia che tutti avrebbero voluto.
 
Lui è… E’ un…
 
Marco sembrava perfetto, e questo, Feliciano, non lo sopportava. Ma non lo dava a vedere; infondo, bastava un sorriso un po’ beota per poter nascondere qualunque pensiero.
Bastava sorridere mentre Marco discuteva con Ludwig di politica e di economia; bastava sorridere quando Marco e Kiku passeggiavano per le strade di Tokio commentando la bellezza dei quartieri antichi; bastava sorridere mentre guardava suo fratello e altre nazioni sorridere sentendo ad una battuta di Marco; bastava sorridere mentre la presenza della sua controparte diventava sempre più opprimente, quasi ossessiva.
Era bastato sorridere anche quando era iniziata un’altra guerra, e Marco aveva accettato di dargli manforte.
E Marco si era dimostrato anche un ottimo combattente, più bravo di lui anche in quel campo – non che fosse poi così difficile superarlo, del resto.
Marco era tutto quello che gli altri avrebbero voluto da lui.
 
Ma lui è… Lui è un…
 
Chissà se l’avrebbero voluto anche adesso, coperto di sangue e con decine di cadaveri attorno a lui.
 
Lui è un demonio!
 
Non ricordava precisamente come fossero entrate quelle persone, né come fosse finito nella stanza.
No, quello se lo ricordava: Germania gli aveva detto di rimanere lì dentro fino alla fine della battaglia che si stava svolgendo fuori dall’edificio, e che Marco sarebbe rimasto con lui per proteggerlo. Poi c’era stata un’esplosione, e tutti quei soldati erano entrati e… E poi Marco lo aveva spinto contro il muro, urlandogli qualcosa… E poi tutto era diventato rosso come il sangue.
Aveva chiuso gli occhi: quando gli aveva riaperti, aveva visto la scena che ora aveva davanti: il suo alter ego coperto di sangue e circondato da tanti soldati morti.
Nonostante la fatica, Marco non sembrava per nulla stanco; rimaneva fermo in mezzo alla stanza, lo sguardo basso e un coltello zuppo si sangue rapresso tenuto stretto tra le dita affusolate – le stesse dita che riuscivano a tenere in mano pennelli per creare meravigliosi quadri potevano davvero essere così distruttive? Sembrava impossibile, eppure…
Feliciano deglutì con fatica, per poi notare con la cosa dell’occhio un soldato che, ormai in fin di vita, aveva teso la mano verso di lui. Nell’oscurità della notte gli era impossibile vedere il volto con precisione, e quel poco che la luna riusciva ad illuminare lo rendeva tremendamente grottesco: le cavità degli occhi sembravano vuote, e la bocca era aperta in maniera innaturale; la mano tesa verso di lui, in una muta richiesta di aiuto, mancava di un dito, ed era piena di ferite ancora grondavano sangue.
L’italiano cercò di indietreggiare da quel soldato, ricordandosi poi si essere con le spalle al muro.
L’uomo continuava a fissarlo, cercando di mormorare una richiesta di aiuto, e a fatica si stava trascinando verso di lui. Feliciano scosse violentemente la testa, inorridito; non voleva essere toccato da quelle mani sanguinolente.
All’improvviso, il soldato venne preso da una violenta convulsione, per poi cadere a terra, definitivamente morto.  Un coltello rosso di sangue fino al manico sbucava dalla schiena.
<< Feli? >> quand’era che Marco si era avvicinato a lui? << Stai bene? >>
Feliciano non rispose; sbatté le palpebre un paio di volte, instupidito da quanto era appena accaduto. Cercò di parlare, ma le parole gli morivano sulla punta della lingua.
Marco lo scosse con forza, chiamandolo per nome. << Andiamo, Feli. Rischiamo di essere nuovamente sorpresi da un attacco se rimaniamo qui! >>
Niente. La mente di Feliciano non prestava la minima attenzione ne a lui ne ad altro, se non ai cadaveri e al sangue sparsi sul pavimento.
Marco imprecò sottovoce, per poi sollevarlo di peso e passare il suo braccio sopra le spalle, iniziando a trascinarlo verso l’uscita. Feliciano si ridestò di colpo dai suoi pensieri: si allontanò velocemente dal suo alter ego, spintonandolo ed indietreggiando fino ad inciampare sul corpo di uno dei soldati, cadendo rovinosamente a terra e sporcandosi di sangue.
<< F-Feli? >>
<< N-Non toccarmi! >> disse con fil di voce l’italiano, prendendosi la testa tra le mani, imbrattandola con il liquido vermiglio. << Ti prego, non toccarmi! >>
 
Non toccarmi con quelle mani assassine! Non toccarmi!
 
