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Autore: Brooke Davis24    26/01/2013    2 recensioni
1708, Altoona, Pennsylvania.
Sophie, il suo essere indomita, caparbia, fiera, spesso sfrontata ma più di tutto donna, come poche altre riuscivano ad essere a quel tempo. Incastrata da un affetto troppo grande per non essere deleterio, riuscirà a liberare il suo cuore dalle catene che tentano di soggiogarlo?
Tratto dal terzo capitolo:
"Ora che nessuno avrebbe più potuto farle pesare ciò che era, rimpianse di non averlo compreso prima, di aver versato lacrime amare per via del modo in cui era stata guardata. Non avere i genitori era sbagliato, parlare con la gente di colore era sbagliato, correre, inzaccherarsi nel fango, giocare alla guerra con i ragazzetti era sbagliato, rispondere a tono era sbagliato. Esisteva qualcosa nel mondo che, per una donna, non fosse compromettente? La risposta era giunta qualche tempo dopo la sua partenza, quando il suo cuore le aveva suggerito che, qualunque cosa avesse fatto, la gente l’avrebbe additata per il solo gusto di farla sentire fuori posto, arrogandosi un diritto che nessuno avrebbe dovuto possedere su un essere umano. Come poteva un uomo giudicare l’anima di un altro e il modo in cui essa veniva espressa senza mai averne preso visione?"
Genere: Avventura, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Epoca moderna (1492/1789)
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Mi scuso con chi mi ha letto dall'inizio ed è rimasto eventualmente deluso dall'assenza di un continuo. Lo studio, le vacanze e i miei soliti momenti di sconforto da "Non sono capace di far nulla. Che scrivo a fare?!" mi hanno impedito di completare il capitolo che avevo iniziato. Ad ogni modo, eccolo qui. Spero vi piaccia!
Buona lettura! =)



9. Il buon giorno si vede dal mattino

La notte dell’arrivo di Sophie in casa del marito aveva piovuto, aveva piovuto forte, come se il cielo si fosse improvvisamente aperto ed il suo contenuto si fosse riversato sul mondo per punirlo dei suoi peccati e, al contempo, alleggerirlo delle sue frustrazioni. Fulmini e saette si erano rincorsi tra le nuvole gonfie d’acqua e, di tanto in tanto, l’urlo rabbioso di un tuono ne aveva chiamato i nomi, nel tentativo di placarne l’euforia e mettere fine alle loro birichinate, un po’ come un vecchio insegnante che mal sopporta le scorrerie e la disattenzione dei propri scolari.
Il croscio della pioggia che si abbatteva contro le grandi vetrate aveva vagamente turbato la psiche di Sophie e strani scenari erano venuti fuori dai suoi sogni: aveva lottato contro creature dalle terribili sembianze, corso a perdifiato per i sentieri di una foresta impregnata di magia oscura e combattuto contro lo scorrere del tempo che le aveva reso quasi impossibile sfuggire ai mostri che la popolavano. Nessuno era venuto in suo soccorso, non un uomo, non un’altra donna, non il Cielo con le sue divinità. Nel vento freddo delle sue fantasie notturne, aveva gemuto, singhiozzato, trattenuto il fiato con la consapevolezza che nessuna mano avrebbe afferrato la sua per accompagnarla in quel viaggio; e la stessa sensazione aveva dominato il suo animo quando, finalmente, aveva aperto gli occhi.
Si era guardata intorno e non aveva riconosciuto un solo oggetto che le fosse familiare. Così com’ella era estranea a quella casa, lo stesso edificio pareva volerle mostrare la sua diffidenza con i piccoli dettagli che gli appartenevano e che Sophie non conosceva. Il letto in cui aveva dormito, le coperte che l’avevano protetta dal freddo, le mura che l’avevano preservata dai venti delle montagne le erano apparsi così scostanti e all’erta che, a sua volta, non aveva potuto far altro che rimanere in guardia. Aveva temuto di vederli prendere vita e osteggiare la sua permanenza con ogni loro forza, un po’ come le radici degli alberi che, nei suoi sogni, avevano tentato di afferrarle le caviglie e sbatterla al suolo.
