Serie TV > Tokyo Dogs
Ricorda la storia  |      
Autore: Hi Ban    24/01/2013    0 recensioni
[Tokyo DOGS]
Il sensei americano si era lamentato perché, come suo solito, voleva dimostrare al mondo di poter stare sveglio anche sedici giorni di fila senza battere ciglio, ma alla fine era crollato addormentato sul divano, mentre faceva finta di leggere un paio di rapporti inutili che servivano solo a dare l’impressione che stesse facendo qualcosa. Doveva per forza dimostrare di essere più attivo di Maruo, che nell’esatto momento in cui gli era stata data la lieta novella aveva abbracciato un paio di colleghi nelle vicinanze e se n’era andato senza problemi. Arrivato a casa si era messo tranquillamente in mutande e si era dato alla pazza gioia giocando alla wii.
Genere: Comico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Missione di spionaggio casalingo





Kudo Maruo era un ottimo agente.
Insomma, se così non fosse stato non sarebbe stato messo a capo di un sacco delle indagini che aveva portato a compimento in maniera ottima e di certo non lavorerebbe ancora a Tokyo come membro delle investigazioni speciali.
E poi gli avevano assegnato come partner il sensei americano, quella era la prova schiacciante della sua infallibilità come agente, non c’erano altre spiegazioni. Lo avevano affiancato a lui semplicemente perché Takakura So aveva bisogno di qualcuno che gli facesse capire come si lavorava a Tokyo. E no, a Tokyo non si lavorava come a New York, nossignore.
Se c’era una cosa di cui Maruo era certo era proprio questo e, come si diceva, l’importante era crederlo. Che poi il capo glielo avesse appioppato perché sperava che So potesse mettergli la testa a posto era un altro paio di maniche: occhio non vede, cuore non duole.
Comunque, in quel momento, mentre si scapicollava tra uno sportello e l’altro della cucina in cerca di una ciotola, Kudo Maruo teneva ben in mente che prima di essere un ottimo agente di Tokyo era stato un membro di una grande e forte famiglia. La sua banda, quella che aveva lasciato sostanzialmente nella mani di Shigeo, perché nelle sue avrebbe dovuto finire con l’arrestarli tutti – da agente che fosse o no non aveva ancora capito cosa ci fosse di male a dipingere uno o due muri, a scazzottarsi tra un vicolo e l’altro, cose del genere.
Shuchou, santo cielo!, lo chiamavano presidente! No, quella non era una cosa che si poteva ignorare, ce l’aveva nel sangue, era più potente perfino dell’avere una pistola tra le mani – e ancora, non capiva perché non potesse girare con una pistola anche se non era un agente, gli sfuggiva proprio.
Beh, lui non sarebbe mai stato solo agente o solo membro della sua famiglia-banda, al massimo poteva essere un po’ più uno o un po’ più l’altro, a seconda dei giorni.
Ecco, ecco, quel giorno era più ‘presidente’ che agente Kudo Maruo, non era forse perfetto così?
Ah! Aveva trovato quella dannata ciotola: Yuki aveva un ordine tutto suo con cui disponeva la roba, visto che lui la cucina la vedeva raramente da vicino, dal momento che sapeva cucinare sì e no un uovo, non sapeva dove mettere mani. Ma finalmente l’aveva trovata, nessun problema.
Intanto, dal minuscolo soggiorno – che poi era anche la sala da pranzo, ma dettagli – il respiro di So si stava facendo via via più pesante. Se si metteva a russare lo soffocava con il cuscino, non poteva sopportare di sentire quell’inquinamento acustico, gli sarebbero sanguinate le orecchie.
Tentando di fare meno rumore possibile, Maruo aprì l’acqua e iniziò a riempire la ciotola. Era pressappoco una tradizione, quella della bacinella d’acqua fredda, c’era poco da fare. Shige non glielo avrebbe mai perdonato se avesse lasciato scappare un’occasione del genere e sì, il momento era davvero perfetto.
Yuki era fuori, scortata da mezza squadra esecutiva del dipartimento di Tokyo, dal momento che il capo voleva che lui e So – ovvero il migliore agente e So, giusto per essere precisi – si prendessero una giornata di riposo, viste le ultime situazioni in cui si erano venuti a trovare. Il sensei americano si era lamentato perché, come suo solito, voleva dimostrare al mondo di poter stare sveglio anche sedici giorni di fila senza battere ciglio, ma alla fine era crollato addormentato sul divano, mentre faceva finta di leggere un paio di rapporti inutili che servivano solo a dare l’impressione che stesse facendo qualcosa. Doveva per forza dimostrare di essere più attivo di Maruo, che nell’esatto momento in cui gli era stata data la lieta novella aveva abbracciato un paio di colleghi nelle vicinanze e se n’era andato senza problemi. Arrivato a casa si era messo tranquillamente in mutande e si era dato alla pazza gioia giocando alla wii. So ora se la dormiva beato, completamente steso – e a malapena ci stava con il suo dannato metro e ottanta –, i fascicoli sul tavolino e una mano che penzolava giù dal divano.