Marco lo guardò sorpreso per qualche istante, per poi sbuffare sonoramente. << Non fare i capricci Feliciano! Dobbiamo andarcene subito, capisci!? >> disse, per poi afferrare il braccio dell’altro e trascinarlo fino alla porta. << Potrebbero tornare, non è sicuro rimanere qui! Gli altri ci staranno aspettando fuori. >>
Feliciano deglutì, lasciandosi trasportare per i corridoio, appesantito dal terrore di finire come quel soldato.
<< M-Marco. >>
<< Dimmi. >>
<< T-Tu,q-quei soldati… >>
<< Si? >>
 
Perché li hai uccisi in quel modo? Perché li hai massacrati? Quei soldati che avevano probabilmente una famiglia che li aspettava a casa sono morti in maniera così orrenda! Perché infierire così!? Perché hai ucciso quel soldato? Stava morendo, non lo vedevi? Era necessario usarlo come bersaglio per i tuoi coltelli?
 
<< L-Li hai uccisi tu? >>
<< E chi se no? Tu ti eri rannicchiato al muro, dovevo difenderti, no? >>
Feliciano non replicò. Lui non si era rannicchiato, era stato Marco a spingerlo contro il muro.
<< Perché? >>
<< Uh? >> Marco si fermò, osservando l’altra nazione con perplessità.
<< Perché mi hai difeso? >> chiese l’italiano, fissando la sua controparte negli occhi, << Perché, non capisco. T-Tu… non hai nulla a che vedere con me, no? >>
<< Feli? >>
<< Ve… hai ucciso tutte quelle persone a sangue freddo. >> Feliciano si abbracciò, tentando di calmare il tremore che aveva iniziato a scuoterlo. << io non potrei mai farlo. Tutte quel sangue, tutti quei morti. Chissà quanti di quei soldato avevano qualcuno che gli aspettava casa, e che non li vedranno più. Tu non sembri pensarci, però- >>
 
Però lo hai fatto! Hai ammazzato gente che non poteva uccidermi! Io ero al sicuro! Perché ucciderli?
 
<< Feli, >> Marco sembrava quasi esasperato. << Ti sembra il momento e il luogo per parlare di queste cose? >>
<< I-Io- >>
Marco sospirò pesantemente, per poi riprenderlo per mano e ricominciare a camminare verso l’uscita dell’edificio. << Ne parleremo dopo, Feli. Adesso è meglio uscire di qui. Non credo di poterli affrontare tutti da solo. >>
Feliciano non poté fare altro che annuire mestamente, incapace di controllare il tremore che continuava a scuoterlo.
 
Mi fanno paura gli occhi di Marco. Perché sembrano sempre così vuoti?!
 


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Quella sera si respira un’aria strana.
C’è pace: l’Unione Europea, grazie agli aiuti delle loro controparti, è riuscita a respingere le truppe americane e russe dai loro territori, riducendo le perdite umane e materiali al minimo; nel locale, si festeggia ampliamente quella vittoria temporanea.
C’è tensione: nonostante l’aiuto delle loro controparti sia fondamentale, sono pochi quelli che li sopportano, molti quelli che li disprezzano, quasi a considerarli inferiori; nel locale, i vari paesi rimangono con i loro connazionali, e interagiscono il minimo indispensabile tra loro – qualche brindisi, un augurio, e simili.
 
Feliciano è uscito dal locale, e si gode la serata buia. Il cielo è pieno di stelle, limpide in una notte priva di luna; riesce perfino a distinguere la chiara scia della via Lattea, che attraversa il firmamento con la sua linea sinuosa.
 
Chissà se il nonno mi sta guardando da lassù? Che penserà di me, adesso che ho accettato di partecipare ad un’altra guerra?
 