Non era facile per lei fare i conti con quella nuova vita senza lasciarsi andare alla disperazione più assoluta: aveva sposato un uomo che non amava e, per amore di una persona che non voleva più nemmeno parlarle, aveva acconsentito ad allontanarsi dagli unici luoghi che le fossero mai stati cari, dalla sola famiglia che avesse mai avuto. A lungo, durante il viaggio interminabile che aveva reso Altoona e i suoi abitanti un doloroso ricordo, si era chiesta come avrebbe potuto confrontarsi con quella nuova realtà, da quale fonte avrebbe potuto attingere per sopportare ciò che si era imposta, se davvero il suo sacrificio fosse stato giusto nei confronti di una se stessa che non aveva mai avuto nulla. Era stato corretto costringersi ad una vita di fandonie accanto ad un individuo che avrebbe potuto essere persino peggiore delle sue aspettative?
Con le tempie che le pulsavano, era scivolata via dal letto e, accostatasi al baule che aveva portato con sé, ne aveva estratto gli abiti meno dimessi che possedeva, gli stessi a cui era tanto affezionata e che poco si confacevano ai dettami di quel tempo per una donna, maritata o meno che fosse: un pantalone, un maglione ed un gilet dotato della pelliccia d’orso più resistente che ci fosse. Quando i vestiti si erano adattati amabilmente alle forme del suo corpo e Sophie aveva rimirato il risultato allo specchio, aveva sorriso al suo riflesso con fare malandrino e aveva tentato di infondersi un coraggio che sapeva di possedere. Aveva affrontato, da che era nata, molto più di quanto avesse mai rivelato e quella non era che una prova, una sfida ulteriore per il suo animo combattivo.
Spesso le era capitato di immaginarsi in un campo di battaglia, tra le brutture e gli affanni della guerra, e, benché temerario, il suo cuore si era contratto all’idea della sofferenza di cui dovevano essere imbevute tutte quelle armi, tutti quegli individui. Terreni battuti per creare un teatro di atrocità e tragedie, dove figli di famiglie, giovani con promesse spose e gente sola perdeva la vita senza avere tempo di dirvi addio. A volte, si chiedeva cosa provassero quegli uomini nel percepire la vita scivolare via dai loro corpi, se rimanessero costretti in quell’involucro freddo disarcionato da un cavallo e ferito a morte dal nemico, se provassero tristezza o rimpianto, se sentissero già la mancanza delle persone che amavano o di quelle che avevano amato.
Ed era così che si sentiva in quel momento, un po’ come quei veterani che la guerra l’avevano nel sangue, che conoscevano le migliori strategie e avevano servito comandanti valorosi e codardi con lo stesso impeto passionale e con la stessa fedeltà. Lunghi giorni d’incertezza l’aspettavano, giorni in cui avrebbe dovuto mimetizzare le sue titubanze al pari di un soldato tra i cespugli prossimi a un campo nemico, giorni in cui i suoi modi affettati nulla avrebbero avuto a che vedere con la sagacia di cui era capace, perché, quando non si sentiva stabile, non riusciva a tirare fuori che il peggio di sé.
A differenza di quei combattenti, però, non aveva paura. Non temeva per la propria incolumità, per il proprio futuro, per la propria felicità. Aveva appreso, tempo addietro, come quella condizione di estasi cui tutti anelavano non fosse che una conquista di cui godere sul momento, senza troppe aspettative, senza sperare di trattenerla più a lungo del previsto. E lei l’aveva provata più volte, tanto intensamente da esserne stata pervasa: le era capitato di sentirsi felice durante una cavalcata, durante la lettura di un libro, quando il sole le aveva accarezzato il viso, nel bel mezzo del sonno, in una danza improvvisata, chiacchierando con Catherine, gustando uno dei piatti di Besede, ascoltando i racconti di Betty, aiutando Wyatt, rotolandosi in un prato, suonando il pianoforte…
Per Sophie, la felicità non era pretenziosa, non aveva bisogno di grandi palchi su cui esibirsi. Era come un attore novello che, egoisticamente, recita per se stesso e, senza rendersene conto, si dà al pubblico in tutta la sua fragilità, provando su un canovaccio visto e rivisto ma mai passato. Era come un vecchio destriero dalle gambe non più robuste che si abbandona ad una corsa sui pascoli per inseguire il vento e accondiscendere solo e soltanto al proprio istinto, lontano dal pensiero di dover fare ritorno in un vecchio recinto o  in una piccola stalla.
