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Autore: Minuialwen    22/01/2013    3 recensioni
Un piccolo uomo allevato dagli elfi e un principe immortale.
Ricordi di un tempo passato a parlare alla mente e ad alleviare l'amarezza di una verità troppo a lungo taciuta.
Il tempo di intraprendere un cammino per scoprire nuove mete.
Mortalità e immortalità a confronto. E un giuramento che porterà all'evolversi di un destino ultimo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Aragorn, Legolas
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Quest' opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported. Non scrivo a scopo di lucro e i personaggi non mi appartengono. Vige ovviamente il divieto assoluto di pubblicare l'intera storia o parti di essa altrove senza il mio specifico consenso.

Nota dell'autrice: Questa one shot è stata scritta un pò di anni fa e, rimasta in un angolino del vecchio pc, non è mai stata pubblicata. Qualche tempo fa, non ricordo perché, la salvai su una chiavetta e...meno male! Visto che l'allora fu computer della sottoscritta cadde una sera, dopo aver compiuto per anni il suo dovere, con un bicchiere di vino bianco accidentalmente versato (e non da me! è forse questa la cosa che più rode!) sulla tastiera!
Circa un mese fa, sclerando su FB assieme alla mia tesssssora Enedhil, mi capitò di menzionarla: tempo di cercare per tutta casa la chiavetta su cui era stata salvata e apportarvi qualche leggera modifica...et voilà ^_^ 
è per questo che la dedico a lei. Lei che è sempre stata la mia musa ispiratrice <3

Il titolo è ripreso dal testo di una bellissima e malinconica canzone degli Evanescence: Hello. Per immergervi ancor più nell'atmosfera della fic, consiglio a tutte/ i di ascoltarla prima o dopo la lettura o, se preferite, in entrambi i momenti. 

Commenti e critiche costruttive sono ben accette.
Non mi rimane a questo punto che augurare a tutte/ i una buona lettura,

Minuialwen




All that’s left of yesterday
 
 
 
Playground school bell rings
...Again
Rain clouds come to play
...Again
Has no one told you she's not breathing?
Hello, I'm your mind giving you someone to talk to...
Hello...

 
Un bimbo. Un bimbo dai profondi occhi azzurri e dai tratti insolitamente elfici per uno della sua razza. Un bimbo seduto in disparte ad osservare malinconicamente il cielo invernale…troppo malinconicamente per essere solo un bambino di otto anni.
 
“Estel, cosa ci fai qui tutto solo? Perché non sei a giocare con gli altri fanciulli?” Esclamò dolcissima una voce alle sue spalle.
 
Aaye Legolas nìn. (Salve mio Legolas)” Rispose il bimbo senza voltare lo sguardo e continuando a fissare i primi fiocchi di neve che avevano iniziato lentamente e silenziosamente a scendere dal cielo “Preferisco restarmene qui…”
 
“In completa solitudine?” Sussurrò la creatura eterna avvicinandosi “Sai che non s’addice ad un bimbo della tua età?” Constatò sedendosi al suo fianco senza fare alcun rumore; accomodandosi su uno dei gradini della maestosa scalinata che conduceva alla casa di Re Elrond.
 
“Agli altri bambini non piace la mia presenza…” Mormorò il piccolo tenendosi il viso tra le mani; poi finalmente si girò verso l’elfo “Dicono che sono diverso…”
 
Legolas lo scrutò in silenzio; con una profondità tale che sembrava volesse cancellare, soltanto tramite lo sguardo, tutta la tristezza che avvertiva nell’animo di quella giovane vita.
“Tu non sei diverso Estel” Disse ad un tratto “è solo il nome uomo ad essere diverso dal nostro…quello che c’è qui dentro” seguitò prendendogli entrambe le mani, mentre gliene faceva posare una sul proprio petto e l’altra sul suo “batte come il nostro. Lo senti piccolo mio?”
 
Il bimbo chiuse gli occhi per un istante, perdendosi in quel calore disarmante che solo Legolas riusciva a trasmettergli. Quando stava con lui si sentiva sempre al sicuro e riusciva a provare un po’ di quella felicità che ad un bambino non dovrebbe essere mai negata.
“Si, lo sento…” Rispose dopo un po’ mentre riapriva gli occhi e accennava un lieve sorriso, fissando il suo sguardo del colore del cielo estivo in quello blu oltremare dell’elfo.
 
“Vieni qui piccolo!” Sussurrò Legolas sorridendo a sua volta e stringendoselo al petto.
 
Estel si lasciò avvolgere da quell’abbraccio familiare e pieno di conforto e anche se non avrebbe voluto – essendo al corrente di ciò che sarebbe successo di lì a poco – le lacrime che aveva cercato di trattenere iniziarono a scorrere veloci lungo le guance pallide…
 
“Shhh…elen sila lumen omentilmo…à menle na uva calen ar’ ta hwesta é alé quenle…cormamin niuve tennà ta elea lle aù… (Una stella brillerà al momento del nostro prossimo incontro…possa la tua strada essere verde e possa il vento accompagnarti…il mio cuore dormirà fino a quando ti rivedrà ancora…) Non piangere Estel, non piangere piccolo mio…non piangere…non piangere…”
 
La dolce voce di Legolas si faceva via via sempre più distante, sommessa, impercettibile; fino a diventare un bisbiglio nell’aria, un mormorio sussurrato dal vento che andò improvvisamente a confondersi col silenzio che era calato tutt’attorno.
E solo allora Estel si rese conto, suo malgrado, di aver solamente immaginato la voce di Legolas che gli parlava. Come un’infinità di volte era già successo, si era perso nei suoi ricordi e aveva iniziato realmente a conversare con quella voce dolce e melodiosa, ma altrettanto immaginaria che risuonava negli angoli più remoti della sua mente.
 
Quelle erano state le ultime parole che il Principe di Bosco Atro gli aveva rivolto in quello stesso luogo due anni prima, nel giorno in cui il lungo soggiorno diplomatico presso il reame degli elfi di Imladris era terminato e, richiamato dai doveri di corte, aveva fatto ritorno alla sua patria…
 

If I smile and don’t believe
Soon I Know I’ll wake from this dream
Don’t try to fix me I’m not broken
Hello: I’m the lie, living for you so you can hide
…Don’t cry
 

Altri sei lunghi anni passarono lentamente, eppure se si fosse andati in cerca di Estel, adesso un bel giovane di sedici anni, non trovandolo in giro per la casa, si sarebbe stati certi di poterlo trovare seduto sulla solita gradinata del palazzo reale; unica testimone delle ultime parole che, durante un freddo pomeriggio d’inverno, il piccolo uomo allevato dagli elfi di Imladris e il Principe del Reame Boscoso si erano scambiati.
 
Nulla sembrava essere cambiato: il paesaggio tutt’attorno, la casa di Elrond, l’atmosfera surreale che si respirava e persino il cielo coi suoi candidi fiocchi di neve. Ogni cosa sembrava essere rimasta la stessa di un tempo.
Solo la figura solitaria in disparte aveva assunto sembianze differenti, ma splendide come quelle di allora. I grandi occhi celesti conservavano intatto quell’azzurro bagnato di costante malinconia, ma le belle labbra rosse erano adesso increspate in una risata forzata mentre guardava, con eloquente disprezzo, l’anello che teneva poggiato in un palmo…un anello che una volta era appartenuto ad Isildur, l’uomo che per umana scelleratezza aveva permesso al Male di perdurare nel tempo.
 