Non poteva proprio lasciar correre, doveva prendere quella dannata bacinella e mettergli la mano dentro, così quel perfettino dell’agente newyorkese in giacca e cravatta si sarebbe fatto la pipì addosso e addio aria da ‘io sono So e so tutto’. Non poteva sapere che proprio in quel momento Maruo stava progettando un alleggerimento della sua vescica last minute.
Mentre faceva del suo meglio per non fare nemmeno il minimo rumore, si chiese vagamente com’era che funzionava la cosa dell’acqua fredda che faceva far la pipì involontariamente.
Se lo chiese con un po’ più di interesse per la prima volta nella sua vita, tanto che si fermò in mezzo alla stanza, il contenitore blu che a momenti traboccava di acqua gelida.
Non ne aveva davvero la più pallida idea.
Fece spallucce e riprese a muoversi lentamente; lo avrebbe chiesto al sensei una volta che si fosse svegliato, lui sicuramente lo sapeva.
Si inginocchiò lentamente a terra e fece scorrere la bacinella fin sotto la sua mano; si era messo in modo che il braccio penzolasse solo dal gomito in giù, perciò non arrivava ancora a toccare dentro l’acqua, o come minimo solo la punta del medio la sfiorava leggermente.
Dannato americano perfezionista, nemmeno un braccio ben steso sapeva mettere?
Ma lui era Kudo Maruo, di certo non si faceva spaventare da quisquilie del genere: ce la metteva lui la mano di So dentro, perché era davvero uno spreco lasciar perdere proprio ora che aveva trovato pure la bacinella. Aveva anche spento il gioco alla wii e stava vincendo, il che voleva dire che era una cosa seria se chiudeva tutto solo per fargli fare la pipì.
Gli prese la mano toccandolo il meno possibile: il ragazzo sembrava avere radar in tutto il corpo, se gli toccava meno del venti percento della sua mano con meno del venti percento della sua magari non si svegliava e non gli piantava una pallottola in mezzo agli occhi.
Riuscì a spostarlo con più semplicità di quel che aveva creduto, evidentemente da addormentato era meno seccante che da sveglio. Perché non si presentava da addormentato tutti i giorni al lavoro? Avrebbero lavorato sicuramente meglio entrambi.
Era davvero concentrato, in quel momento, Maruo: probabilmente nessuno lo aveva mai visto così preso da qualcosa. Aveva la lingua stretta tra i denti, in un brillante tentativo poco sensato di fare meno rumore mentre respirava.
E se per caso il sensei avesse pensato che c’era un assassino che voleva ucciderlo facendolo sbranare da un cane che ora gli stava respirando molto vicino? So si sarebbe svegliato e lo avrebbe fatto diventare un colabrodo: possibile che in America risolvessero tutto con le pistole, che si trattasse di uccidere un fuggitivo o aprire una scatola di fagioli?
Finalmente la mano entrò nell’acqua, che era davvero fredda, segno che aveva fatto un ottimo lavoro. Non la spinse giù tanto da fargli toccare il fondo ma abbastanza affinché ci entrasse fino a metà palmo, se non di più.
Ora doveva solo aspettare che se la facesse addosso.
Sarebbe stata una grande soddisfazione, altroché. Yuki lo avrebbe amato nei giorni a venire per il modo in cui aveva smascherato il freddo e stoico So Takakura, ne era certo. Lo avrebbe sposato seduta stante e sarebbero vissuti tutti felici e contenti, si sarebbero trasferiti su un’isola deserta, al diavolo le indagini e tutto il resto, poi…
Mentre fantasticava sulla sua futura meravigliosa vita, giusto un tantino poco fattibile e molto irreale, Maruo si accorse appena in tempo che So aveva spostato la mano, evidentemente non apprezzando il freddo dell’acqua.
Senza pensarci due volte, con la grazia di un elefante, la riafferrò e la rimise nella bacinella, giusto forse con troppa foga, infatti per poco non piantò un urlo lui stesso quando So gli afferrò il braccio con altrettanta forza.
Maruo chiuse gli occhi e non si mosse.
Ora lo ammazzava, gli piantava una pallottola nel cervello, non aveva nemmeno dato a Shige il suo testamento…
Le cose andarono in maniera leggermente diversa. Con calcolata lentezza, il ragazzo aprì lentamente gli occhi e si rese piacevolmente conto di non avere un buco che gli attraversava la testa da parte a parte e non era nemmeno coperto di sangue. Era vivo, cosa che lo rese discretamente contento.