E’ stanco. Molto stanco.
Come al solito, lo hanno costretto in una guerra non voluta, ad prendere in mano le armi e a puntarle contro coloro che aveva considerato amici fino a qualche mese prima, e ad essere a sua volta un bersaglio per loro.
Perché? Perché è scoppiata quella maledetta guerra? Possibile che nessuno capisca che l’umanità non potrà sopravvivere ad un conflitto nucleare? E’ vero, sia America che Russia hanno promesso che non avrebbero usato le loro testate, ma questo cambiava poco le cose; c’erano tutte le armi batteriologiche, di distruzione di massa, e tanti altri tipi, che potevano sostituirle.
Non potevano essere solo i soldi il motivo! Nessuno poteva spingersi a tanto per denaro! Possibile che nessuno avesse un minimo di coscienza? Che nessuno intuisse che miliardi di vite sarebbero andare distrutte? Neanche la logica del guadagno poteva reggere davanti ad un tale massacro – perché c’erano pochi dubbi: quella guerra sarebbe stata un strage inimmaginabile, avrebbe annientato tutto e tutti. Sarebbero diventati come il mondo delle loro controparti?
Feliciano lo ha visitato una volta sola, e tanto gli è bastato per decidere di non metterci più piede per il resto dei suoi giorni: vedere le sue Alpi sfigurate dalle bombe, la sua Venezia affondata tra le acque tossiche di quello che un tempo doveva essere il mar Adriatico, i suoi prati devastati, le sue amate città  – Firenze, Verona, Milano, Torino, perfino Roma – quasi del tutto rase al suolo e ingrigite dal fumo, tutto questo lo aveva fatto quasi vomitare.
Era stato terribile. Eppure, nonostante tutto questo, nonostante quelle immagini fossero state mostrate nel loro mondo come dimostrazioni di quanto avrebbe portato un’eventuale guerra nucleare, il conflitto era iniziato.
 
Feliciano appoggia i gomiti al balcone e nasconde il volto tra le mani. Non vuole morire. Non vuole che Lovino muoia. Non vuole che i suoi amici muoiano. Non vuole che muoia nessuno. Lui vorrebbe che si potesse andare a mangiare tutto insieme, bere buon vino e scherzare, non che ci si punti dei fucili.
 
Perché? Perché tutto questo?! Se morisse qualcuno importante per me, io-
 
<< Io ho visto l’inferno. >>
Feliciano sobbalza violentemente, per poi voltarsi di scatto. Non ha sentito Marco arrivare: la sua controparte è rosso in volto, forse per l’ubriachezza, e respira un po’ a fatica. Gli occhi violetti sono leggermente appannati.
<< Hai visto come è ridotto il nostro mondo. E’ completamente raso al suolo. Non puoi chiamare vita quella che noi viviamo. >> dice l’italiano, avvicinandosi al suo alter ego e fissando il nero orizzonte.
<< V-Ve, >> Feliciano non sa che dire. Forse non dovrebbe dire nulla, ma quando vede la malinconia in quegli occhi così simili hai suoi, non può non provare a consolarlo, << non siete così male. >>
<< Sei un pessimo mentitore, >> mormora Marco, sorridendogli senza allegria. << il nostro mondo è peggio dell’inferno. Lo so, non posso e non voglio rinnegare la realtà dei fatti. >>
Feliciano abbassa lo sguardo, affranto.
 
Perfino in questo, nell’accettare le sue condizioni, Marco è più bravo di me.
 
<< Sai, quando ho visitato il vostro mondo per la prima volta, non ho potuto non essere colpito dalla nostalgia, >> Marco ridacchia leggermente, alzando gli occhi al cielo, << è stato strano, poter rivedere tutto questo verde, le montagne non affossate dai bombardamenti, le costruzioni dell’antichità ancora in piedi. Vorrei poterlo avere io un mondo così, con ancora i campi rigogliosi di fiori e piante, e la neve che non brucia quando la tocchi, o potermi far un bagno senza rischiare di ammalarmi. Ti invidio, tanto. >>
Feliciano non può fare a meno di sentirsi un po’ preso in giro.
 
Io non sono speciale. Tu lo sei, non io: io sono solo il buffo, codardo, inutile Italia Veneziano.
 