Quella stessa mattina, Re Elrond, colui che Estel considerava come un padre, e che, nel bene o nel male l’aveva cresciuto e allevato come uno dei suoi figli; gli aveva finalmente rivelato la sua vera identità e, con essa, il suo vero nome e il pesante fardello che incombeva sulle sue spalle.
 
“Aragorn figlio di Arathorn. Erede di Isildur ed unico e legittimo erede al trono di Gondor!” Rise Estel istericamente mentre sputava quel nome con disprezzo nel ripetere le stesse, esatte parole che suo padre aveva pronunciato con solennità.
 
Era l’ultimo dei Dùnedain, discendenza benedetta dai Valar con una vita molto più lunga rispetto a quella di qualunque altro uomo.
Una razza che si credeva ormai scomparsa nel tempo dopo che la Stirpe dei Re era stata spezzata, ma era una credenza sbagliata perché sua madre Gilraen, in realtà, era riuscita a metterlo in salvo. Appena in fasce l’aveva portato a Imladris supplicando Re Elrond di prendersene cura: da quel momento il suo vero nome venne nascosto a chiunque ed egli crebbe col nome di Estel senza sapere chi fosse veramente.
Ma questo non cambiava le cose poiché, nonostante le bugie, nonostante la verità occultata, l’unico rimasto della casata di Elendil era lui.
Lui l’uomo che avrebbe dovuto erigersi al di sopra di tutti i suoi padri, lui quel re il cui ritorno si aspettava da tanto, troppo tempo.
 
“Io! Il riscatto fatto persona per tutto il popolo degli uomini!” Sentenziò Estel ridendo amaramente.
 
Se rido’ pensò ‘se rido e non ci credo presto mi sveglierò da quest’incubo, perché tutto ciò non può essere altro che questo: un crudele e beffardo incubo!
 
Eppure, fin troppo presto, fu costretto a rendersi conto che non era così: quella era la realtà; una realtà che prima o poi si sarebbe visto costretto ad affrontare, e benché lui tutto questo non lo avesse mai chiesto, il destino non gli aveva lasciato la possibilità di scegliere da solo il proprio cammino, decidendo per lui già da molto tempo a quella parte mentre, ancora in fasce, lo depositavano in un luogo che non gli apparteneva e lo facevano crescere circondato dalle pareti di una menzogna.
 
Ancora una volta guardò di traverso l’anello che stringeva tra le mani e un improvviso moto di rabbia gli attraversò il corpo da capo a piedi: avrebbe voluto scagliarlo lontano, avrebbe voluto gridare tutto il suo odio e la sua frustrazione verso il cielo, avrebbe voluto scappare e non fare mai più ritorno, avrebbe voluto non sentire mai quella verità lasciare le labbra di suo padre.
 
“Perché?” Gridò “Perché non posso essere solo un uomo? Perché non posso essere solo Estel?...Io non sono un elfo! Non sono perfetto, dannazione!”
 
Nel pronunciare quelle parole gli vennero alla mente tutti i ricordi che in essa serbava fin dalla prima infanzia, ma uno in particolare aveva preso a spadroneggiare su tutti gli altri: gli occhi severi di suo padre che lo guardavano con rimprovero ogni qualvolta egli compisse qualcosa che deludeva le sue aspettative. Era come se Elrond pretendesse da lui ciò che pretendeva da Elladan ed Elrohir, i suoi figli gemelli, senza tener conto del fatto che lui, semplicemente, non era un elfo. E benché ogni tanto capitasse che anche i gemelli, nella loro eterea perfezione, sbagliassero qualcosa, gli occhi di Elrond non li avevano mai guardati con quel rimprovero che, per qualche strana ragione, egli riservava solo ad Estel.
 
“Perché?” Continuò “Perché?...”
Ma la sua voce era diventata un flebile sussurro, mentre si accasciava contro una delle imponenti colonne ai lati della scalinata e cominciava a piangere le prime lacrime amare che, fino a quel momento, aveva cercato di trattenere.
 
Lì, abbandonato a sé stesso, giaceva un giovane uomo in tutta la sua fragilità, ma con un cuore, un animo e un temperamento ancora inconsapevoli di tutta la forza, la volontà ed il sacrificio a cui gli uomini, talvolta, sono in grado di arrivare se messi alla prova.
E ancora una volta, la voce di Legolas, quella voce che non aveva mai dimenticato, tornò a sussurrargli, come in un’antica e dolcissima nenia, parole di conforto - “Non piangere Estel…non piangere piccolo mio…”
 
“Legolas!...Oh Legolas, perché te ne sei andato?”
 

Suddenly I know I’m not sleeping
Hello: I’m still here…
 

Altri quattro anni passarono, scolpendo su quel volto umano, come un artista scrupoloso e meticoloso, le fattezze eteree e perfette di una statua di marmo. Un volto ed un corpo di un giovane di vent’anni talmente splendente da far invidia persino a molti degli elfi del luogo. Alcuni avevano iniziato a struggersi anche solo per un suo sguardo, una parola, un sorriso; senza che colui al quale erano rivolte quelle attenzioni, se ne rendesse mai veramente conto. Era come sordo e cieco a qualunque richiamo, implicito o esplicito, che gli venisse avanzato; pronto a prestar attenzione e a tendere ogni suo senso solo verso ciò che aveva iniziato a bruciargli dentro con la stessa violenza di un rogo dirompente. Nessun struggimento, foss’anche stata una supplica, sarebbe mai stato in grado di spegnerlo o anche solo contenerlo.
Bruciava Estel, bruciava di ardore infinito; e proprio nel giorno del suo ventesimo compleanno egli prese una decisione che, ancora inconsapevole, avrebbe cambiato non solo la sua vita, ma anche quella di qualcun altro…
 
Si lasciò alle spalle Imladris, luogo in cui negli ultimi quattro anni si era costruito un mondo tutto suo, all’interno del quale lasciava entrare solo tutto ciò che egli considerasse bello, ammirevole e degno di considerazione. Un mondo dove sempre più spesso risuonava la dolce voce di un elfo dai capelli d’oro, le cui fattezze però si facevano via via sempre più indistinte, sfocate, confuse da altri volti e altre immagini.
 