La felicità era fatta di piccoli, infinitamente delicati momenti che nulla avevano a che vedere con l’esasperazione di un risultato finalmente raggiunto, con l’incedere baldanzoso di un uomo che ha rovinato un suo simile, con il tintinnio di un sacco di monete. Quel sentimento aveva più i contorni della disperazione, dell’acredine, della solitudine, dell’impotenza: cosa può esserci di felice nel constatare quanti passaggi di un percorso ci si è lasciati alle spalle per ottenere qualcosa, senza essersi goduti il viaggio? Cosa c’è di felice nello sconforto di un altro uomo? Cos’ha di felice la fredda consistenza del metallo?
Ritta dinanzi alla grande vetrata di cui era munita la sua stanza, Sophie guardò lontano, al di là dei picchi delle montagne, e il cielo plumbeo non la rincuorò, piuttosto le trasmise uno strano senso di torpore. Osservò, sotto di lei, i primi lavoratori affaticarsi ognuno nelle mansioni più disparate e le domestiche spazzare e lavare e sistemare; contrariata, ripensò al fare servile con cui Greta le si era rivolta e le gote le si colorarono di vergogna: l’aver sposato un rampollo di chissà quale famiglia nobiliare non cambiava ciò che era e sarebbe sempre stata, un’orfanella senza possedimenti che avrebbero potuto rendere più alta la sua condizione. La imbarazzava e infastidiva l’essere trattata come una signora, perché non le apparteneva l’idea di essere considerata ciò che non era come se un matrimonio potesse cambiare l’essenza della sua personalità.
Voltandosi verso il letto, fece per accostarsi alle coperte nel tentativo di sistemarle, ma, perplessa, si costrinse ad arrestarsi, quando scorse accidentalmente un piccolo cumulo di vestiti sulla poltrona più prossima al camino. I suoi passi la condussero all’oggetto della sua osservazione e, nel momento in cui visionò l’abbigliamento e fu certa del fatto che si trattasse di indumenti maschili, un brivido le corse lungo la schiena, tanto che, quasi scottata, scagliò la camicia contro il focolare assopito e si voltò meccanicamente verso il letto: quando, un’ora prima all’incirca, aveva abbandonato il calore del letto per prepararsi alla giornata, l’aveva stupita constatare che anche l’altra metà del materasso fosse disfatta come se, quella notte, si fosse girata e rigirata a lungo in preda ad una strana inquietudine. Eppure, sin da bambina, Sophie era stata conosciuta per la tranquillità del suo sonno e, assai di rado, le era capitato di svegliarsi in una posizione diversa da quella in cui si era addormentata.
Un’ipotesi fin troppo plausibile cominciò a farsi spazio nella sua mente con la stessa prepotenza dell’indignazione e della rabbia che ribollivano nel suo petto e, prima che potesse ripensarci, spalancò la porta della propria camera e si avviò per il corridoio del primo piano, certa della propria meta. La sera prima, difatti, quando Greta l’aveva condotta nel locale che era stato preparato per le sue necessità, le aveva sommariamente indicato quali fossero le stanze vacanti e quale quella occupata dal padrone di casa; il giorno precedente, non avrebbe mai immaginato che vi avrebbe fatto ingresso di sua spontanea volontà e tanto presto, con una predisposizione d’animo che rasentava i limiti del furore, ma non fu un problema ricredersi.
Aprendo l’uscio con accortezza, s’insinuò tra le quattro mura e, nella quasi totale oscurità che ivi regnava, riuscì a distinguere il letto in ferro battuto e la sagoma che vi riposava. Con la discrezione che gli stivali di cuoio le concessero, raggiunse il grande armadio addossato alla parete di destra e, facendone schiudere le ante, raccolse tra le braccia tutti gli indumenti che riuscì a reggere. In un percorso che compì a più riprese, depositò il contenuto del mobile sul suo letto e, quando il lavoro fu terminato, si disse, soddisfatta, che quello stupido cialtrone si sarebbe amaramente pentito di aver osato tanto la notte scorsa, approfittando della sua incoscienza.