Il polso, però, era ancora chiuso nella ferrea morsa di Takakura So, che poi a vedersi non dava l’aria di essere uno che aveva tutta quella forza, ma forse lui al mattino non faceva colazione con i cereali come Maruo, magari andava avanti a latte e steroidi. Il brillante agente di Tokyo prese mentalmente nota di seguire le abitudini alimentari del collega.
Alzò lentamente la testa per portare la sua attenzione sul sensei e rimase un po’ interdetto quando lo trovò ancora addormentato. Dormiva, aveva gli occhi chiusi, ecco perché non gli aveva ancora detto nulla.
Non si spiegava, però, il perché continuasse a tenere il suo polso. Era stato uno scatto involontario, ma perché, sempre involontariamente, magari non glielo lasciava?
Maruo fece un respiro profondo, tentando comunque di non muoversi più di tanto: e se per caso, sempre involontariamente, gli scattava la mano alla pistola?
Ok, non era successo nulla di che, poteva uscire anche da quella situazione, nulla di impossibile per l’invincibile Kudo Maruo. Se non fosse stato che So gli teneva il braccio destro e spostando il sinistro avrebbe fatto muovere tutto, si sarebbe lisciato il pizzetto come faceva di solito.
So una volta gli aveva detto che sembrava un imbecille quando lo faceva, ma lui non poteva capirle certe cose.
«Ok» bisbigliò con calma, mentre tentava alla bene e meglio di fargli mollare la presa. Spostò il braccio un po’ più verso di sé, ma ebbe come risultato solo quello di fargli stringere la presa. Che diavolo si stava sognando, di strangolare un pollo a mani nude?
Ritentò un altro paio di volte, ma dal momento che non voleva che l’unica soluzione possibile fosse andare via lasciando il braccio al sensei, decise di dargli un colpo secco e riprendersi il suo arto dolorante.
Se si fosse svegliato e gli avesse chiesto che cosa faceva inginocchiato per terra con una bacinella gli avrebbe potuto rispondere che stava lavando il pavimento a mano, per dargli più brillantezza, o che stava vomitando i takoyaki andati a male di due giorni fa.
Tutto nella norma, perciò.
Decise di contare fino a tre. Cioè, da tre fino a uno. Allo zero, quando diceva zero, tirava, sperando non fosse l’ultima cosa che si ritrovava a fare nella sua favolosa vita.
«Tre… due… un– oh cazzo» era stato quasi certo pure lui che alla fine della conta dovesse esserci uno zero, ma anche un’imprecazione scurrile andava bene, evidentemente.
Non finì mai di contare non perché fosse divenuto momentaneamente analfabeta, ma perché Takakura So aveva bisogno di uno specialista del sonno che lo aiutasse con le crisi di movimento involontario che lo affliggevano.
Infatti, So di colpo aveva strattonato il braccio del collega e se lo era portato vicino alla faccia. Ma che diavolo…
Voleva per caso fargli il baciamano? Non stava sognando di ammazzare un pollo tirandogli il collo? Che problema aveva con i pennuti?
No, teneva la sua mano premuta contro l’orecchio, senza fare altro. La posizione, tra l’altro, non era propriamente comoda, vista che da inginocchiato aveva dovuto sporgersi per assecondare gli scatti di quello psicopatico; non poteva muoversi e gli toccava stare sulle ginocchia, era quasi sicuro che ci fosse qualche nervetto che stava per cedere.
Cosa poteva fare? Non si muoveva, non faceva niente, se non fosse che respirava poteva benissimo essere morto.
Ma Kudo Maruo sarebbe riuscito a scamparla anche in quel caso, non c’erano dubbi.
Provò a chiamarlo, magari si svegliava da solo.
«So? So~, sensei americano, ehi, tu, coso, alieno strano, ehi!» bisbigliò quella serie di parole senza senso, partendo da un tono pacato fino ad arrivare ad uno quasi irritato.
Cos’era, sordo? E se arrivava un assassino? Si faceva ammazzare perché era sordo e mentre dormiva non sentiva nemmeno qualcuno che lo chiamava a meno di mezzo metro di distanza? Altro che ottimo agente dell’intelligence americana.
«Se ti aspetti che ti svegli chiamandoti amore della mamma, beh, ti sbagli–»
Ad un tratto si mosse, stringendo la presa e muovendo le labbra come se avesse voluto dire qualcosa.
Poi parlò davvero, cosa che inquietò perfino di più il giovane agente brillante di Tokyo e via discorrendo.
«Pronto?» chiese con voce poco chiara, masticando le parole.
