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Autore: DominiqueS    27/01/2013    2 recensioni
Vivere in una comunità ti toglie il sorriso, sopprime quei pochi valori per i quali vale la pena vivere. Nessuna madre e nessun padre d’abbracciare nei momenti di estrema solitudine o, nella maggior parte dei casi, semplicemente quando hai bisogno di essere protetto da qualcuno di speciale. Qualcuno che ti ha messo al mondo. Potrà mai l’amore essere la soluzione a questa eterna solitudine? Potrai mai un principe azzurro entrare nella tua vita priva di colori e seminare un arcobaleno di emozioni? Per Rosalia questo fu possibile, lei tornò a vivere.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Siamo amore a cinque stelle.




Capitolo primo
"Una prigione chiamata vita"



 

Era novembre, quel mese nel quale le foglie soffrono di solitudine più che mai, abbandonate a vivere sulla freddezza del suolo. Ma non sono solo le foglie a sentirsi sole, ci sono anch’io, Rosalia Liberti. Ho diciassette anni e, da più di un anno ormai, ho perso i miei genitori. Non la scorderò mai quella serata di mezz’estate nella quale un ufficiale della guardia medica mi chiamò dicendomi che la macchina dei miei genitori era uscita di strada, andandosi a schiantare contro il guardrail.
Entrambi entrarono in coma, ridotti in pessime condizioni, mio padre più di mia madre. Fa strano per me scriverlo, lui, infatti, era sempre stato un uomo con una gran forza morale e fisica, molto più forte di lei. Non piangeva mai e ogni frase che diceva aveva un tono autoritario, d’altronde cosa aspettarsi da un generale della Guardia di Finanza? Dopo qualche settimana però tutti è due hanno raggiunto l’altra parte, sì, è così che chiamo io quel posto nel quale ogni persona, consumata una vita, giunge. Ma non sono qui per parlare di questo, io. Sono qui per parlare di me, per cercare di far capire a voi lettori che i periodi neri non sono finzione, non si vedono solo nei film, né si leggono solo nei libri. Esistono.
Dicevamo, era una mattina di novembre e passeggiavo per il vialetto pieno zeppo di foglie "invecchiate". Per strada non c’era quasi nessuno se non qualche anziano alle prese con qualche acquisto. Essendo un comune giorno molti ragazzi, ossia trequarti della popolazione di Milano, erano a scuola. Io no, io a scuola non ci andavo. L’avevo mollata subito dopo aver saputo della morte dei miei. Non avevo voglia, né stimoli, se prima avessi delle ambizioni, ora l’unico progetto nella mia vita era sopravvivere. Quella mattina ero andata a fare la spesa per gli educatori poiché loro utilizzavano il pretesto lavorativo come scusa per restare al caldo, mandando noi ragazzi a sbrigare le faccende più pesanti.
Vivevo in una comunità, quella di Sant Egidio per l’esattezza, insieme a altre dieci ragazze, tutte più piccole di me. Il mio rapporto con gli educatori era nullo, inesistente. Ci parlavo semplicemente per chiedere loro che cosa, ogni mattina, sarei dovuta andare a comprare o per dire loro che, Marina, la bambina più piccola in comunità, si era addormentata. Tutti amavamo Marina, una delle bambine con la storia più tragica al mondo. Infatti, era orfana di entrambi i genitori, la madre era morta a causa del parto, dopo aver scelto di salvare la bambina piuttosto che lei mentre, il padre, si era suicidato subito dopo aver saputo del sacrifico della moglie. Così lei era finita qua, a Sant Egidio, insieme a tutti noi.
Arrivai al supermercato, stranamente affollato dai soliti consumisti, noi italiani. Afferrai tutto quello mi era stato detto di prendere con gran fretta, per evitare l’ingorgo alla cassa causata dalla mancata velocità e voglia dei cassieri di fare il proprio lavoro.
La commessa sembrava essere più addormentata del solito, quel giorno. Aveva gli occhiali appesi al collo attraverso un filo e, nonostante questo, si sforzava per leggere i prezzi a occhio nudo, probabilmente a causa di una patologia di miopia. Riuscii comunque a pagare, anche se dovetti aspettare dieci minuti. Pagai 55 euro per comprare poche cose, d’altronde in Italia più aumentano le tasse, più aumentano i prezzi.
Non tornai subito in comunità quella mattina, decisi di fingermi qualcun altro solamente per scordarmi, o meglio, per cercare di scordare per qualche minuto tutta la vasta gamma di problemi che mi circondavano. Mi finsi ricca, una di quelle dell’alta società sempre tutte eleganti, con la puzza sotto il naso e la critica facile. Entrai in un negozio di abbigliamento costoso, nella quale, l’unica cosa che potevo permettermi, era la carta sulla quale scrivevano i prezzi dei vari articoli. Guardai qualche vestito e cercai quello con il prezzo minore. Ne trovai uno, color avorio tempestato di Swarovski, punti luce o altre cose simili tra loro. Costava 250 euro, nonché il mio guadagno in un anno. Mi lascia scappare un commento negativo che le commesse e un altro gruppo di ragazze non poterono non sentire. Mi guardarono male, come se avessero tolto la mia maschera scoprendomi come una pezzente in un mondo pieno di luccichii e centoni. Uscii dal negozio, ma sono certa che se non l’avessi fatto io, l’avrebbe fatto la proprietaria, ma d’altronde, potrà mai permettersi una di quelle vesti?
Tornai a camminare lungo il vialetto, il sole ormai era diventato forte e l’ora di pranzo si faceva vicina. Mi avviai verso la comunità, a testa bassa, perché pur recitando un’ottima commedia nel fingermi non affatto dispiaciuta, dentro di me moriva tutto. Dalla rabbia, dalla vita, dalle mancanze. Da tutto.
Arrivai e fu accolta da una strigliata di Marzia, l’educatrice più severa e insensibile che ci possa essere. Pensate che Marzia era in grado di togliere un pasto per una settimana come punizione a qualche capriccio, era disgustosa insomma.
Ce l’aveva con me quel giorno, perché avevo tardato e mi ero dimenticata di prendere i peperoni (che, tra l’altro, piacevano solo a lei). La mia punizione fu severa sì, ma non come mi aspettavo, almeno non per ora.
M’implicava di scrivere su un foglio di carta ogni mio singolo movimento fuori di casa: dove andavo, quando uscivo, quando rientravo, cosa compravo e quando spendevo. Non m’importava molto, non ero una ragazza mondana, non uscivo né tantomeno avevo amici con cui farlo. Tutti si erano allontanati da me da quando avevo lasciato la scuola e da quando mi ero trasferita in comunità. Amici veri, capirete. Veri quanto il “made in China” su un prodotto spacciato come italiano.
Andai a dormire, sola, come ogni sera. Lessi per un po’ un libro per cercare la compagnia negatami nelle parole di qualche autore, ma quella sera, nulla di confortante arrivò.

   
 
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