Da quando gli era stata rivelata la verità a cui era legato dalla nascita, Estel aveva volutamente deciso di ignorarla, ed era divenuto più scostante e taciturno del solito. Si era rifugiato all’interno di quel mondo che si era creato: il luogo in cui la sua memoria serbava gelosamente il ricordo della voce dell’unica persona che egli avesse mai sentito veramente vicino; nonostante il volto di quest’ultima, a causa dei dodici, lunghi anni passati in sua assenza, iniziasse a confondersi col resto del tempo.
Venne poi il giorno in cui capì, come un fulmine a ciel sereno, che non poteva sfuggire ciò a cui era stato predestinato e che era arrivato il momento di affrontarlo; ampliando le sue conoscenze, toccando con mano tutto ciò di cui aveva sentito parlare nei canti vecchi di secoli e tramandati di generazione in generazione. Voleva vedere di persona tutto quello che aveva appreso nei libri, quegli stessi libri che per anni erano stati gli unici compagni di interminabili giorni e notti solitarie.
Studiava e imparava con bramosia e la stessa applicazione la metteva nell’apprendere l’arte della spada e del combattimento durante le lunghe ore in cui si dedicava all’allenamento del corpo e dello spirito. Si struggeva poiché poteva carezzare solo con la mente e non con mano ciò di cui leggeva e andava fantasticando…ciò che forse già sentiva di amare.
Voleva conoscere i suoi simili, Estel. Voleva vedere i grandi regni degli uomini di cui aveva sempre sentito parlare. Voleva respirare aria intrisa di libertà, voleva scoprire il senso dell’avventura selvaggia, voleva iniziare a capire ciò che spinge gli uomini a misurare sé stessi, da soli di fronte alla nuda pietra, con nient’altro che le proprie mani e la propria testa a fungere da aiuto. Sperimentare sulla propria pelle la condizione umana più antica.
E poi conoscere le sue radici, vedere il popolo e la terra per cui un giorno avrebbe combattuto, per cui forse sarebbe morto o, in caso contrario, per cui sarebbe salito al trono.
La voglia di conoscenza, quella voglia smisurata che ogni essere umano si porta dentro di sé fin dal principio, si stava risvegliando in lui, facendolo fremere, bruciare, divorandolo da dentro e inducendolo a partire.
 
E così fece: una notte d’inverno, mentre candidi fiocchi di neve si scioglievano leggiadri su un suolo già ricoperto da un soffice manto, egli disse addio ad Imladris e alla sua infanzia, sperando però, dentro di sé, di potervi un giorno tornare.
 
Da allora il piccolo Estel divenne Strider, nome con cui, i raminghi del nord al quale si era unito, l’avevano ribattezzato.
 
Presto Strider divenne una sorta di leggenda avvolta dal mistero, giacché in qualunque luogo andasse, egli si lasciava dietro, puntualmente, una scia di facce ed espressioni stupite che si trasformavano ben presto in canti e storie.
 
Fu così che trascorsero altri vent’anni e ben pochi erano i luoghi della Terra di Mezzo in cui il nome di Strider non fosse noto ai più. La sua età era indefinita, una sorta di impenetrabile sortilegio per coloro che avevano intravisto il suo volto. Si diceva che fossero vent’anni o più che il ramingo peregrinasse di terra in terra, ma che il suo viso avesse le fattezze di un bellissimo giovane e, ciò, ovviamente, non poteva essere possibile giacché, di certo - dicevano in molti - egli non aveva potuto iniziare ad incamminarsi per la terra ancora in fasce!
 
“E se fosse un elfo?” Parecchi si domandavano. In effetti si diceva anche che il ramingo fosse stato allevato dagli elfi, quelle creature bellissime ed immortali che vivevano nei boschi. Magari era veramente uno di loro, scacciato ed esiliato dai loro regni per aver compiuto chissà quale atto innominabile! O forse ancora, proprio gli elfi a cui egli era tanto caro, gli avevano fatto un sortilegio donandogli la giovinezza eterna!
 
Queste ed infinite altre erano le dicerie che scorrevano di bocca in bocca sul suo conto, in ogni angolo dei regni degli uomini; e più questi si sforzavano di trovare una spiegazione plausibile, più le chiacchiere si facevano sempre più innumerevoli.
 
Proprio pochi giorni dopo il suo quarantesimo compleanno, Strider si ritrovò a percorrere un luogo in cui non aveva mai messo piede prima d’allora. Gli alberi erano alti e solenni; alberi antichi i cui rami e le verdissime fronde, nonostante l’inverno pungente, si allungavano maestosi verso il cielo plumbeo, gettando ancora più ombra che si andava ad unire a quella già creata da una giornata senza sole.
Tutta la vegetazione attorno era qualcosa di sorprendentemente magnifico, ma la cosa che più colpì il ramingo fu constatare che, incuranti del freddo e della neve, i fiori spuntavano ovunque, multicolori, e i cespugli erano carichi di frutti maturi come se fosse piena primavera, nonostante il terreno ammantato di bianco.
 
Proprio mentre s’attardava a rimirare estasiato la bellezza naturale da cui era circondato, i suoi sensi acuti e affinati con gli anni passati a fare il ramingo, avvertirono una presenza che si muoveva velocemente, di albero in albero.
 
Quella presenza si muoveva molto veloce per essere umana – ‘troppo veloce’ pensò il ramingo – così, mentre continuava a camminare, per non destare - in chi lo stava seguendo - il sospetto che si fosse accorto di qualcosa; posò, con fare naturale, la mano sull’elsa della spada, pronto a rispondere ad un eventuale attacco…
 
Seguitando ad inoltrarsi lungo il sentiero che stava percorrendo, come pretendendo di non essersi accorto di nulla, rinforzò la presa sull’impugnatura dell’arma e dopo pochi secondi rallentò l’andatura. Chiuse gli occhi per una frazione di secondo, dopodiché, quando li riaprì, avvertendo adesso la presenza di qualcuno a pochi centimetri dalla sua schiena, si girò di scatto e contemporaneamente sguainò la spada dal fodero…
 
Un clangore metallico ferì l’aria: la sua lama andò a scontrarsi violentemente contro altre due lame incrociate e…quello che vide attraverso di esse fu ciò che il suo pensiero registrò come ‘il ritrovarsi di fronte allo spettacolo più bello e conturbante che avesse mai visto in tutta la sua vita…’
 
Un paio d’occhi blu come il mare lo stavano fissando senza timore, ma solo con una punta di sorpresa; la stessa sorpresa che – pensò – probabilmente si era dipinta anche nei suoi occhi.
 
Si perse per un secondo infinito ad ammirare le labbra rosee che aveva davanti, le gote scolpite nell’alabastro, tante perfette da sembrare irreali, quei lineamenti fieri e delicati splendidamente amalgamati tra loro e l’oro dei capelli, fine seta dorata da far invidia persino ai raggi del sole…
 
Quel volto!...Oh, quel volto che aveva sognato e agognato per così tanto tempo! Quelle fattezze celestiali che si erano confuse con i mille e più ricordi delle cose che si erano succedute nella sua vita! ‘Come?’ pensò ‘Come ho potuto dimenticare?
Quale imperdonabile ignominia! Quale folle divinità l’aveva indotto a confondere quella creatura meravigliosa col resto del tempo? Era forse una forma d’autopunizione la sua, quella di rendersi così miserabile? O forse - la sua mente gli suggeriva - più che di autopunizione si trattava di autodifesa, per non impazzire nella consapevolezza di non avere più quel volto accanto al suo…
 
Ma ora quelle che avrebbero potuto essere barriere di difesa contro gli attacchi di una pazzia che sicuramente lo avrebbe irretito, cadevano, attraverso un semplice sguardo, ad una ad una…come se fossero state niente più che fragile, fragilissima cartapesta, mentre riconosceva quel volto tanto amato come se…l’ultimo giorno trovatosi al suo cospetto fosse stato solo il giorno prima…
 
Non poteva, non doveva sbagliarsi! E per assicurarsi che egli fosse vero e non soltanto un’allucinazione giocatogli da un colpo basso del destino, in un soffio, pronunciò il suo nome…
 
“Legolas…”
 
La spada del ramingo cadde a terra con un tonfo secco.
L’elfo non poté impedirsi di emettere un sospiro di sorpresa mentre anch’egli, contemporaneamente, abbassava le lame delle daghe.
Poi lo fissò a lungo, cercando di studiarlo per capire chi fosse e…la fatalità che commise fu quella di sentirsi terribilmente attratto da lui a prima vista…quegli occhi così profondi, così intensamente malinconici…
 
“Chi sei?” Domandò l’elfo senza smettere di scrutare all’interno del suo sguardo…
 
Quella voce! Quella splendida voce che non aveva mai dimenticato nonostante gli anni trascorsi!
Finalmente poteva riascoltarla, finalmente poteva di nuovo sentirla risuonare nella sua anima e deliziarsene! Ed era vera: non stava sognando in quel momento, non si stava perdendo ad occhi aperti nei suoi ricordi!
La melodia di quella voce era calda ora e vera e tangibile…
 
“Come sai il mio nome?” Continuò l’elfo.
 