Marco continua a parlare.
<< Voi potete mangiare i frutti della terra senza rischiare di venire infettati da qualcosa, potete passeggiare e respirare aria pulita, non nuvole radioattive o chissà che altro. Il vostro mondo, rispetto al nostro, è così pulito e puro. >>
Cala il silenzio, e Feliciano ha l’improvviso istinto, quasi ingiustificato, di scappare. Ricorda ancora con chiarezza quanto ha visto in quell’edificio che aveva fatto da ambasciata italiana a Berlino, del sangue che aveva costellato le pareti e in parte anche lui, e non vuole rimanere un minuto di più vicino al suo alter ego; ma questi, forse intuendo i suoi pensieri, lo afferra per le spalle prima che possa muoversi e lo volta verso di sé, fissando i suoi occhi violetti nei suoi ambrati.
<< Tu pensi che io sia un demonio, vero? >> chiede Marco, avvicinando i loro volti.
<< V-Ve, i-io non- >>
<< Lo so che lo pensi. Ieri, quando ho eliminato quei soldati, avevi nei tuoi occhi il loro stesso terrore. Ti ho fatto paura. Avanti dillo, non mi offendo mica. >>
Feliciano ha paura. Molta paura. La stretta sulle sue spalle non è forte, non gli fa male, ma il suo corpo non riesce a muoversi. E’ la stessa, subdola angoscia che lo aveva inchiodato addosso al muro di quella stanza, quando aveva assistito impotente al massacro perpetrato da Marco , che si ramifica nel suo corpo, rendendolo inerme più del solito.
<< Sono capace di uccidere, Feliciano. Lo hai visto tu stesso. Sono un eccellente assassino, il demonio perfetto. Me lo hanno detto in tanti, sai? Da me lo pensano tutti, chi più chi meno. Pensano tutti che io sia una sorta di demonio, che non so fare altro che combattere, uccidere. Non so perché lo pensino, sai? Fatto sta che tutti mi credono la reincarnazione del diavolo più che di una nazione. Perfino mio fratello lo pensa. >>
Le labbra di Marco si deformano in un sorriso, i suoi occhi diventano sempre più distanti, e quel poco di luce che usce dal locale ha smesso di riflettersi nelle sue iridi violette.
<< Marco, io- >> prova a dire Feliciano, ma ogni sua parola muore sulla punta della lingua quando il suo alter ego avvicina ancora di più i loro volti.
<< Sono un demonio che vive all’inferno, Feliciano. Però, io voglio uscirne. Io voglio uscire da quell’inferno di mondo. >> sussurra l’italiano, poggiando la fronte bollente contro quella dell’altro e mantenendo il contatto visivo. << Sono vissuto per più di mille anni nel mio mondo, adesso me ne voglio andare. >>
Malato. Era l’unica parola che potesse esprimere l’espressione di Marco in quel momento: quella di un malato, febbricitante, esausto. E la paura di Feliciano cresce.
 
Perché mi sta dicendo tutto questo? Sembra quasi arrabbiato con me.
 
<< In confronto al nostro, il vostro mondo è un paradiso. Avete tutto quello che potete desiderate. Hai tutto quello che puoi desiderare. E tu… E voi… >> un tremore incontrollato inizia a scuotere il corpo di Marco, mentre la stretta sulle spalle della sua controparte si fa più intensa. << Voi volete distruggere tutto questo. Perché, dimmi? Il vostro mondo è destinato a diventare come il nostro, non capite? Perché avete fatto questa guerra, uhm? La Terra non si rigenererà all’infinito! Non potete distruggerla! Non potete! >>
<< I-Io- >> Feliciano non sa che dire: da un lato, è completamente immobilizzato dalla paura; dall’altro, quelle parole lo hanno veramente colpito, perché veritiere, perché rispecchiano esattamente il suo pensiero.
 
Forse io e lui siamo meno differenti di come pensavo. Questo, però, non mi rallegra per niente.
 
Gli occhi di Marco diventano più lucidi, mentre piccole lacrime pendono ansiose dalle ciglia inferiori.
<< L-lasciami, per favore, mi fai male- >>
<< Ci tenete davvero a diventare un inferno, eh? Ad uccidere i vostri stessi connazionali? A radere al suolo intere città? Come potete?! Perché vuoi fare i miei stessi errori?! Perché?! >>
Il discorso di Marco è sempre più sconnesso, il suo significato quasi del tutto perso, mentre si accavallano << Perché?! >> su << Perché?! >>. E’ il discorso di un folle febbricitante, in piena crisi isterica.
 
E io non sono mai stato bravo a trattare coi matti.
 