Non ci pensò su più di un istante e, spalancando la finestra della sua stanza, gettò tutti i vestiti di Carter giù per il primo piano, incurante dell’espressione attonita di una giovane cameriera che, scopa alla mano, riusciva a stento a credere ai suoi occhi. Ridacchiando soddisfatta, tornò sui suoi passi e, afferrando saldamente il secchio carico d’acqua che Greta aveva lasciato in camera, compì per l’ultima volta il percorso che la separava dalla camera padronale; senza preoccuparsi di chiudere la porta, depositò il catino sul tappeto ai piedi del letto, si accostò al bordo di questo e, con un unico strattone, privò la figura dormiente delle coperte. Poco importava che fosse nudo come un verme, che non avesse mai visto un uomo ben fatto senza l’ombra di un indumento a coprirne il pudore, perché la soddisfazione che avrebbe tratto da quella bravata avrebbe reso il rossore sulle sue gote lo stendardo della sua vittoria.
Dei passi incerti risuonarono per il corridoio e, disturbato dal freddo, Carter cominciò a muoversi nervosamente alla ricerca di qualcosa che ponesse fine a quella condizione; sicura di doversi sbrigare, prima che qualcosa interrompesse l’idillio e ponesse fine al piano che aveva progettato per rivendicare il rispetto del contratto che avevano stipulato, tornò al secchio e, issandolo fino all’altezza del ventre, pose una mano sul fondo e l’altra sul bordo per rendere più agevole il rovesciamento dell’acqua.
«Ma cosa..?» fece la voce di Greta alle sue spalle con una nota di panico nella voce, mentre un urlo si rannicchiava alla base della sua gola, pronto a venire fuori per avvertire il giovane uomo steso sul letto. Tuttavia, non fece in tempo!
In un insieme di sentimenti contrastanti e che, nonostante tutto, correvano fianco a fianco nella stessa direzione, Sophie fece scattare le braccia e, nel movimento, il contenuto gelido del catino si abbatté sulla figura di Carter, seguito, in ritardo, dal grido di sgomento dell’anziana donna. L’uomo trasalì, boccheggiò ed imprecò nel tentativo di comprendere cosa fosse accaduto, ma le sue sinapsi erano ancora troppo lente perché il suo cervello gli consentisse di trarre le somme lì su due piedi, fradicio e sconvolto com’era.
«Ben vi sta, brutto idiota zoticone!» La voce vibrante d’ira della giovane moglie pervenne alle sue orecchie molto più nitidamente di quanto non si fosse aspettato e, quando mise a fuoco la situazione, non fu difficile individuare, se non la ragione, almeno la colpevole di tutto quel macello.
«Dannazione, donna!»urlò e, rapido, si alzò dal letto, passandosi una mano sugli occhi affinché la vista gli fosse meno impedita. Con uno scatto, fece per agguantarla, ma quel demonio dalle sembianze femminili fu più lesta e, trascinandosi dietro le coperte, oltrepassò la soglia della camera e si precipitò giù per le scale; intenzionato a farle pagare quell’infelice trovata, tentò di seguirla e sarebbe anche riuscito a prenderla, se Greta non si fosse interposta tra lui e il corridoio. «Che diavolo vuoi? Spostati!» tuonò, ma si pentì quasi subito del poco riguardo alla cortesia delle sue parole. «Scusatemi, scusatemi, ho perso la testa!» la precedette e, sebbene l’espressione dell’altra fosse a dir poco contrariata, seppe di averne evitato il rancore grazie a quella tempestiva correzione.
«Se volete inseguirla, mettetevi almeno addosso questi!» Gli porse un paio di pantaloni bordeaux che non metteva da diverso tempo e Carter si chiese perché mai li avesse tra le mani. «Non credo abbiate avuto modo di notarlo, ma il contenuto del vostro armadio, al momento attuale, si trova nel giardino di casa.» lo informò e tentò di usare la massima cautela nello spiegargli la situazione. La sua prudenza, tuttavia, servì a ben poco, quando l’altro realizzò il significato delle sue parole, e il modo in cui le strappò i pantaloni di mano, divenne paonazzo e s’infilò rapidamente l’indumento le suggerì che non sarebbe stata una mattinata affatto tranquilla.