“Te ne prego, parla ancora amico mio!...Lungo è stato il tempo in cui non ho potuto far altro che solo sognare i tuoi sussurri…”
 
“Io…io e te ci conosciamo?” Chiese il Principe del Reame Boscoso sempre più meravigliato.
 
Senza pensare a ciò che stesse facendo, il ramingo, al colmo della gioia, gli prese una mano con la propria e se la portò al petto “Quello che c’è qui dentro…” sussurrò commosso mentre, delicatamente posava l’altra all’altezza del cuore dell’elfo  “batte come il tuo…”
 
La creatura immortale lo osservò ancora per pochi istanti, poi, improvvisamente, i suoi battiti divennero palpitazioni “E..Estel?” bisbigliò incredula…
 
Per tutta risposta il ramingo si limitò a sorridere e a stringere più forte la mano che aveva afferrato, riducendo ad un respiro la distanza tra i loro corpi…
 
A Valar! Ed’ i’ear ar elenea!...Estel! (Oh Valar! Per il cielo e per le stelle!...Estel!)” Iniziò a gridare l’elfo al colmo dell’eccitazione e senza proprio riuscire a trattenersi gli buttò le braccia al collo per stringerlo in un abbraccio amorevole.
 
Sul momento non riuscì a spiegarsi perché lo fece.
D’altronde non era solito comportarsi in quel modo così…umano – pensò.
Gli elfi erano creature senza tempo, cultori di spirito e di saggezza, i cui occhi e le cui menti potevano scorgere cose che, anche per i mortali più fervidi, andavano ben al di là di qualunque immaginazione.
Essi avevano visto l’inizio del tempo e avevano assistito alla costruzione e al disfacimento  di interi regni, casate, generazioni di cui si era persa ogni traccia e i cui simboli, vessilli, stemmi e stendardi erano stati logorati dallo scorrere dei giorni, fino ad esserne usurati, consumati e, infine, ridotti in polvere. Il vento la disperdeva e la rimescolava alla stessa terra da cui erano sorti, trascinando via con sé le passioni e i deliri, le pretese e l’orgoglio, il coraggio, la follia, l’onore e la fede da cui erano stati animati.
Ed essi, i superstiti di quel tempo che per loro non passava mai, vedevano e vivevano tutto con etereo distacco o, almeno, così gli veniva insegnato perché…forse, in una terra che era mortale, relegare gli istinti e le passioni negli angoli più remoti del proprio sé, li avrebbe salvati da un tormento senza fine per tutto ciò che, dal loro abbraccio, sarebbe sfuggito troppo in fretta…
Eppure, quando Ilùvatar aveva seminato l’amore in Arda, il cuore degli elfi non aveva fatto eccezione.
Anche il battito incessante e la vita senza fine non possono inneggiare alla sola sapienza né unicamente alle virtù dell’arte e della conoscenza. Mantenere in vita un corpo condannato a non provare emozione alcuna, avrebbe reso anche gli elfi dei semplici, seppur splendenti, involucri vuoti.
 
Amore per loro significava scegliere qualcuno e donargli il proprio cuore. Quando questo avveniva, il legame che ne derivava era talmente profondo che, se mai fossero stati separati dai propri compagni, questo li avrebbe portati a morire di dolore.
Bellissimi, luminosi, immortali appartenenti al popolo delle stelle; il tempo non li scalfiva né la nera signora li avrebbe mai stretti nel suo freddo abbraccio, se non per morte violenta sul campo di battaglia o per lo strazio derivato dalla perdita della persona amata.
 
Così, mentre Legolas continuava a stringerselo contro, non solo non si chiese il perché, ma pensò anche di non averne il tempo.
Paradossale! Un elfo che non aveva tempo! Eppure si era reso conto in quell’attimo, ora che poteva nuovamente percepire quel calore familiare sulla pelle che, in realtà non se l’era mai chiesto.
Non si era mai chiesto perché avesse preso così a cuore quel bimbo di stirpe mortale; un fagotto ancora inconsapevole del proprio destino, tanto prezioso per il popolo degli uomini quanto per quello degli elfi che lo avevano ribattezzato con un nome che non a caso gli era stato dato – Estel; speranza.
Né se lo chiese quando dovette lasciarlo, costretto dagli obblighi verso la propria gente a fare ritorno in patria. Non si chiese mai perché il suo cuore soffrisse così tanto di fronte alla consapevolezza di doverlo lasciare, né si chiese mai perché, da quando aveva rimesso piede a Bosco Atro, non ci fosse mai stato un solo giorno in cui, almeno un pensiero tra i tanti che gli affollavano la mente, corresse a lui.
Forse erano quei grandi occhi azzurri velati della stessa, perenne malinconia che, da sempre, si celava anche nei suoi; o la dolcezza e la fierezza che, seppur così giovane e inconsapevole della vita, già emanavano.
L’unica certezza che aveva consisteva nel sapere di aver, semplicemente, seguito l’istinto e, con esso…il proprio cuore.
E forse Legolas, in quel momento come allora, stava già morendo…
Piano piano, impercettibilmente, la sua immortalità si stava affievolendo senza che lui neanche se ne rendesse conto perché…Estel, caro Estel…lui era mortale e il suo tempo, prima o poi, sarebbe andato incontro ad una fine…
 
Dimentico di ogni cosa, proprio come allora, senza pensare né soffermarsi a chiedersi di poterlo fare; rafforzò ancor più la stretta con cui lo cingeva, alzando lo sguardo per incontrare nuovamente il suo volto e…successe l’impensabile.
Avvertì il proprio corpo ed ogni senso incendiarsi, come se, all’improvviso, a scorrergli nelle vene ci fosse stato un fiume di lava incandescente. La malinconia che velava l’azzurro di quelle iridi amate avrebbe potuto portarlo a perdersi negli echi di un tempo passato, quando il piccolo Estel si rifugiava nel calore del suo abbraccio per riceverne conforto; ma la fierezza che ancora continuava a intravedervi si era trasformata adesso in regale maestosità, e fu questo a inchiodarlo a quel momento. Come rapito da una forza a cui non si sarebbe potuto sottrarre, continuò a smarrirsi in quello sguardo e in quel volto così diverso, eppure così simile, a quello che ricordava.
I tratti delicati e fini erano fioriti assieme alla virilità di un giovane uomo. Le linee erano più decise e marcate rispetto ad un tempo, la barba rada gli conferiva un aspetto selvaggio e affascinante e le ciocche castane che, in morbide e disordinate onde gli scendevano fino alle spalle, sembravano un invito fatto apposta ad immergervi le mani all’interno. Adesso, rispetto alla fanciullezza, assomigliava di meno ad un appartenente al popolo immortale, ma la bellezza dipinta sul suo viso rimaneva di un’eloquenza impressionante.
 
