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Autore: SAranel    27/01/2013    11 recensioni
A volte, il modo migliore per assimilare una perdita e lasciare che quella persona viva attraverso te. John ha fatto di questo pensiero la sua unica ragione di vita.
E Sherlock?
"Harry ride senza alcuna allegria. Sorseggia l’ultimo rimasuglio di caffè in fondo alla sua tazza e incrocia le mani tra le ginocchia; lo faceva sempre quando si sentiva sopraffare da una situazione. L’avevo vista rannicchiarsi al suolo in quella posizione talmente tante volte, dopo aver bevuto fino a perdere i sensi, da aver perso il conto.
“Oh e invece lo è” sussurra, restando ferma ma mantenendo costantemente e coraggiosamente lo sguardo sul mio volto. “E fai lo stesso con casa tua, a Londra. Pensi che non ti abbia sentito inveire contro la tua padrona di casa per aver cercato di dar via le cose di Sherlock? L’ultima volta che sono entrata nel tuo salotto era tutto in disordine, come quando c’era lui. Un disordine che il giorno prima non c’era. E ora ti comporti come se tu fossi lui e per qualche motivo sei convinto che sia la cosa migliore, che tu possa trovare giovamento da questa misera pantomima”.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Buonasera meraviglioso fandom del mio cuore!
Come al solito, uno sconfinato grazie per le recensioni alla mia ultima fanfiction. Siete stupende e fate bene al cuore. Risponderò a breve a tutte, prometto!
Mi auguro moltissimo che anche questa storia vi piaccia, con tutto il cuore.
Sperando in bene, vi auguro buona lettura!

 

More myself than I am
*

 

"[…]He's more myself than I am.
Whatever our souls are made of,
 his and mine are the same."


Wuthering Heights, E. Bronte

 

 
 
E’ un po’ che manco da casa mia.
Harry mi aveva chiamato ieri, chiedendomi se mi andasse di fare un salto nella nostra vecchia villetta nel Surrey, approfittando della mattinata di sole prospettata dal Meteo della BBC1.
Le avevo detto di sì, che mi sarebbe piaciuto molto e che passare un po’ di tempo insieme dopo mesi di lontananza, ci avrebbe fatto sicuramente bene. Aveva sorriso appena udito il mio assenso, e lo sapevo nonostante non potessi vederla. Avevo come percepito il lento piegarsi delle sue labbra e sentito il leggero sospiro di sollievo scivolare sulla lingua e tra i denti, con un sibilo musicale.
E adesso, percorso quello che un tempo era stato un lungo viale alberato -ora completamente asfaltato-, e osservando l’esubero di pali elettrici e il poco verde rimasto, attendo l’arrivo di mia sorella.
La vedo arrivare pochi minuti dopo il mio arrivo, camminando con il suo passo buffo verso di me e guardandosi attorno con in viso la mia stessa espressione, quello sguardo pieno di immagini di un passato lontano che ormai avrà vita eterna solo nei nostri ricordi.
Appena mi vede il suo viso si rasserena, rassicurata dal riconoscere un volto familiare in quel posto che ormai non ci appartiene più. Sono in piedi davanti al nostro steccato, e sorrido nel ricordare di quando ero bambino e l’aspettavo esattamente lì davanti in attesa che mi accompagnasse a scuola. Quasi riesco a vederla, correre trafelata verso di me esortandomi ad entrare in macchina prima che la mamma si accorga del suo perenne ritardo.
Ho visto Clara” era sempre la sua scusa. Una scusa che mi spingeva a perdonarla ogni volta.
Harry si ferma di fronte a me e il suo sorriso s’incrina leggermente, come se non riuscisse a comprendere bene qualcosa nella mia fisionomia. La capisco, me l’ero aspettato.
Forse anche per questo piccolo particolare –anzi, ne sono praticamente certo- ho rimandato così tanto il momento in cui avrei dovuto rivederla e darle conto di quel cambiamento.
I suoi occhi scrutano il mio viso, che in fondo è l’unica cosa in me ad essere rimasta come prima –escludendo i fili grigi nei capelli che si alternano a quelli dorati-, e soffermandosi poi sulla mia camicia scura; dopo qualche secondo di silenziosa contemplazione, vedo dal suo sopracciglio leggermente corrugato che ha compreso qualcosa.