 Qualunque fosse stata la ragione che aveva scatenato le ire della giovane, Greta doveva ammettere che da tempo non vedeva qualcuno dare una bella lezione al proprietario di casa e, intimamente, si compiacque del risultato ottenuto dalla ragazza. Sembrava avesse studiato tutto alla perfezione, perché, all’infuori del lenzuolo che copriva il materasso e delle tende, non era rimasto un solo pezzo di stoffa in grado di offrire una copertura all’intimo dell’uomo, e, probabilmente se non fosse stato per lei, avrebbe dovuto cercare in lungo e in largo prima di trovare qualcosa che gli calzasse anche solo vagamente. Per allora, Sophie sarebbe stata bella che lontana!
Seguendolo nei limiti delle sue possibilità, la donna lo vide balzare giù per i gradini come una bestia assetata di sangue e, per un istante, temette le sorti della fanciulla: sebbene avesse un temperamento all’apparenza più che spavaldo, dubitava che avrebbe avuto la meglio in un corpo a corpo e non desiderava doversi intromettere negli affari di moglie e marito. Aveva già evitato qualsivoglia sorta di domanda sulla decisione di sistemare gli effetti personali di lei in una camera a parte, ma non intervenire nel caso in cui la situazione fosse degenerata le appariva più che mai insopportabile.
«Fermatevi, codarda!» le urlò dietro Carter, che, a petto nudo e scalzo, a dispetto della rabbia che stava provando, non poté fare a meno di soffrire la rigida temperatura esterna, reso ancor più sensibile ad essa dall’acqua che ancora impregnava i suoi capelli e buona parte di tutto il suo corpo. Il cielo era terso e, nonostante in lontananza si addensassero cupe, pesanti nuvole, ciò rendeva il freddo più facile a percepirsi e meno piacevole a sopportarsi. Incurante del rossore della giovane domestica che tutta intenta fingeva di spazzare, ristette a pochi metri dal portone d’ingresso alla dimora e osservò l’esile folletto pestifero che era sua moglie fermarsi e voltarsi a guardarlo.
«Ah, sarei io la codarda? O siete voi il bugiardo che viene meno agli accordi, intrufolandosi nel mio letto nel bel mezzo della notte, signore?» chiese sarcasticamente e, per la prima volta da quando era stato costretto a quel drastico risveglio, comprese la motivazione alla base di quella sfuriata. La voce di lei, vibrante di sdegno, echeggiò più volte e, pur non potendolo dire con certezza assoluta, notò il rossore delle guance accenderle il viso della selvaggia bellezza di un’amazzone.
«Mi sono perfettamente attenuto ai patti, signora. Abbiamo stabilito che non avremmo mai dormito nello stesso letto o nella stessa stanza. Sono lieto d’informarvi che non l’ho fatto…» disse e Sophie comprese, ancor prima che proseguisse, che l’inizio di quella frase avesse un’implicazione ulteriore, volta a stuzzicarla. «E lungi da me l’intenzione di venire meno alla parola data in futuro: io vorrei fare ben altro con voi in quel letto!» concluse e ben poco si curò del fatto che buona parte delle persone alle sue dipendenze stessero ascoltando quella conversazione, venendo a conoscenza delle reali fattezze della loro unione. In quel momento, l’unica cosa che desiderava era metterle le mani addosso e farle pagar caro il prezzo della sua insolenza.
«Se la mettiamo così, signore,» E, ancora una volta, insistette volutamente su quella parola come a volerlo schernire rispetto alla reale considerazione che aveva di lui. «vorrei ricordarvi che ho giurato di essere vostra moglie finché morte non ci separi, ma che nessuno ha precisato che siffatta morte non potesse essere in qualche modo provocata. Intendete?!» Le mani ai fianchi, arricciò il naso in quella maniera dispettosa che tanto lo infastidiva, mentre, tra i presenti, si levava un riso generale e il giardiniere nascondeva il volto nel cappello logoro, onde evitare che il padrone scorgesse sulle sue labbra la presenza di un sorriso molto più che divertito.