<< Non voglio che distruggiate questo mondo! Non potete! Non voglio!!! >>
Feliciano deglutisce, le spalle gli fanno male, e le ginocchia gli tremano. Si accorge che Marco si sta aggrappando spasmodicamente alle sue braccia a lui per non cadere, e che qualunque tentativo di divincolarsi sarebbe fallito. E la paura cresce, si accavalla al dolore e alla stanchezza in una spirale di confusione e terrore che annienta qualunque suo volere.
 
<< Marco! >>
Feliciano non può non sospirare di sollievo quando vede il fratello di Marco correre verso di loro tenendo in mano un bicchiere d’acqua.
<< Marco. >> la voce di Matteo è calma, ma non nasconde una certa vena ansiosa; si toglie velocemente la giacca bianca e la poggia sopra le spalle del fratellino. << Mi hai fatto preoccupare, sciocchino. Non sparire così! >>
Marco non risponde; lascia le spalle del suo alter ego, e di appoggia pesantemente contro il rappresentate dell’Italia Meridionale, continuando a mormorare frasi senza senso. Matteo sospira piano, abbracciando il fratello e massaggiando piano la sua schiena; poi si rivolge a Feliciano, che immobile, era rimasto a fissare la scena.
<< Non farci caso. Quando è ubriaco fa sempre così, >> dice il meridionale, sorridendo cortesemente, << spero che non ti abbia detto qualcosa di brutto. >>
<< N-No. >> mormora l’italiano, incapace di distogliere lo sguardo da Marco, il quale sembra essersi calmato; ha smesso di parlare, e il suo sguardo è fisso in un punto imprecisato davanti a sé.
Matteo annuisce, per poi rivolgersi al suo fratellino porgendogli il bicchiere d’acqua: << Bevi piano. Poi torniamo in albergo, ok?  Oggi hai festeggiato abbastanza. >>
Marco annuisce, sorseggiando il liquido trasparente e accoccolandosi ancora di più contro il petto del fratello, lasciandosi portare dentro il locale.
Feliciano, rimasto solo, si lascia scivolare sul pavimento, tremando come una foglia e singhiozzando pesantemente, mentre la paura si trasformava in una crisi di pianto. Vorrebbe andare da Germania o da suo fratello e farsi consolare, ma non ne ha il coraggio ne la forza. Semplicemente, preferisce rimanere solo per una volta; si accoccola contro l’inferriata, si abbraccia le ginocchia e piange in silenzio, ignorando gli schiamazzi dell’ennesimo brindisi.
 

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La guerra continua, e le loro controparti sono sempre più indispensabili in quel conflitto: danno soldi, danno armi, danno perfino i viveri; si sono intrufolati nel sistema capitalistico,  e ne stanno guadagnando enormi profitti.
 
Il mio mondo va sempre più in rovina; quello di Marco, invece, sta diventando sempre più forte.
 
America e Russia sono troppo impegnati a farsi la guerra per intervenire; Cina se ne è tagliato fuori; e nessuno sembra anche solo concepire che il mondo delle loro controparti possa prendere il sopravvento. Nessuno tranne Feliciano.
Ma non dice nulla riguardo i suoi dubbi.
 
Chi crederebbe al codardo Italia? Chi mai penserebbe che io possa dire il vero, qualcosa di pausibile? Direbbero tutti che io sto esagerando, no?
 
Così, rimane in silenzio, mentre vede ingenti capitali spostarsi nel mondo delle loro controparti per compare armi e munizioni; mentre il suo mondo si impoverisce, incapace sotto ogni aspetto di sostenere una guerra, dimostrando di non aver imparato nulla dai due conflitti precedenti.
 
Feliciano è l’unico a non rimanere sorpreso quando due bombe all’idrogeno disintegrano Washington e Mosca, o quando l’Europa viene invasa da soldati stranieri che portano sulle divise medaglie con le loro stesse bandiere.
La Germania che invade la Germania. La Francia che invade la Francia. Il Regno Unito che invade il Regno Unito. E ovviamente, l’Italia che invade l’Italia.
Feliciano sapeva che sarebbe successo. Forse, se avesse espresso prima i suoi dubbi, non sarebbe successo tutto questo. Forse se avesse parlato, avrebbe potuto impedire i bombardamenti e le razzie, avrebbe potuto evitare che tutte le capitale d’Europa venissero saccheggiate e quasi distrutte.
 
Forse, forse, forse. Solo forse.
 