Il modo in cui stava agendo, gli sovvenne, era l’unico giusto, l’unico…possibile, e il battito furioso del proprio cuore, mentre alzava una mano per farla scorrere sulla sua guancia, gliene diede la conferma; bramando al tempo stesso di non dover sentire la stretta di quelle braccia forti e tornite, e che lo stavano cingendo come se non ci fosse stato un domani, allentarsi.
Mae govannen llè Eryn Lasgalen Estel (benvenuto a Bosco Atro Estel)” sussurrò lievemente “Il destino ha portato a far incrociare ancora i nostri cammini. Potrai restare finché lo desideri; sarò felice di mostrarti qualunque luogo del mio regno vorrai visitare. Non esitare a chiedermi nulla: se sarà in mio potere concedertelo, ti concederò qualunque cosa tu voglia. Trova riposo in questo luogo di pace, scaccia la stanchezza che leggo nel tuo animo. Ardua è stata la strada che ti ha condotto sin qui…da me; e innumerevoli le peripezie affrontate nel lungo peregrinare. Non temere né Ombra né dolore, ma possa il tuo spirito trovare ristoro e conforto. Il potere del mio popolo protegge questi luoghi…Io ti proteggo e ti proteggerò” e affondando il viso nell’incavo della sua spalla concluse con un bisbiglio dolcissimo e appena accennato “Nae saiam luumé, cormamin lin dua ele lle (è passato tanto tempo, il mio cuore canta nel rivederti)”
 
No. Nessuna morale, nessuna congettura, nessuna esitazione avrebbe potuto mai cambiare il modo in cui si stavano svolgendo le cose: era così che doveva essere, era quella l’unica maniera possibile. Al di fuori di quell’abbraccio e di quelle parole non ne sarebbero potuti esistere altri.
 
E al suono di quelle affermazioni, alla luce della presenza che Legolas emanava; il ramingo perse ogni contatto con la realtà e, l’inverno gelido che si era ammantato nel suo cuore, tutta la rabbia e l’amarezza e l’impotenza che provava di fronte a un nome e a un fardello a cui il fato l’aveva predestinato, caddero ad una ad una senza opporre la minima resistenza.
Come fragili foglie secche soffiate dal vento autunnale, ogni afflizione, ogni turbamento, ogni timore andò poi a disperdersi lontano, nell’infinito del mondo, riducendosi in polvere che trascinata dal vento ancora e ancora non avrebbe fatto mai più ritorno.
Tutto ciò che rimaneva era una voce calda e dolcissima che lo consolava nel profondo dell’anima e uno sguardo blu come il mare che gli sorrideva sinceramente.
 
…E i giorni passarono, i mesi passarono e l’amicizia tra Legolas e Strider si rinsaldava sempre di più. Ogni volta che il principe riusciva a liberarsi dai suoi doveri correva fuori dal palazzo e, guardandosi attorno con circospezione, per appurare che non ci fosse nessuno ad osservarlo, si dirigeva velocemente nella radura dove il ramingo, puntualmente e in segreto, ogni giorno lo attendeva seduto tra le radici di una grande quercia.
 
Non veder l’ora di finire di svolgere le mansioni di sua competenza in quanto figlio del re, stava diventando la prassi e, sempre più spesso, anche durante le riunioni di corte, a Legolas capitava di sognare ad occhi aperti, immaginandosi in una delle numerose avventure che Estel gli raccontava.
Così l’intero ambiente circostante, le voci dei presenti e tutti coloro che prendevano parte ai consigli divenivano tenui e indistinti fino a confondersi e a venire annullati del tutto dalla sua mente sognante e dal desidero insaziabile di vivere veramente ciò su cui andava fantasticando.
Bramava, Legolas, di poter sentire ciò che a lui era precluso per natura: la pelle bruciare e arrossarsi sotto i raggi del sole cocente, percepire addosso il freddo pungente come migliaia di piccoli aghi acuminati, avvertire la fame e la sete come l’avvertono gli uomini.
Inoltre sognava di combattimenti corpo a corpo al di fuori degli allenamenti all’interno della sicurezza dei propri confini: quando Estel raccontava le sue storie, gli sembrava di poter percepire sul serio l’adrenalina che saliva nell’attimo che stava a precedere lo scontro e poi esplodere e irradiarsi in ogni punto del corpo. I suoi sensi di giovane guerriero si stavano svegliando e fremeva con impazienza di poter mettere alla prova sé stesso. Desiderava conoscere ciò che si trovava al di fuori delle terre del suo popolo, vivere e perdersi tra le usanze di altra gente, facendole proprie. E in tutto ciò che andava sognando, egli non si vedeva mai da solo: la verità era che in qualunque contesto la fantasia lo guidasse, accanto a lui c’era sempre Estel.
 
Suo padre e i consiglieri di corte si erano visti costretti a richiamarlo all’attenzione più e più volte, facendolo ripiombare in una realtà che, suo malgrado, con più accrescimento di prima, sentiva non essere parte vibrante di sé. La politica non gli era mai interessata granché e, adesso, sapendo che Estel lo stava aspettando nel loro posto segreto – una piccola radura nei pressi del fiume che divideva il Bosco Atro a metà – quei lunghi dibattiti che si avvicendavano per ore nella sala del trono, li trovava ancora più tediosi.
Sempre più spesso capitava che Legolas si inventasse delle scuse per sfuggire alle riunioni, specialmente quando quei dibattiti che non lo interessavano neanche un po’ minacciavano di farsi più lunghi del previsto; e, ancora più spesso capitava che egli giungesse di corsa nella sala del trono con addosso ancora gli abiti del giorno prima, immancabilmente sul filo del rasoio e, a volte, persino in ritardo!
Ma – pensava – se era questo il prezzo da pagare per poter continuare a passare le nottate fuori dal palazzo, sdraiato accanto al fuoco acceso e sotto le coperte assieme ad Estel; l’avrebbe anche potuto continuare a pagare all’infinito: non gli sarebbe importato.
In quelle serate fuori dal tempo, con gli sguardi rivolti al cielo stellato, entrambi si raccontavano a vicenda degli anni che li avevano visti separati e, sera dopo sera, confidenza dopo confidenza, al legame che li teneva uniti diventava sempre più complicato dargli una definizione adeguata – potevano ancora chiamarla semplice amicizia la loro? Quando del tempo che trascorrevano insieme erano estremamente gelosi?
Era questo il motivo per cui non amavano stare a contatto con gli altri elfi del luogo: entrambi cercavano la solitudine, prediligendo luoghi che avrebbero fatto loro da scudo agli occhi indiscreti di chiunque avesse potuto tenerli d’occhio. E così la radura in cui si incontravano ogni giorno era stata volutamente mantenuta segreta e altrettanto lo erano i posti per cui poi si incamminavano a piedi o a cavallo.
 