«Vorreste farmi del male?» le chiese e, benché la sua mente fosse ancora intenta a macchinare un piano per acciuffarla, non poté impedirsi di sorridere. Nessuno aveva mai osato rispondergli così a tono all’infuori di sua madre, ma era certo del fatto che, vedendolo così fuori di sé, persino lei avrebbe avuto qualche riserva sui modi con cui approcciarglisi. Lo stesso, di certo, non si poteva dire di Sophie!
«Se con ciò intendete passarvi sopra con cavalli e calesse, assolutamente sì.»
«Non vi sembra» Piano, mosse un passo in avanti e vide i muscoli di lei tendersi, a dimostrazione del fatto che non fosse una sprovveduta e sapesse bene come muoversi in simili situazioni. «di provare davvero poco affetto per l’uomo che avete sposato?»
«Come se vi avessi scelto per affetto o simpatia o che altro!» ribatté lei e, rapida, mosse due passi all’indietro, ristabilendo la distanza originaria. Detestava le situazioni d’attesa, quelle in cui gli avversari tendevano a studiarsi per comprendere dove fosse meglio attaccare; ma, in quel caso, Sophie avrebbe soltanto dovuto correre ed evitare che la prendesse e fare la preda proprio non le piaceva.
«Sapete che vi prenderò, non è vero?»
«Dovete riuscirci, prima!» sentenziò e, decisa, pose fine alla conversazione.
Con uno scatto rapido, si gettò verso sinistra e, senza curarsi di quanta distanza li separasse, cominciò a correre con quanta forza aveva nelle gambe. Agile come un felino, scansò e saltò gli ostacoli accidentalmente posti sul suo cammino e mai, neppure una volta guardò indietro o tenne conto del rumore dei passi dell’uomo: avrebbe potuto essere ad un soffio da lei, ma questo non le avrebbe impedito di spingersi fino al limite delle sue possibilità per impedirle di prenderla. Fu per quella ragione che, scorta a poca distanza la foresta, accelerò ulteriormente l’andatura e, sebbene già quasi volasse, riuscì ad allungare le distanze con Carter.
Per quanto forte e vigoroso fosse e per quanto le sue riserve d’energia potessero contare su una capienza che probabilmente Sophie non possedeva, il trentenne non poteva vantare né la stessa agilità, né la stessa velocità, né la stessa attitudine alla corsa. Nel tentativo di starle dietro, ebbe l’impressione che ogni singolo elemento della natura stesse partecipando a quell’inseguimento, rendendole più agevole il proposito di seminarlo: i sentieri parvero farsi meno impervi, il vento sembrò spingerla e alleggerirle la fuga, gli alberi scostarsi dal suo cammino e la terra supportarla ad ogni passo.
«Dannazione!» Uscì come un rantolo dalla sua bocca e le sue gambe si mossero con più rapidità e forza, riducendo la distanza che lo separava da Sophie. Corse, corse fino a sentire i muscoli delle gambe dolere per il troppo sforzo, fino che il fiato non gli si fece corto e i polmoni bruciarono nel suo petto; in un ultimo, disperato tentativo, chiese al suo corpo di sopportare quell’ulteriore prova e si spinse ai limiti della sopportazione umana.
Ad ogni passo, ad ogni spasimo, il folto della foresta si faceva più misterioso e Carter ebbe l’impressione che la ragazza divenisse immune alla fatica, che il suo incedere apparisse rilassato e i suoi nervi soddisfatti. Fu una sorpresa e, al contempo, un sollievo scorgerla fermarsi per un istante e quasi sentì la vittoria in pugno, prima che le braccia di lei si allungassero verso l’alto e sparisse tra i rami di un albero dalla corteccia ruvida e spessa. Col petto in fiamme, lo raggiunse e issò il viso verso le fronde nel tentativo di scorgere la figura della persona cui intendeva dare una bella lezione, ma rimase deluso: non solo non la vide, ma fu certo del fatto che, in un modo o nell’altro, dovesse avergli giocato un bello scherzo e che fosse ben lontana dal luogo in cui l’aveva condotto. In più punti, difatti, rami nodosi e resistenti s'incontravano ed intersecavano a formare sentieri aerei paralleli, che avrebbero facilmente permetto ad una persona agile e leggera di muoversi con tutta la liberà necessaria senza essere vista. Battendo il pugno contro l’arbusto, imprecò tra un respiro ed un altro e si diede dell’idiota per essere caduto in quella trappola, uscendo sconfitto dall’ennesimo confronto con l’altra.