«Pronto?» bisbigliò di rimando Maruo, con aria scettica.
Lo stava usando come un cellulare? Davvero?
Ok, quello era inquietante.
«Cosa?» chiese ancora il sensei americano, quasi spazientito, con quel tono austero tipicamente suo.
Se non fosse stato che biascicava un po’ le parole sarebbe quasi sembrato sveglio.
«So? Ehi? Svegliati» rispose di rimando, ma non era sicuro nemmeno lui di quel che stava dicendo, infatti il tono uscì particolarmente incerto.
Ci fu un attimo di silenzio, in cui Maruo sentì l’osso del ginocchio fare un singolare ed anomalo crack che gli sarebbe costata una degenza in ospedale di almeno venti giorni.
«Ah. Ti richiamo tra cinque minuti.»
Fu come ricevere una porta in faccia, perché Maruo ebbe davvero un’illuminazione fulminante. Non che ricevere porte in faccia fosse il suo personale modo di fare pensieri brillanti, ma dettagli.
La famosa persona che chiamava sempre So durante le missioni e a cui lui diceva che avrebbe richiamato, la stessa di cui tentava di scoprire l’identità da un sacco di tempo, la stessa che continuava a rimanere un’incognita perché il sensei non voleva dire chi diavolo era a chiamare. E ora lui credeva di parlarci in sogno e Maruo era il cellulare, forse poteva davvero essere la volta buona per scoprire chi diavolo era.
Ah, quella si che era fortuna. Ok, fargli fare la pipì addosso era stata un’idea geniale, ma scoprire identità nascoste che si tentava di scoprire da un sacco era pure meglio.
Doveva essere la sua giornata fortunata senza ombra di dubbio.
Maruo si schiarì la voce, benché non avesse molto senso. Il grande investigatore Kudo Maruo, comunque, avrebbe risolto anche quel mistero.
«Ehm… no, asp–» si schiarì ancora la voce e tentò di imitarne una più femminile, perché era ovvio che fosse una femmina a chiamare. «Mh, aspetta, So, parliamo ora!» troppa enfasi, si corresse da solo.
So non rispose. Forse si era addormentato davvero davvero e lui non c’entrava più nel sogno e non poteva più interferirvi.
Sarebbe stata davvero una gran sfortuna.
Poi però rispose.
«Ora non posso» sempre di molte parole, il giovane.
Nemmeno quando si trattava di relazioni extra lavorative sapeva essere un po’ più sciolto e simpatico? Dannazione, finalmente aveva trovato qualcuno nel mondo che accettava la sua presenza e compagnia, pistola sempre carica compresa, che bisogno c’era di farlo scappare? Maruo sbuffò, provando la singolare irritazione che doveva provare ogni volta che la povera sconosciuta telefonava quel buzzurro di So. Cosa stava facendo di tanto importante proprio mentre dormiva da non potergli concedere un po’ della sua preziosa attenzione?
Non si rese nemmeno conto che forse si stava calando un po’ troppo nella parte.
«Non hai mai tempo per me!» strillò ferito nel profondo, mentre il sensei americano mostrava segni di irritazione anche da non cosciente: aggrottò la fronte e strinse la presa sul polso che fungeva da telefono.
Maruo non sapeva se darsi dell’idiota da solo o sfruttare quella sua innata capacità recitativa. Magari lo prendevano in qualche film, partiva come comparsa nullafacente e poi diventava uno dei nuovi idol del Giappone…
Fantasticare era quello che gli riusciva sostanzialmente meglio.
«Qual è il problema?» si informò in maniera parecchio scocciata So, che aveva altro da fare in separata sede, a quanto pareva.
Maruo fu sul punto di fargli una scenata isterica da ragazza messa da parte, con tanto di ‘tu non mi fai sentire importante, il tuo lavoro viene prima di me, io ti mollo!’, ma si ricordò che non voleva mettere in scena nessuna crisi coniugale, era altro quello che doveva scoprire.
«Uhm… beh… come mi chiamo?» chiese, come se fosse una cosa decisamente normale.
Beh, magari la sconosciuta anche nella realtà aveva non indifferenti vuoti di memoria, perciò anche nel sogno non sarebbe suonato strano.
«Eh?» So non lo disse chiaramente, ma Maruo interpretò così il mezzo grugnito.
«Come mi chiamo io, il mio nome e il mio cognome!» ribatté alzando gli occhi al cielo.
Quel ragazzo a volte era davvero lento di comprendonio; in un lampo di non piena funzione cerebrale, Maruo si disse che non sarebbe mai voluto essere la sua ragazza, sarebbe impazzito.
Forse prima c’era anche qualche altra motivazione per cui non voleva essere la sua ragazza, ma aveva altro per la testa, non poteva pensare a tutto contemporaneamente.