Trascorrevano interi pomeriggi ad allenarsi: spada, pugnali, daghe e arco. Si studiavano a vicenda, con lenta circospezione, fino a quando uno dei due decideva infine di sferrare l’attacco per primo, e la natura in cui si trovavano immersi si riempiva di suoni metallici e del respiro veloce che usciva dalle labbra di entrambi.
Il combattimento era per ciascuno, ognuno all’insaputa dell’altro, un metodo efficace per non pensare a quanto, i loro corpi, desiderassero sentirsi vicini, frementi e…nudi, l’uno contro l’altro. Così riversavano nei movimenti della danza combattiva, la frustrazione che scaturiva dal non potersi toccare, impegnandosi nello stesso modo con cui avrebbero combattuto su un campo di battaglia vero e proprio.
Erano avversari di pari livello poiché la velocità e l’agilità con cui si muoveva Legolas andava a compensare la forza fisica del ramingo, ottenendo come risultato che nessuno dei due riuscisse a prevaricare sull’altro.
 
“Non vorrei mai incontrarti come avversario sul campo, principe…” iniziò Estel ansimando veloce, mentre, dopo aver approvato, anche per quel pomeriggio, l’ennesima proposta di una sfida ad armi pari; parava con la spada le due daghe incrociate a pochi centimetri dal proprio volto “piuttosto mi augurerei di averti affianco come alleato…”
 
“E non potrebbe esserci altra realtà all’infuori di questa…futuro re…” gli rispose l’elfo mentre alzava e allargava le braccia facendo stridere le due lame a contatto con quella del compagno, e preparandosi a sferrare un nuovo attacco dopo un leggero balzo all’indietro “non mi schiererei mai contro di te!...”
 
“Perché?...” si fece sfuggire Estel rimettendosi in guardia.
In realtà la risposta razionale a quella domanda la conosceva già, eppure, inconsciamente, il suo animo l’aveva spinto a porre quell’interrogativo poiché avrebbe voluto sapere se anche Legolas provava le stesse sensazioni che avevano preso a tormentarlo mattina e sera…quelle sensazioni brucianti che si facevano ancor più vere e dolorose ogni qualvolta l’elfo si trovasse al suo fianco; o se, come spesso gli capitava di pensare, le sue fossero solo vane illusioni. Il frutto di una mente folle, in quanto la persona che aveva preso a riempire ogni suo senso e ogni singolo pensiero, era la stessa che lo aveva visto bambino e che lo consolava quando piangeva.
Un elfo, anzi: un principe degli elfi nato un numero di anni smisuratamente più grande, prima di lui, e che – per quanto secondo i canoni di quel popolo fosse ancora un giovane da poco uscito dallo stato acerbo – aveva sicuramente visto passare davanti ai suoi occhi chissà quanta gente e chissà quanti altri folli che, proprio come lui, lo avevano desiderato nonostante la breve, minuscola durata delle loro esistenze. E mentre quei volti, quelle vite mortali si alternavano in un modo che agli occhi dell’elfo dovevano essere sembrati solo pochi giorni, il suo splendido viso rimaneva immutato e la sua anima celata in un corpo icona di perfezione imperitura.
 
Perché ti seguirei ovunque al mondo, sfidando chiunque, persino il volere di mio padre…perché non sopporterei neanche l’idea di dovermi separare nuovamente da te…’ Furono invece i pensieri che attraversarono la mente del principe di fronte a quella domanda sparata a bruciapelo, e la realizzazione di quanto tutto ciò fosse vero, lo fece tremare come una foglia scossa dal vento, lasciandolo imbambolato per una frazione di secondo…
Un tentennamento, il suo, che gli fece ritardare l’attacco prefissato; una frazione di secondo che fu però abbastanza per permettere ad Estel di afferrare al volo il momento propizio e coglierlo di sorpresa.
Improvvisamente, da che era in guardia, attaccò con gesto fulmineo e Legolas, inaspettatamente, si ritrovò ad indietreggiare mentre parava, uno dopo l’altro, colpi assestati e precisi, senza tregua, senza respiro, fino a che…ormai con le spalle contro al tronco di un albero, riuscì a fermare, deciso e repentino, la spada di Estel a pochi centimetri dal proprio fianco destro.
 
Distolse lo sguardo dal pericoloso gioco di lame incrociate, mentre il suo cuore diminuiva gradualmente i battiti e il suo respiro tornava ad essere regolare, ritrovandosi a fissare gli occhi celesti dell’uomo che lo scrutavano con uno sguardo impregnato di una strana, sensuale luce; realizzando al contempo di trovarsi piacevolmente imprigionato tra la corteccia alle sue spalle e il corpo bollente del compagno…così dolorosamente vicino al suo.
 
“Mai abbassare la guardia Las…” sussurrò il ramingo ad un soffio dal viso di Legolas, appellandosi a lui col nomignolo con cui da un po’ di tempo a quella parte aveva preso a chiamarlo “Quello che all’apparenza può sembrare un errore da niente, su un campo di battaglia vero e proprio potrebbe rivelarsi un errore fatale…” concluse sfoggiando la sicurezza di un’esperienza acquisita negli anni in cui aveva combattuto piccole e grandi battaglie a fianco dei raminghi del nord.
 
Per tutta risposta Legolas gli sorrise ed egli avvertì le proprie gambe cedere, mentre tutta la sicurezza ostentata un attimo prima andava a nascondersi in luoghi remoti.
 
Le armi caddero al suolo e l’elfo lo abbracciò con fare dolcissimo “perché non c’è nessuno a parte te che si appelli a me in quel modo…”
 
“C..come?!” Farfugliò lui in rimando, perdendo la cognizione della realtà mentre godeva di quell’abbraccio infinito e del meraviglioso profumo di vaniglia e miele speziato emanato dai capelli di Legolas.
 
“La risposta alla tua domanda...” continuò il principe mentre si scostava leggermente da quelle braccia riluttanti a farlo allontanare “non mi schiererei mai contro di te perché non c’è nessun altro che si appelli a me in quel modo…”
 
Si scrutarono per un attimo con fare ironico…
 
“Oh, e ditemi vostra altezza Las, vi piace il modo con cui oso appellarmi a voi?
 
“Immensamente mio futuro sire…immensamente…”
 
Scoppiarono a ridere all’improvviso. Una risata sincera che relegava tutto il resto in un angolo lontano. In quel momento che era solo loro non esistevano più ne principi, né regni né fardelli da portare. C’erano solo un uomo e un elfo felici di stare insieme, alle prese con le loro emozioni più viscerali, senza obblighi né doveri o incombenze a cui pensare. Senza mortalità e immortalità a confronto. Solo due esseri universali uniti da un legame che si faceva via via più saldo e più profondo dell’abissale differenza di razza che li voleva separati.
 
Erano felici insieme, felici come non lo erano mai stati prima e non passò molto tempo quando s’accorsero che ormai era diventato impossibile fare l’uno a meno dell’altro.
 