«State fermo, signore!» Di scatto, Carter si volse in cerca della persona che lo aveva più volte minacciato da che si conoscevano, a volte sottilmente, a volte senza fronzoli e giri di parole. Rimase perplesso quando scorse Sophie, a qualche metro da lui, addossata ad un albero con arco alla mano, pronta a scoccare una freccia. «Non sono solita fuggire come una codarda, a dispetto di quello che possiate pensare. Mi piace affrontare il nemico e risolvere la questione una volta per tutte.»
«E cos’avete fatto finora, dolcezza?» le chiese cauto, con la consapevolezza che avrebbe dovuto muoversi con attenzione per evitare che la situazione degenerasse. Avrebbe potuto con certezza affermare che non le avrebbe torto nemmeno un capello, se l’avesse agguantata, ma non era altrettanto certo delle reazioni di Sophie e dubitava che si sarebbe creata uno scrupolo di qualsiasi tipo se si fosse sentita minacciata.
«Ristabilivo le distanze. Sarò anche impulsiva, ma non così sciocca. So bene che avreste la meglio in un corpo a corpo; mi prendo soltanto un piccolo vantaggio che riequilibri la situazione.» spiegò e Carter scorse il solito, impertinente divertimento nel modo in cui gli si rivolgeva. Lodevole!, ammise lui e istintivamente compì un passo in avanti e, poi, un alto ancora, e un altro, e un altro, in una successione che mise a dura prova i nervi di lei. Un sibilo minaccioso, vicino all’orecchio più di quanto si fosse mai potuto aspettare, lo indusse a fermarsi a metà del percorso: Sophie aveva scoccato la prima freccia come monito e ne aveva già inforcata un’altra. «Non ci sarà un altro avvertimento…»
«Mi uccidereste sul serio?» domandò e il sorriso sghembo che apparve sulle sue labbra fu più insultante della frase in sé. Ma Sophie era di una pasta ben diversa e ci sarebbe voluto molto di più per offenderla di quanto, solitamente, gli permetteva di avere la meglio con qualunque altra donna.
«Oh, come siete sciocco! Certo che no… Non adesso, almeno!» fece, ma conferì alla frase un vago senso di sospensione. «Ciò non toglie che potrei ferirvi brutalmente e trarne un grande giovamento, non credete?» chiese e, pur da lontano, l’uomo seppe che non scherzava, che l’avrebbe trafitto realmente uno, due, tre volte con la consapevolezza di colpire punti che, al di là di un lancinante dolore fisico, non l’avrebbero condotto alla morte.
«Non vi sembra di aver già fatto abbastanza per oggi? Il mio guardaroba, la mia stanza, le cameriere e il mio stesso fisico hanno risentito della vostra bravata. Non sarebbe ora di abbassare la cresta, bambina viziata che non siete altro?!» la incalzò, ribollendo di rabbia al ricordo di tutto quello che, in una manciata di minuti, aveva subito senza possibilità di rivalsa, almeno fino a quel momento.
«Devo ricordarvi che vi siete intrufolato nella mia stanza e nel mio letto, stanotte?» ribatté e tutto il suo essere s’infiammò al solo pensiero delle mani di lui che frugavano il suo corpo, avvantaggiato dalla profondità del sonno di cui era caduta in balia. Un lieve rossore le colorò gli zigomi.
«Oh, fate pure, dolcezza! E’ un ricordo talmente piacevole che…»
Un’altra freccia, più vicina della precedente, volò al suo indirizzo e, se i suoi sensi non fossero stati all’erta e i suoi riflessi pronti, ci avrebbe rimesso buona parte dell’orecchio. Colto di sorpresa, la guardò con fare interrogativo e, mentre il vento le muoveva i lunghi capelli oltre la schiena, i suoi occhi incontrarono quelli verdi, tenaci e sicuri di Sophie, il cui braccio si tese per l’ennesima volta nell’attesa dell’occasione successiva per far fuoco.