«No» sbottò e Maruo fu tentato di allontanarsi.
Che diavolo voleva dire ‘no’? Era senza nome, priva di identità?
So era tanto previdente, visto il lavoro che faceva, da scegliersi ragazze senza nome così che, se mai qualcuno avesse cercato vendetta contro di lui attaccando chi gli stava intorno, non potessero essere rintracciate?
Quel ragazzo era malato.
«Eh?»
«Ti richiamo tra cinque minuti» disse e tentò anche di chiudere la chiamata, ma era chiaro che il pollice di Maruo non era il tasto per terminate la chiamata.
«No, no, no! Come mi chiamo! Non stai facendo niente adesso, perché non mi dici chi sono?»
So non parve gradire il fatto che la chiamata continuasse ancora. Poi Maruo lo vide distendere la fronte ed emettere un sospiro a metà tra lo scocciato e il rassegnato.
Possibile che non si fosse ancora svegliato? Com’era possibile che un agente sempre così nervoso e con i riflessi pronti si fosse rilassato tanto con una dormitina sul divano da poter intrattenere un discorso e sbuffare anche? Non sapeva che tipo fosse prima di andare a New York, ma Maruo era intenzionato a credere che fosse impazzito andando in America, si rifiutava di credere che fosse così di suo.
«Mi hai chiamato solo per questo?»
Forse finalmente gli avrebbe risposto. Ancora qualche minuto, non doveva svegliarsi assolutamente o sarebbe andato tutto a rotoli.
Maruo era davvero attento a quel che faceva, ad ogni suo singolo movimento; nemmeno nelle missioni ostentava tanta minuziosità, era chiaro che aveva una scala delle priorità un tantino invertita rispetto alla norma.
«Sì, per questo, sì… è che, ehm, al momento mi sfugge» gracchiò in falsetto, mentre la tensione cresceva a vista d’occhio.
Allora, chi era la gentil donzella che si ostinava a chiamarlo ogni dì, che fosse mattina, sera o pomeriggio non aveva importanza, subendo l’inciviltà di So? Ragazza, fidanzata, moglie, ex moglie, amante, vicina di casa molto vicina, una ex pedante, una semplice amica che poteva presentargli, sua madre? Chi?
«Per me non fa differenza, è uguale» biascicò, senza disturbarsi ad aggiungere altro a quella frase insensata.
Cosa voleva dire che era uguale? Gli aveva chiesto come si chiamava e lui rispondeva che non faceva differenza, una valeva l’altra? Sembrava stesse parlando del colore del pigiama. Rosso o verde? Non fa differenza, è uguale.
Con quell’idea – fingere di essere la fantomatica sconosciuta –, Maruo voleva solo scoprire chi era, non i risvolti nascosti della vita di Takakura So. Che poi So come puttaniere ci stava esattamente come Maruo in giacca e cravatta ogni giorno e senza pizzetto.
Non ci stava proprio, ecco.
Maruo probabilmente nemmeno ce l’aveva una cravatta.
«E per me fa differenza!» sbottò di rimando, ancora mezzo scioccato dall’uscita del collega. «Qual è il mio nome?» ripeté per l’ennesima volta, senza però credere anche solo per un attimo che la scoperta di quel nome non valesse tutto quel casino.
«Quello che preferisci, scegli tu» disse con fare sbrigativo, evidentemente era ancora ansioso di chiudere la chiamata e tornare alla sua missione di spionaggio in un pollaio.
Sicuramente là c’erano un sacco di tacchini mafiosi. Dannazione, perché non poteva dirgli semplicemente il nome? Lo stava facendo impazzire, i suoi pensieri stavano diventando sempre più insensati e il brillante agente di Tokyo Kudo Maruo non aveva mai pensieri insensati.
«Ma…! Sensei, dimmi ‘sto cacchio di nome, accidenti!» tanta era l’indignazione per la risposta a lungo negata che si era irritato lui a tal punto da dimenticarsi di essere la fantomatica ragazza che chiamava So ed era tornato Maruo, con una voce non proprio femminile. Ed era quasi certo che la giovane non lo chiamasse sensei, ecco.
«Ops…» bisbigliò quando se ne rese conto, ma ormai il danno era fatto.
Attese una risposta dal collega.
«Non chiamarmi So chan» borbottò e la presa si allentò leggermente sul suo polso.
So chan? Maruo rimase vagamente interdetto e non disse nulla.
«Io non ti ho chiamato So chan» rispose, senza contare che contraddire una persona addormentata era tutto tranne che furbo e logico.
In più, era già pericoloso contraddire So da sveglio, mentre dormiva poteva benissimo essere pure peggio.