Il suo sguardo continua il lento esame e sembra quasi che non riesca in alcun modo a collegare il vecchio John Watson con quello che ora ha davanti. Non sa cosa pensare e leggo la confusione nei suoi occhi, come se sia indecisa tra il manifestare una qualche forma di preoccupazione o lasciar stare le cose così come stanno, senza neppure farmi menzione dei suoi dubbi. Alla fine, senza che io dica nulla o la esorti a reagire in alcun modo, viene verso di me e mi stringe a sé baciandomi su una guancia.
“Ti trovo bene, John” dice alla fine, e questo mi da conferma della sua temporanea decisione. “ma sei diverso”.
Sorrido ascoltando il tono esitante con cui pronuncia quell’ultimo orpello ad una frase inizialmente concepita solo nella prima metà. Non è riuscita a trattenersi, ma va bene così.
“Lo so” le concedo, ma è tutto quello che posso dirle.
Annuisce, mi prende per mano e insieme percorriamo il vialetto leggermente dissestato fino alla porta d’ingresso. La zanzariera che ripara la porta di legno laccata di bianco –adesso intaccato dalle intemperie- è squarciata in due. Mi sento in colpa per non essere venuto prima, per non essermi accorto che anche quella parte della mia vita stesse andando lentamente in rovina.
Harry apre la porta e insieme varchiamo quella soglia, respirando l’aria stantia e polverosa di un ambiente rimasto chiuso per troppo tempo, abituandoci all’oscurità rischiarata solo da un raggio di sole scivolato dalla porta ancora socchiusa. Quando mia sorella riattiva la corrente e preme l’interruttore quasi bloccato, è come ritornare indietro nel tempo, polvere e grosse lenzuola bianche a parte. E’ tutto rimasto com’era, nell’ampio salotto, e osservando ogni mattonella, ogni più piccolo arabesco dorato sulla carta da parati ancora integra nonostante tutto, posso rivivere quasi ogni particolare della mia infanzia.
Mi rivedo bambino a giocare ai piedi della poltrona di mio padre, mentre tiro la stoffa dei suoi pantaloni per catturare la sua attenzione. Lo rivedo sorridermi e prendermi in braccio per farmi sedere sulle sue gambe, per leggere con lui il giornale, anche se non ancora capace di distinguere una lettera da un’altra.
Rivedo Harry appoggiata al muro accanto alla TV mentre aspetta che la mamma esca fuori dalla cucina con Clara, dopo lo spaventoso ‘posso parlarti un momento, cara?’ che l’ha messa tanto in agitazione da farla quasi scoppiare a piangere. Ricordo bene anche il momento in cui entrambe escono dalla cucina, Clara con un sorriso radioso in viso e mia madre altrettanto contenta e fiera della scelta di sua figlia.
“E’ ancora tutto uguale” Harry sussurra, distogliendo la mia attenzione da quei ricordi. “Non è vero, John?” mi chiede.
Io annuisco ma non rispondo, stringendo di più la sua mano –le cui dita sono ancora incrociate con le mie- e le sfioro piano i capelli corti e rossi, portandola verso le scale che conducono alle nostre stanze da letto.
Entrare nella mia vecchia camera, con i poster ancora incollati al muro –mamma non aveva voluto saperne di rimodernare- e la libreria vuota, senza più romanzi polizieschi o d’avventura sugli scaffali, triste e sbilenca contro il muro scrostato di vernice, è doloroso e rassicurante allo stesso tempo.
Mi ricorda la serenità di una volta e la voglia di tornare ad essere quello che ero, da una parte; dall’altra, vedere questo posto soccombere pian piano al passare inesorabile del tempo mi riporta bruscamente alla dura e ineluttabile realtà.
“Lei non è cambiata” la voce di Harry si fa più vicina e sento la sua mano posarsi sulla mia spalla. La copro con la mia, sfiorando prima il tessuto pesante del mio cappotto lungo e scuro, sapendo dove lentamente stia cercando di arrivare. Non voglio ancora affrontare quell’argomento. Non in quel momento, non in quel luogo. Non davanti ai fantasmi di un passato felice che non sarebbe mai più ritornato.
