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Autore: Cali F Jones    24/01/2013    3 recensioni
[New York, 1932]
Arthur Kirkland è un giovane scrittore inglese in piena crisi creativa, recatosi negli Stati Uniti per il funerale di un suo prozio. Una sera, vagando per le strade della metropoli, si ritrova in un locale ed assiste ad un concerto jazz. Rimane immediatamente abbagliato dal talentuoso sassofonista, un diciannovenne americano che sogna di sfondare nel mondo della musica, di nome Alfred F. Jones. Arthur ritroverà nel ragazzo l'ispirazione e avrà occasione di riscoprire i propri valori.
Genere: Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Note dell'autrice.

Salve a tutti! Allora comincio con il dire che questa è una storia un po' particolare con la quale darò sfogo alla mia vena jazzista. La coppia è sempre l'UsUk perché loro due sono sdkhfjhkfdsfkj ♥
È ambientata a New York, nel 1932, in pieno periodo della Grande Depressione. Il titolo adesso sembra avere un significato, ma alla fine capirete il vero senso di tutto. Sì, è una di quelle storie in cui bisogna arrivare alla fine per capire. Spero di arrivarci, alla fine. Anzi, devo. Perché ho già ricevuto minacce di morte da una persona che, già che ci sono, ringrazio per farmi da beta-reader, ovverossia la mia Amarantola che è una ruffiana e paracula, ma che mi ama alla follia e che ucciderò se non mi risponde alle role ♥
Ok, detto questo, posso lasciarvi alla storia. Buona lettura, spero vi piaccia!
Cali~


{Chapter 1.}


C'era una cosa che Arthur Kirkland odiava dei funerali. Non era il vestirsi di nero, il partecipare ad una patetica messa od assistere ad altrettanto patetici pianti di parenti e congiunti. Non era nemmeno la consapevolezza di avere un cadavere, che di lì a poco sarebbe diventato mangime per vermi, a pochi metri di distanza. No, ciò che Arthur Kirkland odiava dei funerali era la lettura del testamento.
La famiglia Kirkland era quella che, normalmente, si definirebbe un branco di avvoltoi. Ma le loro fattezze umane e la completa mancanza di un piumaggio naturale precludevano già questa classificazione. In fondo, nemmeno l'anziana zia Berenice con il suo naso aquilino e le sue pellicce sgualcite riusciva a guadagnarsi quel nome. C'era ancora quell'insignificante dettaglio che insisteva prepotentemente ad inserirla nella categoria "esseri umani", anziché in quella "animali".
Arthur Kirkland non era poi diverso dal resto della sua famiglia. Quale ragione aveva, se non l'eredità, di lasciare la sua amata villetta a schiera in Baker Street, a Londra, per recarsi dall'altra parte dell'Oceano Atlantico, nella caotica metropoli newyorkese, al funerale di un suo prozio che aveva visto solo un paio di volte in tutti i ventitrè anni della sua vita? D'altronde, egli viveva unicamente della propria scrittura e da qualche mese a quella parte era caduto nel famigerato e cosiddetto "blocco dello scrittore".
Erano già passati tre anni da quando quella crisi finanziara aveva mandato sul lastrico i mercati di tutto il mondo. Grande Depressione, la chiamavano gli economisti. Chissà se e quando sarebbe finita.
Per il momento, quell'eredità era l'unica fonte di denaro in cui potesse sperare.