«Avreste potuto prendermi…» disse, serio.
«Avrei voluto prendervi.» rispose ed il silenzio che seguì le sue parole, tanto affettate quanto sincere, lo convinse ad optare per una strategia diversa. Dovevano trovare un compromesso o non soltanto uno dei due ne sarebbe uscito fuori con qualcosa di rotto ma, soprattutto, avrebbero compromesso la durata di quel matrimonio e l’incolumità di chi stava loro intorno.
«Facciamo così: datemi un bacio e non se ne parla più!» le propose con noncuranza e Sophie tentò di capire se si stesse prendendo gioco di lei o se intendesse realmente sottoporre alla sua attenzione una simile proposta. D’istinto, inarcò le sopracciglia.
«State scherzando, vero? Che razza di modo di risolvere un problema è?» chiese e l’accenno di un sorriso incredulo fece capolino sulle sue labbra arrossate dal freddo.
«Un modo molto dolce, milady. Se mi permetteste di mostrarvelo, potreste capire.» disse e il suo tono di voce fu così insinuante che la risata sommessa di lei apparve più che appropriata e ricca di sottintesi a sua volta.
«Credete davvero che non abbia mai baciato un uomo, signore?» inquisì e la sua espressione divenne così scaltra e saccente che Carter stesso fece fatica a dubitare che fosse come aveva immaginato. Come spiegare, altrimenti, l’assenza di pudore mostrata quel mattino, quando lo aveva privato delle coperte e, consapevole della sua nudità, si era fermata ad inveirgli contro? Possibile che non fosse la ragazza virtuosa che immaginava di aver sposato? Del resto, non la conosceva affatto. «Suppongo di dovervi dare una delusione, allora.» proseguì e ogni più piccola parte del suo animo godette della titubanza nei modi dell’altro. Forse, avrebbe dovuto aggiungere che non era stata che una ragazzina quando, in Italia, aveva scambiato il suo primo bacio con un ragazzetto tanto inesperienze quanto lei e che l’esperienza non si era più ripetuta, ma gli effetti delle sue parole non sarebbero stati gli stessi. A stento, trattenne una risata soddisfatta.
«Non credo abbiate capito, Sophie…» le disse d’un tratto, riacquistando tutta l’arroganza di cui lo sapeva capace, e il sorriso sulle sue labbra si fece più ampio ed impertinente. «Chiunque abbiate baciato non ero io e tanto basta a farmi dire che dovreste provare l’esperienza.»
«Avete un’alta opinione di voi, non c’è che dire.» Avrebbe voluto dire tante altre cose, schernirlo e spingerlo a guardare le cose da una prospettiva diversa da quella di tutte le donne che lo avevano idolatrato, ma la sua coscienza le suggerì di tacere. Sebbene i libri le avessero fornito una gran cultura a riguardo e per quanto realistici fossero stati i racconti di alcune sue conoscenti dedite all’Arte dell’Amore, dubitava che avrebbe potuto batterlo in un campo in cui aveva l’impressione l’uomo fosse di gran lunga più preparato di lei.
«Signor Matthews!» fece una voce terza rispetto a loro ed entrambi si voltarono all’indirizzo di Greta, paonazza in viso e col petto gonfio come di chi avrebbe voluto trovarsi in ben altra situazione. Gli occhi della donna percorsero il padrone di casa con occhio critico, soffermandosi sulla scompostezza del suo vestiario, consistente in un solo pantalone, e le sue labbra si contrassero più volte come a voler dire qualcosa che sapeva sarebbe stata sconveniente. «Credo sia il caso di fare ritorno alla dimora. Lui chiede di voi, avete presente?» lo rimbeccò e Carter parve tornare improvvisamente alla realtà, strappato con violenza dalla pantomima che lo aveva completamente assorbito fino a quel momento. Assumendo un’aria seria e a dir poco furibonda, si rivolse alla governante.
«Occupati della signora e fa’ che torni a casa. E’ più probabile che segua te!» fece.
Poi, con passi decisi, percorse all’inverso i sentieri che l’avevano condotto lì.
 
  
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