La porto nella sua stanza, sperando che questa la distragga, allontanando il momento in cui avrebbe accennato a quel discorso. Lei sfiora la superficie scalfita della sua scrivania e sorride amaramente al materializzarsi dei ricordi legati ad ogni segno, ad ogni graffio, ad ogni violento accanirsi sulla superficie in legno della sua penna dalla punta di acciaio.
“Questa risale al giorno in cui conobbi Clara” Harry indica un’incisione profonda, vicina allo scaffale portaoggetti posato sulla superficie. “Stavo scrivendo un tema ma non facevo altro che pensare a lei. Ero così sovrappensiero che ho cominciato a martoriare il povero tavolo senza nemmeno accorgermene”.
Mi avvicino piano a lei ed osservo il segno che mi ha appena indicato, sfiorandolo anch’io con la punta del mio indice. Mi sposto poi più a sinistra, dove un paio di solchi a forma di cerchio perfetto si stagliano opachi contro il mogano scuro. Ricordo qualcosa, dei giorni in cui passavo davanti alla sua stanza trovandola aperta. Era qualcosa di una modesta grandezza, perennemente poggiata sulla scrivania. Una radio, sì, una di quelle vecchie radio con mangianastri e lettore CD, ricevuta da Harry in regalo da nostra zia Louise.
“La vecchia radio” io la anticipo e i suoi occhi brillano alle mie parole. “La mamma ti intimava sempre di spostarla, una volta spenta. Tu però ti ostinavi a lasciarla lì pur di non dargliela vinta” sorrido, senza incrociare lo sguardo di mia sorella.
“E’ così. Mi piaceva averla vicino. Mi rassicurava” lei asserisce, sedendosi per un momento alla sedia malmessa riposta sotto la scrivania. “Ricordi ogni cosa”.
E’ colpa di Sherlock” vorrei dirle, incolpando lui come lei faceva con Clara al tempo, ma rimango in silenzio.
Ripensando al me stesso di tanti anni fa, non avrei mai creduto che quell’uomo annichilito dai ricordi della guerra potesse davvero essere capace di una simile abilità. Ma dopotutto, tornando con la mente a quel John Watson, non avrei neppure mai creduto che un fortuito incontro al parco avrebbe cambiato la sua vita per sempre.
Ho imparato da lui, tutto quello che so.  Tutto quello che adesso sono –anche se il mio carattere è rimasto lo stesso, inevitabilmente-, ogni infinitesimale parte del mio stesso essere è ormai soltanto un tributo all’uomo che ho amato e che amo più di ogni altra cosa al mondo. Vivo per essere lui, adesso. E’ l’unico modo che ho per sopportare l’idea di non rivederlo mai più, se non sulla carta sfocata di una vecchia fotografia o sull’immagine sgranata e troppo luminosa di qualche quotidiano online.
“E’ facile” rispondo ad Harry, perché è l’unica cosa che mi viene in mente in questo momento. “Basta un semplice esercizio mentale”.
Facile, diceva sempre lui. E’ facile capire, comprendere, vedere ciò che per gli altri è invisibile. Facile, se si sceglie di osservare piuttosto che guardare.
“Cos’altro ricordi?” lei mi invita a sedermi di fronte a lei. “Cos’altro hai lasciato qui dentro?”.
C’è un altro particolare che non dimenticherò mai. Un suono, una melodia che riempie la stanza e l’immagine di un me di vent’anni più giovane intento a trascinare una pesante valigia sul pianerottolo.
Buon viaggio fratellino” sento la voce di una Harry ventenne salutarmi con le lacrime agli occhi.
Ci vediamo presto, Harry” odo invece un timido e già nostalgico me stesso risponderle, gettandole le braccia al collo e dicendole che le avrebbe telefonato ogni giorno.
Chiudendo gli occhi, riesco a ricordare anche la canzone che Harry ascoltava alla radio, al momento del nostro abbraccio d’addio.
Wish you were here” dico soltanto, già sapendo che lei capirà a cosa mi riferisco. Lei annuisce e sorride, strofinando le mani tra loro per donarsi calore nel gelo di quella stanza. “Avevi quasi consumato quel disco”.