Feliciano non ha mai detto una parola dal giorno in cui Marco lo ha vagamente minacciato di morte, mimetizzando quella promessa in un discorso apparentemente privo di senso. Non ci è più riuscito: può solo balbettare qualcosa di incomprensibile, senza mettere insieme una frase di senso compiuto.
Quasi nessuno gli ha chiesto cosa fosse accaduto, nemmeno Lovino e Ludwig: tutti erano troppo impegnati con la guerra per badare al lui, e avevano rilegato quel comportamento allo stress.
Adesso, mentre osserva l’inferno che è diventata Roma, gli viene da piangere come mai ha fatto. Lo vorrebbe davvero fare, ma non ne ha la forza. Rimane in ginocchio sull’asfalto di Piazza Venezia, immobile. Attorno a lui sente solo i pesanti passi di stivali militari, appartenenti a soldati che sfoderano la bandiera italiana con orgoglio, ma non sono i suoi soldati: ai suoi soldati ci assomigliano solo.
<< Tu sei un demonio peggio di me. >>
Feliciano sussulta violentemente, per poi voltarsi con timore. Ogni muscolo, ogni fibra, ogni cellula del suo corpo viene immediatamente invasa dalla paura quando vede Marco sorridergli con infinita dolcezza, composto come suo solito, le mani inguantate di nero coperte di sangue.
<< Tu sapevi che sarebbe andata così. >> continua a parlare la sua controparte, mentre gli si avvicina, << non mentire, lo so. Ti si legge in faccia che sapevi che questo era l’unico finale possibile. Che darci troppo potere ci avrebbe permesso di prendere il sopravvento su di voi. Eppure non hai detto nulla. Io sarò anche un demonio, come dicono; ma io avrei cercato in ogni modo di salvare almeno i miei cari. >>
Feliciano non gli risponde. Non respira nemmeno. Le lacrime si decidono ad uscire dagli occhi, riversandosi copiosamente lungo le guance sporche.
<< Hai permesso che perfino la tua capitale venisse distrutta. Tu sei molto peggio del demonio! >>
Marco gli è davanti; si inginocchia al suo livello, e gli prende la testa tra le mani. E suoi occhi sono stranamente luminosi, ma quel guizzo che li illumina è indefinito; all’apparenza, sembra quasi allegria.
<< Non vi perdonerò mai per aver fatto diventare questo paradiso un inferno come il mio. >> dice l’italiano, senza perdere il sorriso. << Non ve lo perdonerò mai. >>
Feliciano inizia a singhiozzare, prima piano, poi sempre più forte, ma la voce ancora non esce. Quello che prova è paura, innegabilmente, ma c’è anche dell’altro:
 
Io non volevo tutto questo. Non volevo che io mio mondo diventasse un inferno. Avrei dovuto parlare? Ma sarebbe stato inutile: nessuno mi avrebbe dato retta, mi avrebbero tutti ignorato, no?
 
<< Vi odio tutti. >> continua Marco, ma la sua voce continua ad essere dolce, e quel sorriso calmo, quasi cortese, non viene mai meno; ma nei suoi occhi non c’è più alcuna luce di ragione, e le mani sulle sue guance di stringono quasi in una morsa d’artiglio << Non vi perdonerò mai. Come avete potuto? Questo mondo era così bello. Ora è un inferno anche peggiore del mio! >>
L’ambiente attorno a loro inizia a farsi ancora più caotico: in lontananza si sentono degli spari e delle cannonate, ogni tanto il rumore di un edificio abbattuto attutisce il discorso quasi insensato di Marco, ma non si sentono urla, da nessuna parte.
Feliciano continua a piangere in silenzio, incapace di dire qualunque cosa, di replicare, perché la voce si rifiuta di uscire. Chissà perché aveva smesso di parlare: era forse lo stress della guerra che si era accavallato con i confusi sentimenti verso Marco? O forse perché tutti lo avevano bellamente ignorato per tutto il tempo, e la sua mancanza di voce era una forma inconscia di vendetta?
Non lo sa, e non vuole nemmeno sapere la risposta, perché potrebbe spaventarlo. Non urla quando Marco gli lo strattona per i capelli, fissando gli occhi nei suoi.
 
Ambra contro violetto. Violetto contro ambra.
L’ambra di un codardo contro il violetto di un assassino. Il violetto di chi ha cercato una pace per sé e per chi ama contro l’ambra di chi non si è fidato abbastanza dei propri amici.
Un paradiso che diventa inferno e un inferno che, forse, diventerà paradiso si affrontano in quel breve gioco di sguardi.
 