Camminava a passi leggeri per le strade della città, perdendosi, di tanto in tanto, ad ammirare il paesaggio, come alla ricerca di ispirazione. Ma come poteva trovare l'ispirazione in un luogo così finto? Era una vasta landa di cemento e null'altro. Come potevano chiamarla "la terra della Libertà", se di terra, in quel posto, non ve n'era?
Arthur sospirò sconsolato, mentre proseguiva lentamente, diretto in nessun luogo particolare. Il pomeriggio, passato nell'ufficio del notaio, era stato fin troppo burrascoso. A quanto sembrava, il vecchio prozio Henry aveva parecchi scheletri nell'armadio che tutti pensarono di tirare fuori in quell'occasione. Eppure la parola "avvoltoi" sarebbe calzata così bene ai Kirkland.
Infilò una mano nella tasca del suo trench di Burberry e ne estrasse una scatolina in metallo, contenente le sue fide sigarette e fiammiferi. Provvide ad accendersene una, mentre abilmente, con lo sguardo fisso a terra e la mente completamente persa in intricati grovigli, scansava i passanti sempre meno frequenti.
Quando si accorse di non star più incrociando anima viva da qualche minuto, alzò lo sguardo e si guardò intorno. Gli imponenti edifici del centro apparivano ormai più lontani e tutt'attorno vi erano solamente villette a schiera in mattoni color creta, dal decisamente pessimo gusto estetico. Scrutò con attenzione quel luogo, riconoscendo ai lati del marciapiede le sagome rannicchiate di alcuni mendicanti. Si strinse maggiormente nel suo trench, sentendo un brivido freddo, causato più dalla paura che dalla leggera brezza serale, percorrergli la colonna vertebrale. Quel posto lo inquietava, lo metteva a disagio; in altre parole, poteva dire con certezza che i bassifondi di una metropoli americana a lui sconosciuta non sembravano il luogo ideale dove passare una serata in compagnia, per quanto raccomandabile essa potesse essere.
Accelerò il passo. Il tacchettìo delle sue scarpe risuonava tutt'attorno, mentre dalle case dimesse e disadorne provenivano pianti di bambini e urla esasperate di mogli e mariti intenti nell'ennesimo litigio. Era paradossale come quelle grida risultassero così familiari alle orecchie di Arthur. Egli proveniva da una famiglia ricca e benestante -quel tanto da potersi permettere di fare lo scrittore a tempo pieno-, ma non poteva dirsi veramente felice o soddisfatto della propria sorte. I dissapori emergevano in ogni occasione, anche ad un semplice incontro per il tè delle cinque, e i litigi erano all'ordine del giorno. Alla fine, per quanto la ricchezza fosse ostentata, nascosta o semplicemente inesistente, ogni famiglia infelice era infelice a modo suo.
Ad un tratto, un rumore improvviso fece fermare e voltare l'inglese. Una porta si aprì ed una donna di colore uscì di casa strillando e trascinando per un braccio un bambino in lacrime. Un uomo li seguì di corsa, afferrò un braccio della donna, iniziando a strattonarla con poca grazia. Questa cadde a terra, sbattendo violentemente la testa. L'uomo le si avventò addosso a pugni chiusi. Il bambino guardava la scena, piangendo più forte che potesse e Arthur correva. Come potevano gli uomini arrivare a certi estremi di pochezza, a manifestare così apertamente la propria animalità davanti agli occhi innocenti di un bambino? Quale miseria poteva spingere un uomo a tanto?
Arthur correva a perdifiato, i suoi respiri affannati riempivano l'aria circostante. Svoltò in un vicolo stretto ed umido, impregnato di un odore nauseabondo. Fu un attimo in cui perdette l'equilibrio e cadde in ginocchio, con un tonfo, in una pozza di acqua stagnante e maleodorante. Lentamente ricominciò a riprendere fiato. Il suo petto si alzava e si abbassava a ritmo con il suo respiro che, poco a poco, andava a regolarsi e tornare nella norma. Fu solo in quell'istante che la sua attenzione fu catturata da una luce ronzante in fondo a quel vicolo. Era un'insegna di un vivo colore rosso sopra una porta in legno d'ebano, difficilmente visibile. Alcune lettere non erano illuminate, ma, avvicinandosi potè leggere al meglio il nome del locale.
"Baker Street".
In quel momento, nella mente di Arthur, già di per sè fin troppo complicata, si accavallarono una serie di supposizioni e sillogismi intenti a dare una spiegazione logica e razionale a tutto quello. Poteva essere solo un caso che, vagando in una città sconosciuta, in tarda serata, fosse capitato davanti ad un locale che portava il nome della strada in cui abitava a Londra? L'inglese non credeva nel destino, ergo accettò che si trattasse di un caso ed entrò.
Il locale si presentò ai suoi occhi come un piccolo ambiente scuro di cui risultava addirittura difficoltoso mettere bene a fuoco i contorni. L'arredamento era piuttosto sobrio, qualche fotografia appesa alle pareti e una serie di luci vermiglie sembravano voler riscaldare maggiormente l'atmosfera. Un lieve torpore invase l'inglese, facendolo precipitare in una strana sensazione di benessere, così antitetica a quella provata poco prima in quel vicolo. Al centro del locale erano posizionati dei tavolini dalla forma rotonda, sopra ognuno dei quali bruciava una candela dalle tinte anch'esse rossastre. Sulla sinistra, appena varcata la soglia, si trovava il bancone, dove il barman preparava elaborati drink per i suoi clienti, mentre, sulla destra, v'era un piccolo palcoscenico. A dire il vero, non vi era nulla che lo caratterizzasse come tale, se non un microfono e una batteria in un angolo, o che lo tenesse separato dai tavoli, essendo il locale piuttosto piccolo e lo spazio ristretto.
Arthur si sfilò il trench e si avvicinò al bancone, per poi sedersi su uno sgabello ed ordinare uno scotch. Quella sera aveva assolutamente bisogno di bere; avrebbe esagerato fino a farsi esplodere il fegato. Dopo tutto ciò che aveva passato, decise di concederselo. In qualche assurdo modo, poteva dirsi nuovamente a casa.

  
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