«Ti richiamo tra dieci minuti» ah, prima erano cinque. Lo stava scaricando?
Maruo scosse la testa, tentando di ritornare in sé; era chiaro che stava impazzendo.
«No, So chan, dimmi il mio nome!» forse se lo chiamava così otteneva una reazione diversa.
«Devo andare, a dopo Oka–» Maruo trattenne il fiato per la tensione, mentre attendeva che terminasse il nome.
Non aveva ottenuto granché, solo il nome e nulla più, ma vista la situazione era già tanto. E poi già con un nome poteva fare tanto, come ricattarlo. Certo, So poteva ucciderlo nel sonno se lo ricattava, ma Maruo avrebbe saputo fare buon uso di quell’informazione.
Oka… Oka… Okaaaaa cosa?
Sarebbe stata sicuramente una buona informazione da cui partire se solo fosse giunta alle orecchie di Maruo o se fosse direttamente uscita dalla bocca di So.
Peccato che non accadde né una né l’altra cosa.
Ad un tratto, infatti, So tacque di botto e Maruo ebbe appena il tempo di accorgersi che il sensei americano aveva gli occhi spalancati fissi su di lui. Probabilmente nell’arco dello stesso nanosecondo So si tirò su a sedere continuando a tenere il polso di Maruo, che gli torse fino a farlo cadere completamente per terra a pancia in giù per il dolore. Come se lo stesse arrestando, l’agente newyorkese gli premette la mano sulla schiena e non lo fece esattamente con gentilezza e garbo.
Maruo a sua volta non strillò esattamente con mascolinità e dignità.
Se qualcuno fosse entrato dalla porta in quel momento si sarebbe trovato davanti una scena che avrebbe preferito non vedere mai in vita sua.
«Ahia, ahia, scusa, lasciami!» borbottò in maniera sconnessa Maruo, che temeva di sentire da un momento all’altro il suono del grilletto che veniva premuto.
Lo avrebbe ucciso, non c’era ombra di dubbio.
«Che cosa stavi facendo?» chiese con gelida furia, mentre continuava a tenerlo premuto contro il pavimento, senza allentare nemmeno di un po’ la presa. Appena svegliatosi, So non aveva realizzato immediatamente chi era, infatti la mano era corsa alla pistola. No, non la toglieva nemmeno per fare un pisolino.
«Ahi, non sono fatto di ferro, fai male!» tergiversò lui, che era in cerca di qualcosa di vagamente sensato da dire. Al momento usare le scuse di prima, sia quella del pavimento che quella dei takoyaki, era un po’ inutile visto che non aveva la mano nell’acqua ma vicino alla sua faccia.
«Cosa stavi facendo» questa volta la frase non aveva nemmeno più l’intonazione di una domanda, sembrava solo un’informazione che ci teneva a sapere prima di affogarlo nella bacinella lì di fianco.
«Stavo… Io… la bacinella, volevo lavare… poi tu…» una risatina nervosa interruppe il suo triste monologo di spiegazioni che non sembravano voler portare da nessuna parte. Se ne accorse anche So, che smise di vedere Maruo come una vera minaccia – troppo idiota per esserlo – e lo lasciò gradualmente andare.
«Smettila di fare cose idiote, avrei potuto spararti» lo informò So con fare irritato, mentre Maruo si rimetteva velocemente in piedi. Non gli diede particolarmente retta, come suo solito esagerava.
«E la prossima volta lo farò» e Maruo era certo che al momento So era esattamente la persona più seria di tutto il Giappone, senza limitarsi ad un singolo distretto di Tokyo o alla sola città. So fece per dirigersi in cucina, mentre in salotto era calato un’imbarazzante silenzio.
Il sensei americano non aveva nulla da dire, né gli interessava sapere che diavolo stava facendo Kudo e quest’ultimo non era troppo sicuro che fosse uscito completamente dal sonno; se così non fosse stato avrebbe potuto tranquillamente sparargli.
Purtroppo per quel poco di istinto di sopravvivenza che Maruo aveva, la voglia di sapere era superiore a tutto. L’aveva pensato prima, quel giorno era più Kudo Maruo shuchou, che l’agente Kudo Maruo.
«Cosa stavi sognando prima?» gli chiese e vide So fermarsi di colpo e poi voltarsi lentamente. Forse era voluto, forse aveva ancora gli arti irrigiditi.
Lo fissava, ma non sembrava volergli rispondere e Kudo Maruo si sentiva esattamente in vena di rischiare la sua vita – sì, con il sensei americano si rischiava – per sapere giusto un po’ di più su una faccenda che non lo riguardava minimamente.
«Allora? Cosa stavi sognando, So chan?» il modo in cui lo chiamò lo fece sobbalzare appena e gli occhi di So si ridussero a due fessure.