Lei ride, e la sua risata per un secondo riesce quasi a farmi dimenticare l’eco di quella canzone che ancora risuona chiaro nella mia mente, come se accanto a me ci fosse ancora quel piccolo stereo e una giovane Harry intenta a selezionare quella traccia per la terza volta di fila, come faceva ogni volta.
And did they get you to trade, your heroes for ghosts?” Harry intona, con la sua voce flebile e incerta. Arrossisce e abbassa lo sguardo, temendo che io possa prenderla in giro.
E’ l’ultima cosa che desidero mentre la sento accennare quei versi, rendendomi conto di quanto, certe volte, la vita ci riservi crudeli e dolorose coincidenze.
“C’era la stessa canzone in quel taxi, quando arrivai da lui quel pomeriggio” non so come questa frase abbia potuto lasciare le mie labbra senza alcun impulso dal mio cervello. “Chiesi all’autista di cambiare stazione. Lui non mi diede ascolto” aggiungo, continuando a non sapere perché mi ostini a continuare quella conversazione.
Cerco di distrarmi, pregando affinché Harry non risponda a ciò che ho le ho appena, inconsciamente, confessato. Abbasso lo sguardo e osservo i giochi di luce che un raggio di sole crea sulla mia camicia viola scuro, riflettendosi nelle pieghe profonde. E’ stata una fortuna, trovarla. E’ identica a quella dei miei ricordi.
Continuo a indossarla, come se quell’indumento da solo possa cancellare quei tre anni lasciati alle spalle. Non succederà mai, e questo, come tutto il resto, è soltanto un mero espediente per tenere in piedi questa messinscena che, forse, di buono non ha niente. Non m’importa nulla.
“How I wish, how I wish you were here. We're just two lost souls, swimming in a fish bowl” sussurro tra me e me, incurante che lei possa sentire, stavolta.
“Year after year, running over the same old ground. What have we found? The same old fears. Wish you were here” mia sorella non mi delude e colma la strofa con i suoi versi mancanti, quelli che avevano fatto più male allora e che adesso hanno lo stesso effetto di un pugno in piena faccia.
Il silenzio cala tra noi, senza che nessuno dei due abbia il coraggio di dire qualcosa; senza che Harry riesca a muovere l’accusa che – si legge chiaramente sul suo viso- vorrebbe muovere nei miei confronti. Senza che io abbia abbastanza forza per smettere di nascondermi ed esortarla a dirmi ciò che davvero pensa, ciò che reputa io sia diventato. Voglio che mi dica quanto sto sbagliando, quanto io mi stia facendo del male senza rendermene conto e ignara del fatto che io ne sia più che consapevole. E’ un dolore sopportabile, in confronto a quello che avrei dovuto affrontare restando il vecchio John Watson.
“Vado a fare un po’ di caffè” lei dice, infrangendo le mie speranze sulla possibilità che qualcosa si smuova. “L’impianto idrico dovrebbe essere a posto. E credo che zio Harold abbia lasciato qui una scatola alla sua ultima visita” non dice nient’altro e mi lascia solo nella stanza, scendendo le scale a due a due con una mano davanti alla bocca. E’ il gesto di chi reprime un gemito spaventato, o una smorfia di puro orrore. Nel suo caso, temo stia solo cercando di respingere la frase che in realtà avrebbe voluto dire, poi mascherata in extremis con quell’offerta pacifica di caffè stantio.
La situazione però, è forse vicina ad un punto di svolta.
Mentre lei è giù, entro nella vecchia stanza dei miei genitori e respingo una fitta lancinante al petto, all’inevitabile realizzazione che loro non metteranno mai più piede in quella camera.
E’ quella più vuota, comunque, l’intera mobilia donata per volontà dei miei ad una famiglia indigente di conoscenti. Mi consola –anche se mai abbastanza- realizzare come con i mobili, le tende ricamate e il tappeto persiano sui cui adoravo far sfrecciare le mie macchinine, se ne sia andata anche una parte dell’anima di quel luogo. Non dimenticherò mai nulla dei momenti passati lì dentro, ma i ricordi riemergono meno facilmente, senza niente a cui il mio sguardo possa aggrapparsi.