Una notte, agli ultimi sgoccioli del rigido inverno, si ritrovarono a passeggiare lungo la sponda ovest del fiume, poco distante dal piccolo accampamento che – come da consuetudine da quando Estel era giunto a Bosco Atro – i due preparavano quasi ogni sera, ogni volta in un luogo diverso del bosco; precauzione che Legolas si premurava di aggiungere allo sgattaiolare di nascosto fuori dal palazzo senza farsi notare dagli inservienti, dai guardiani e soprattutto da suo padre.
Era una serata magnifica: la luna, alta nel cielo, tingeva le chiome degli alberi di una luce tanto pallida quanto eterea e le stelle brillavano più splendenti del solito, quasi come a voler sorridere ad entrambi. Il vento soffiava tiepido, indicando quell’attimo di tempo tangibile che segna la fine di una stagione e l’inizio di quella che segue. I freddi barlumi invernali andavano via via diradandosi, mentre le loro braccia glaciali si riempivano di calore e profumo di primavera.
Estel e Legolas camminavano in silenzio, fermandosi di tanto in tanto a raccogliere dei ciottoli da far rimbalzare sulla liscia superficie dell’acqua. Tutt’attorno a loro il magico e tenue suono della notte, accompagnato dal pacifico gorgogliare del fiume.
Ma l’animo del ramingo, nonostante la pace e la serenità a far da sfondo alle sue meditazioni, era attanagliato da una consapevolezza che lo schiacciava con la stessa intensità di un macigno…
 
Più il tempo passava e più Estel si rendeva conto di quanto, in tutta la sua vita, gli unici momenti in cui si era sentito davvero felice, erano stati gli attimi che aveva trascorso accanto a Legolas; nessuno escluso. Sarebbe rimasto in quel luogo per sempre se solo gli fosse stato concesso, ma la strada da intraprendere per diventare ciò a cui era stato predestinato, era tornata infine a bussare alla sua porta.
Doversi separare nuovamente da lui era per Estel come infliggersi la più crudele delle punizioni senza avere alcuna colpa; eppure il tempo di riprendere il cammino verso nuove mete da raggiungere, era infine arrivato. Non poteva più permettersi di rimandare oltre: la consapevolezza di dover conoscere e apprendere il più possibile per poter infine, un giorno, far propria la capacità di afferrare con mano ferma le redini del proprio destino, lo stavano spingendo nuovamente a partire, anche se questo avrebbe significato separarsi ancora da Legolas.
Ma non era più un bambino, si diceva. Continuava a ripetersi che non era più un fagotto indifeso, bisognoso dell’abbraccio protettivo e dolcissimo di colui che accoglieva le sue lacrime per consolarlo. Era un uomo adesso e come tale avrebbe dovuto imporsi delle decisioni che andavano al di là di quelli che potevano essere considerati non solo semplici infantilismi, ma anche folli, insane motivazioni.
Cercava di convincersi che, d’altronde, Legolas lo considerava un amico; certo: un caro, carissimo amico quasi sicuramente, ma nulla più che questo. E di certo - continuava nel silenzio dei propri pensieri - benché in realtà non glielo avesse mai chiesto direttamente, né mai glielo avesse fatto capire con dei gesti; la mente dell’elfo non si era mai azzardata ad oltrepassare quei confini di pudore che invece la sua aveva scavalcato più e più volte con gioia e rammarico, con lascivia e vergogna di sé stesso.
Aveva pensato a lui innumerevoli volte, a come sarebbe stato sentirlo mormorare il suo nome nell’attimo in cui, avvolto dalle sue braccia, gli avrebbe fatto raggiungere l’estasi…
Si chiedeva quali sensazioni l’avrebbero colto sfiorando quella pelle così morbida alla vista e quali immagini surreali l’avrebbero invaso nel baciare quelle labbra perfette.
Molto probabilmente, per il popolo degli uomini, quei pensieri che si sorprendeva a fare nei confronti di un altro appartenente al genere maschile, sarebbero stati considerati impudichi e contro natura, ma Estel non era soggetto a tali limitazioni mentali poiché era stato cresciuto e allevato dagli elfi. Presso di loro aveva imparato che l’amore è libero da pregiudizi e vincoli di sorta e che è dell’essenza di una persona che ci si innamora, indipendentemente dalla parentesi rappresentata dal corpo.
E così non si dava pace e l’immagine di Legolas e del suo corpo nudo abbracciato al proprio lo tormentavano in continuazione. Persino in sua presenza si era ritrovato sin troppe volte a doversi inventare su due piedi una qualche scusa abbastanza convincente quando, risvegliandolo dai propri sogni ad occhi aperti, l’elfo lo fissava con un moto di genuina curiosità impressa sul volto.
E allora si sentiva un verme e diveniva preda di una vergogna profonda e angosciosa: una creatura di luce lo rispettava e gli voleva bene come ad un fratello, e lui lo ripagava coi suoi pensieri indegni…
 
“Sei particolarmente silenzioso questa sera mellon nin…qualcosa turba il tuo spirito?”
 
Ancora una volta fu di nuovo l’elfo a distoglierlo dalle sue elucubrazioni.
 
“Las…” iniziò il ramingo con voce malferma “C’è qualcosa che devo dirti…”
 
 “Lo so.” Rispose il principe continuando a far rimbalzare alcuni ciottoli sulla superficie pacata del fiume.
 
Estel lo fissò stupito, e Legolas, anche se in realtà non lo stava guardando, poté immaginarsi l’espressione di stupore che, di sicuro, si stava dipingendo su quel viso che adorava.
 
“Lo sento da quando ci siamo visti questo pomeriggio, con più intensità di quella che ho avvertito nei giorni scorsi, e anche se tentavi di nasconderlo, ho percepito le tue sensazioni nella mia mente e…” esitò, come se cercasse in fondo alle viscere il coraggio di pronunciare quelle parole, ma fu solo un brevissimo istante “nel mio cuore, come fossero le mie…”
 
“E…sai già cos’è che devo dirti?”
 
Legolas, continuando a dargli le spalle, si limitò ad annuire.
Il ramingo tremò.
 
“Io vengo con te Aragorn” sentenziò con voce di re, e prima ancora che l’uomo potesse replicare, continuò “tentare di farmi desistere sarebbe un mero spreco di parole.”
 
Fu così che quella stessa notte si abbandonarono senza più freni all’amore e all’attrazione che sentivano l’uno nei confronti dell’altro, decidendo di smetterla di continuare a sfuggire ciò che entrambi avevano provato nel rivedersi, e che si era fatto col tempo sempre più insistente, incontrollabile, bruciante.
In seguito, molte altre notti si susseguirono a quella, trasformando qualunque luogo in cui si trovassero in templi d’amore infinito e altari di passione e desiderio sfrenati; mentre la frescura della sera si faceva più incandescente del ferro appena battuto e più bruciante dei raggi di sole in piena estate.
 
Il giorno prima di lasciarsi Bosco Atro alle spalle, circondati dalla magica atmosfera di una radura colma di fiori di ogni tipo, l’uomo e l’elfo si giurarono amore eterno, suggellando la loro scelta invocando la benedizione dei Valar, affinché niente e nessuno potesse spezzare, da quel momento in avanti, il legame che li avrebbe vincolati…nemmeno la morte…
 
“Sono solo un uomo Legolas, ma per quello che questo nome possa valere, giuro di restarti vicino e di amarti con ogni respiro che, in questa vita, mi verrà ancora concesso. Ti amo principe di Bosco Atro e che con te accanto il mio destino si compia.”
 