Il sogno se lo ricordava alla perfezione, Maruo ci avrebbe scommesso; dalla faccia che aveva fatto era chiaro che temeva che lui sapesse qualcosa di troppo su quel che aveva sognato. Da quel giorno in poi Maruo non si sarebbe stupito di vederlo mentre si auto imbavagliava prima di andare a dormire.
«Che vuoi dire?» il tono era gelido e si teneva sulla difensiva.
«Il sogno, chi hai sognato di bello? O di bella?» Maruo doveva aver qualche desiderio inconscio di morte dolorosa o non si sarebbe spiegato il perché continuasse a parlare anche dopo aver visto l’espressione del collega.
«Non so di cosa stai parlando» commentò con malcelata rabbia e un’indifferenza che non reggeva nemmeno per sbaglio.
«Come si chiamava? Oka… Oka…» Maruo vide So cambiare letteralmente espressione; da irritata si fece quasi agitata.
C’era poco da nascondere, perché si faceva prendere dal panico solo per un nome? Il resto già lo sapeva, o perlomeno non gli interessava particolarmente.
«Okami» sbottò di colpo e il brillante agente di Tokyo rimase interdetto; perché glielo diceva con così tanta velocità?
«Okami…» ripeté Maruo, soppesando quella parola come fosse qualcosa di molto interessante. «Ed è…» So non gli diede nemmeno il tempo di fare un azzardo sulla tal Okami che lo interruppe: «La mia terapeuta.»
«Terapeuta» reiterò Maruo, senza mascherare la delusione e lo scetticismo.
Cosa gli stava dicendo, allora, prima la sua cara terapeuta segreta, che per lui era uguale? L’orario del loro incontro, il luogo, l’argomento di discussione, cosa?
«Terapeuta» disse ancora Maruo.
«Sì.»
«Davvero?»
«Davvero.»
Maruo non ci credeva, So non stava nemmeno sbattendo le palpebre; stava forse tentando di incantarlo o fargli il malocchio?
Ad un tratto, suonò il cellulare di So e i due colleghi presenti nella casa ebbero due reazioni diverse. So, senza sbilanciarsi troppo, spalancò gli occhi e imprecò al pessimo tempismo o qualcosa del genere, mentre Maruo saltò letteralmente per la fortuna che gli era capitata quel giorno.
So non rispose subito, lo lasciò squillare.
«Rispondi» lo incitò Maruo.
«No.»
«Magari è urgente.»
«Può aspettare.»
«Dai!»
«No.»
«Sì!»
«No.»
«Sensei!» urlò Maruo e So sbuffò, borbottando parole sconnesse a mezza voce.
Takakura poi fece finta di fissare intensamente un punto alle spalle di Maruo, un trucchetto idiota che temeva pure lui potesse non funzionare. Fortunatamente per lui, Maruo era abbastanza stupido da caderci, infatti passò giusto qualche secondo prima che si girasse e controllasse cosa ci fosse di tanto interessante alle sue spalle.
Fu allora che So rispose con gran velocità e si voltò dall’altro lato.
Non ebbe neanche il tempo di dire il fantomatico «ti richiamo tra cinque minuti», che comunque disse, ma forse nemmeno fu udito dall’altro capo del ricevitore. Maruo era già alle sue spalle che si scapicollava per poter sentire la voce della persona sconosciuta. Era pressappoco impossibile per So tenere lontano Maruo.
«Ti richiamo tra cinque minuti» disse di nuovo, sperando che la risposta fosse un semplice ‘ok, va bene, a dopo’, ma sapeva che non sarebbe stato così.
Maruo, intanto, sibilava in maniera alternata Okami e terapeuta, in attesa di qualche divino segnale.
La risposta fu una mezza risata intenerita: «So chan, sono io, è la–»
So la interruppe: «Lo so, ma ora non posso.»
Maruo smise di sibilare e vide So stringere il cellulare come se volesse farlo scomparire nel suo palmo.
La voce non era esattamente quella di una persona giovane, ma magari, essendo So una persona piuttosto matura, beh, magari cercava una persona che lo fosse altrettanto. Che fosse veramente una terapeuta? In quel caso sarebbe tornato tutto, ma non era possibile… cioè… non sarebbe stato interessante, ecco.
«Il tuo capo mi ha detto che vi ha dato un giorno di riposo, So chan, mi chiedevo se volessi venir–»
«No» sbottò immediatamente e si rese conto di aver risposto con troppa repentinità, infatti ricevette un borbottio poco convinto e si affrettò ad aggiungere: «Sì, vengo, ora. Subito, arrivo.»
Fu allora che dall’altro capo del ricevitore giunse un’altra risatina e Maruo decise che era il caso di scoprire la verità una volta per tutte.