Il sorriso di Marco si affila.
<< Hai degli occhi bellissimi, >> mormora, mentre poggia un piccolo coltello sotto l’occhio destro. << te lo hanno mai detto? >>
Feliciano non sa se deve rispondere o meno.
<< Sono di un bel colore. Un marrone chiaro con riflessi ambrati. E’ molto bello, raro. >> il coltello affonda leggermente nella pelle, fino a far uscire una piccola goccia di sangue, << Mi piacciono molto i tuoi occhi. >>
Anche gli occhi di Marco sono belli, e a Feliciano erano piaciuti da subito, e anche in quel momento non poteva non rimanerne affascinato, in minima parte.
Quelle parole, però, intensificano ancora di più il terrore in lui e, impotente, lascia che Marco lo butti a terra, lo immobilizzi e che, con le mani libere, allarghi il l’occhio verticalmente, impedendo alla palpebra di sbattere. Subito, l’aria irrita la cornea, ma questo è niente in confronto al coltello che, lentamente, si avvicina al suo volto.
<< Sono così belli. Non voglio che si rovinino come questo mondo. E poi, non ti meriti nemmeno di vedere come diventerà questo posto, no? >>
 
Se dovessi immaginare gli occhi del diavolo, probabilmente sarebbero belli, folli e tristi come i suoi E’ migliore di me perfino nel sembrare un demonio.
 
Feliciano urla quando Marco gli strappa gli occhi.
 
 
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Eccoci qui! Allora, come iniziare.
Innanzi tutto, partiamo dalla frase: “Tu pensi che io sia un demonio. Ma credimi, è solo perché sono vissuto all’inferno e voglio uscirne”: è tutta riferita  a Marco Vargas, l’alter ego di Feliciano.
Marco soffre di SPTS (Sindrome Post-Traumatica da Stress) fin da quando era piccolo, da quando ha assistito alla morte del nonno e si separa in maniera piuttosto traumatica dal suo primo amore (tanto per stringere all’osso il suo background); la sindrome provoca in lui degli atteggiamenti molto violenti e malevoli, il che, unito al fatto che è il nipote di una nazione da tutti considerata sanguinaria e crudele, gli ha dato la fama di “demonio” nel suo mondo; mondo devastato da innumerevoli e distruttive guerre, dove sono rari i sentimenti di affetto profondi. Marco è arrivato ad odiare il suo mondo e vede nel mondo di Feliciano una sorta di piccolo paradiso in cui potersi rifugiare. Per questo si arrabbia quando, nel mondo di Feliciano, scoppia la guerra, e si offre di aiutarlo a porvi termine il prima possibile: il suo piccolo rifugio dall’inferno che è il suo mondo rischia di venire distrutto.
Tutta la storia è, però, vista dal punto di Feliciano, che vede la situazione della sua controparte in una prospettiva molto più distorta a causa dell’invidia e del fatto che conosce poco la situazione psicologica di Marco. E anche verso la fine, non riesce a comprendere a pieno il motivo dell’attaccamento di Marco al suo mondo, semplicisticamente rilegandolo ad un atteggiamento schizofrenico; e comunque, i suoi pensieri sono tutt’altri: arriva, su influenza di Marco, a pensare di essere lui il “demonio” che ha distrutto il suo mondo.
 
Anche Feliciano ha vissuto una vita infernale, tra conquiste e repressioni (basta aprire un libro di storia per capirlo, del resto); egli, però, fermamente convinto che l’unico modo per uscire dall’inferno che è la sua vita sia ignorare i problemi; questo suo atteggiamento lo porta ad essere poco preso in considerazione dalle altre nazione, tanto che si convince che sia perfino inutile denunciare un eventuale pericolo, perché nessuno gli crederebbe. Solo alla fine si rende conto di aver fatto una cavolata, e che, forse, tra i due l’unico demonio è lui: diciamo che nel suo caso, la frase potrebbe essere riadattata in “Non credevo di essere un demonio. Sono vissuto all’inferno, e non ho saputo uscirne.” in maniera molto astrusa XD.
 
Spero di essere stata abbastanza chiara, non sono mai stata brava a dare spiegazioni ^^’.
   
 
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