“I Valar non avrebbero potuto farmi dono più grande del tuo amore, futuro re degli uomini. A te dono la mia immortalità, poiché essa, senza di te, non ha più alcun senso. Che il mio destino possa compiersi accanto al tuo; che la tua ora possa coincidere con la mia. Adesso e per sempre, io ti amo Aragorn.”
 
Molti furono gli anni che trascorsero da quel giorno e l’eterno amore che si erano giurati crebbe a dismisura; un amore talmente potente da risultare sconosciuto ai più delle creature viventi.
E giunse infine, per Strider, anche il tempo di fronteggiare il destino per cui era nato: nove furono i compagni scelti da Re Elrond per formare quella che venne chiamata La Compagnia dell’Anello: la guerra contro il Male risvegliatosi a Mordor ebbe finalmente inizio.
Innumerevoli furono le peripezie e le difficoltà che si ritrovarono ad affrontare, ma Aragorn di Gondor e Legolas di Bosco Atro sapevano di poter contare su quel paio d’occhi sempre vigili e attenti a guardarsi l’un l’altro le spalle. Forti di questa sicurezza combatterono alla stregua delle forze e della volontà, senza mai perdersi d’animo, anche in quei momenti in cui ogni speranza sembrava venir meno, poiché la disperazione veniva spazzata via dalla potenza di abbracci febbrili che avevano il potere di donare nuovo vigore e solido appiglio allo spirito piegato dalla devastazione e dalla violenza.
E infine le tenebre si diradarono, l’Unico Anello venne distrutto, rigettato nel baratro infuocato in cui era stato forgiato.
La vittoria dei popoli liberi rimarcò ancora una volta che il trionfo del Bene sul Male non è mai automatico, ma deve essere costantemente riguadagnato da ciascun individuo che, attraverso una libera scelta, decide di prender parte alla lotta.
E fu così che ebbe inizio la Quarta Era della Terra di Mezzo; una nuova era di pace in cui quel bambino che gli elfi avevano chiamato Estel, salì al trono di Gondor, divenendo Re Elessar – gemma elfica.
Con lui, una creatura appartenente al popolo della luce e insieme regnarono con saggezza per molti anni come re di uomini ed elfi.
Non tutti, a Gondor, accettarono di essere governati da due re, ma la maggior parte degli uomini ci mise molto poco ad innamorarsi del figlio di Thranduil – Stella del Mattino iniziarono a chiamarlo.
 
Ma venne infine anche il giorno in cui colui che aveva ridato nuova speranza al popolo degli uomini, si arrese allo scorrere del tempo.
 
All’interno della Casa dei Re, luogo in cui tutti coloro che l’avevano preceduto si erano addormentati in un sonno eterno; disteso sul letto di marmo che avrebbe conservato intatta la sua effige per tutte le ere a venire, come simbolo della gloria e dello splendore degli uomini, puntò i suoi occhi azzurri come il cielo d’estate in quelli bagnati di lacrime dell’elfo che amava con tutto sé stesso.
Con un sorriso malinconico, come se fosse tornato ad essere Estel, e una mano premuta su quel petto che avrebbe dovuto essere lo scrigno di un battito imperituro, gli rivolse le sue ultime parole…
 
“Lo senti amore mio? Il mio cuore batte come il tuo…ora lo so…”
Con un ultimo sforzo, sentendo il respiro venirgli meno, quello stesso respiro che, attimo dopo attimo aveva dedicato a lui, continuò “La morte non è altro che un passaggio verso un luogo e un tempo senza lacrime né dolore…non temere il dono degli uomini...la speranza è il lasciapassare verso la vera libertà...in questa vita e nell’altra io ti amerò per sempre, non dubitarne mai…” Le sue palpebre si fecero ad un tratto più pesanti, come se una forza suadente e irresistibile lo stesse avvolgendo in un abbraccio a cui sarebbe stato impossibile sottrarsi, e con l’immagine di Legolas davanti, il calore del suo petto nel palmo e del suo corpo adagiato disperatamente sopra al proprio, egli chiuse gli occhi “…addio…addio meleth nin…” e alzando una mano per carezzare quel viso splendido un’ultima volta, si addormentò per sempre.
 
Quando essa scivolò via senza più vita, l’elfo spalancò gli occhi e trattenne il respiro. Uno spasmo violento allo bocca dello stomaco lo colpì con la forza di un pugno e una fitta di dolore devastante gli attraversò l’intero corpo, mandando in frantumi il suo cuore e spegnendo con un solo soffio tutta la luce che aveva emanato sin dalla nascita; lasciandolo gelida statua di marmo illuminata soltanto dal tenue bagliore delle candele accese tutt’attorno.
Le sue iridi persero per sempre il blu oltremare che le aveva contraddistinte fino a quel momento, tramutandosi in un colore più freddo e opaco del ghiaccio, incapaci persino di piangere ancora. I suoi capelli, una volta splendenti come oro illuminato dal sole, divennero lisci fili d’argento.
Completamente svuotato di vita, sentimenti, raziocinio, qualunque cosa potesse avere un senso; si era trasformato in niente: un pallido involucro contenente il nulla totale, se non il dolore lacerante che inesorabilmente soffocava il suo spirito.
Con un ultimo barlume di ragione, egli capì che il suo destino si stava per compiere; quello stesso destino che aveva scelto e al quale ora anelava disperatamente, con tutte le poche forze che gli erano rimaste. Stava morendo: la vita degli eldar lo stava abbandonando e la morte degli uomini stava infine sopraggiungendo su di lui. Aveva donato sé stesso ad uno di loro e gli aveva giurato amore eterno, ed ora che la sua unica ragione di vita non c’era più, la sua immortalità se ne stava andando via con lui.
 
Le labbra si incresparono di un sorriso spento a quel pensiero e stendendosi completamente sul corpo senza più vita di colui che aveva amato e che avrebbe continuato ad amare per sempre con un’intensità disperata, attese la compiuta del suo destino ultimo.
Una mano ancora posata sul petto di Aragorn, dove il cuore aveva smesso di scandire i suoi rintocchi; l’altra se la portò sul proprio, dove il suo di cuore stava man mano rallentando la sua corsa.
 
“Si Estel, lo sento…batte come il tuo…”
 
Ancora un battito…
 
E Legolas si accasciò sul corpo inerme del suo compagno.
 
Un altro ancora…
 
E posando le proprie labbra su quelle spente del Re di Gondor, con un ultimo, dolce bacio, suggellò la promessa contenuta nelle ultime parole che riuscì a mormorare…
 
“Ora e per sempre, io ti amo…”
 
E ancora uno…
 
“Aspettami…”
 
Giacque immobile, mentre montagne di ricordi indefiniti si accavallavano veloci nella sua mente. Reminiscenze di millenni passati, infiniti e inafferrabili come il vento, spazzati via da un unico ricordo che prese il sopravvento su tutto il resto; l’unica cosa che avesse mai avuto realmente importanza.
 
Il ricordo della voce di un bimbo dai tratti insolitamente elfici e due grandi occhi azzurri come il cielo d’estate, troppo malinconici per essere quelli di un bambino di soli otto anni.
 
“…Estel”
 
Tutto ciò che era rimasto del suo lungo, lunghissimo ieri.
 

All that’s left of yesterday…

 
Poi, più nulla. E altrove, una luce abbagliante...



Fine

  
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