Prese a dire il nome Okami come un mantra, solo che detto così poteva anche sembrare una litania di ‘oh, Kami’.
«Sta’ zitto» gli intimò So, ma non gli diede ascolto. Intanto, comunque, i due continuavano a scalciarsi vicendevolmente, chi per scansare chi per avvicinarsi.
«Cosa stai dicendo, So chan?»
«Niente» borbottò e ci fu un’altra risatina.
Quando ormai So credeva di avercela fatta, la donna parlò di nuovo.
«Aaaaah, ho capito, non ti preoccupare, So chan, sei un ottimo figlio, non mi intrometterò negli affari tuoi» e, aggiungendo un ‘ciao, So chan’, chiuse la chiamata davvero. La madre adesso pensava che si fosse aggregato a qualche strano gruppo di preghiera occulta?
Maruo era senza parole, la bocca spalancata e gli occhi sgranati, che nel complesso gli davano un’aria decisamente poco sveglia.
So non disse nulla, si diresse in cucina come se nulla fosse.
Kudo Maruo mise in moto la sua brillante mente da investigatore e vide il lampante collegamento tra Oka e okaasan. Non aveva terminato la parola, o avrebbe capito che non era un nome, ma mamma.
So ora gli dava le spalle, era rivolto verso il frigo, l’anta aperta e non si muoveva. Non cercava nulla in particolare, stava solo attendendo che l’idiozia di Maruo si rendesse palese a tutti per l’ennesima volta.
Ed infatti poi Maruo parlò.
«Ehi, sensei, posso chiamarti anche io So chan? Sei un ottimo figlio, un ottimo coinquilino, siamo lì» la frase si interruppe nel momento esatto in cui So si voltò con la pistola estratta, infatti Maruo piantò un urlo nuovamente poco dignitoso e si nascose dietro al divano.
So piantò una pallottola nel muro dietro di lui.
«Non chiamarmi proprio. I morti non parlano» lo freddò con una calma spettrale.
Maruo deglutì rumorosamente.
Si azzardò a parlare: «I bravi figli non fanno queste cose, So chan– oh cazzo» nel muro dietro di lui ora c’erano due buchi e davanti a lui, a dividerli solo il divano, c’era Takakura So che informava la sua okaasan che avrebbe fatto un po’ tardi.
Quando quella sera Yuki tornò a casa piuttosto soddisfatta dalla giornata appena trascorsa fece vane domande che non ottennero risposta sul perché Maruo fosse chiuso in bagno – accampamento di fortuna, aveva urlato da lì dentro – e So lo attendesse a gambe incrociate fuori dalla porta.
Per amor di pace decise di non menzionare proprio i fori di proiettile nel muro; ci avrebbero messo un quadro davanti.
«S-So chan, la mamma ti aspetta-aaaohhmmioddio» So, in risposta, aveva sparato un altro colpo, sempre intenzionato a rendere la casa un colabrodo in attesa di rendere tale il corpo di Maruo.
Quest’ultimo, d’altro canto, non stava facendo esattamente la figura sperata davanti alla ragazza, infatti vederlo piagnucolare in bagno non era molto incoraggiante.
Yuki concluse che, in fondo, non c’era scritto da nessuna parte che i poliziotti non potessero impazzire completamente. Che fossero di Tokyo o di New York non doveva importare granché.


Io amo letteralmente Tokyo DOGS, non solo perché gli attori Dio solo sa cosa, chi, come, quando e perché sono, ma perché è uno dei drama che mi ha fatto morire di più, in tutti i sensei XD Cioè, Mizushima Hiro e Oguri Shun fanno la miglior coppia di deficienti mai vista, come posso non adorarlo svesceratamente? Potevo perciò forse, io, piccola drogata di drama, non scriverci sopra e rischiare di uccidere il povero Kudo san? Il mistero di So chan e delle chiamate in mezzo alle missioni mortali andava svelato, non potevo lasciarlo irrisolto, suvvia; se solo fosse stato un drama che ne so, tipo eterno, ecco, ci sarebbe stata un’infinità di tempo per spiegare tutto!**
Il titolo è dei migliori, lo so, me ne compiaccio estremamente anche da sola, lo guardo e… e… non ho parole per descrivere la mia sensazione di disgusto, ma dopo mesi che ho scritto la storia non mi è venuto niente in mente, perciò tanto valeva lasciare questa perla di bellezza rara!*O*
Perché tutti vogliamo un poliziotto americangiappico (?) che perfino per allacciarsi le scarpe si spara sui piedi! C’entra molto, lo so, abbiate la magnanimità di ignorarmi XD
Bye!
  
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Tokyo Dogs / Vai alla pagina dell'autore: Hi Ban