Una cosa però mi colpisce, appena poso lo sguardo sulla rete del letto priva di materasso, coperta solo da uno degli asettici lenzuoli che ricoprono anche il salotto. E’ una custodia abbastanza grande di pelle scura e leggermente rovinata. Alcune chiazze più lucide mi fanno pensare che un tempo fosse stata laccata di vernice, magari anche pregiata.
Mi ricorda –e il mio cuore manca un battito- quella del vecchio violino di Sherlock.
Mi siedo su un’asse scricchiolante della rete e appoggio la custodia sulle ginocchia, facendo scattare con una certa difficoltà le due serrature a scatto placcate di ottone. Uno sbuffo di polvere leggera si solleva appena faccio per aprirlo, e sono costretto a sbattere le palpebre, per evitare che venga a contatto con i miei occhi.
Li riapro con lentezza, la custodia ora completamente aperta sulle mie gambe, e non riesco a reprimere un gemito di pura sorpresa.
E’ un violino.
Non è come quello di Sherlock, uno Stradivari acquistato da un rigattiere di Tottenham Court Road¹ –ignaro del suo valore- per una cifra irrisoria, ma più modesto e di fattura meno pregiata. Non per questo però -non perché non sia di pregiato abete rosso e acero dei Balcani- ne sono meno inevitabilmente affascinato.
Rimuovo il panno di velluto che lo riveste e lo afferro delicatamente, con la stessa dolcezza che riserverei al corpicino fragile di un bambino appena nato e pizzico leggermente le corde, ascoltando il suono acuto e il leggero riverbero delle note nella stanza. E’ accordato, lo sento chiaramente. Ho studiato tanto, ho sudato tanto. Lui ne sarebbe stato fiero e nulla mi da più soddisfazione di questo pensiero.
Avvicino il violino al mio viso e mi appoggio sulla ruvida mentoniera, chiudendo gli occhi e assicurandomi che l’archetto sia ancora rigido e ben teso.
Lascio che l’arco scivoli sulle corde come velluto su un vassoio d’argento e senza nemmeno accorgermene accenno le prime note dell’Andante in Mi maggiore di Paganini, esitando sempre meno nell’esecuzione e per nulla sorpreso –bizzarro constatare quanto ci abbia preso l’abitudine- di ricordare a memoria l’intero spartito. Dopotutto però, è il capriccio che Sherlock amava di più.
Non sento mia sorella salire le scale, obliato dalla musica che risuona chiara echeggiando tra le pareti della stanza semivuota, non la sento affacciarsi sulla porta della stanza e poggiare le due tazze di bevanda bollente sul tavolo spoglio accanto all’uscio.
Mi accorgo della sua presenza solo quando il suo respiro solletica il mio collo e le sue braccia scendono a cingermi i fianchi in un abbraccio delicato, senza esortarmi a smettere ma semplicemente rimanendo lì con me. Sento la sua fronte poggiarsi sul muscolo al di sotto del collo, sfregando le pelle delicata del suo viso contro il colletto ruvido del mio cappotto. Conosco quella sensazione, conosco ciò che si prova a percepire quella stessa stoffa contro la propria pelle. Non mi sarei mai saziato di quella sensazione, non sarei mai riuscito ad averne abbastanza del suo lento voltarsi verso di me per assicurarsi che la mia presa fosse ben salda su di lui e destinata a rimanerlo fino alla fine della sua impeccabile esecuzione.
Mi manca. Mi manca in questo momento come non mai, tanto da essere costretto ad immaginarmi come se io sia lui in questo momento e a desiderare che gli occhi di Harry, una delle poche caratteristiche che ci accumunano, siano i miei.
Quando la melodia termina rimango in silenzio per un po’, godendomi il silenzio interrotto solo dal caldo respiro di mia sorella contro le mie spalle. Dopo qualche secondo, poi, abbasso sia l’arco che lo strumento, posandoli sul davanzale di fronte a me e assicurandomi che il legno consunto non abbia subito danni. E’ stato un desiderio egoista voler suonare quel fragile strumento senza neppure avere la sicurezza che avrebbe resistito fino alla fine.
Mia sorella mi lascia andare e senza dire una parola mi dirigo verso il tavolino, giocherellando con la tazza di caffè ormai fredda.
Giro la tazza su se stessa più volte, come faceva lui e come ora faccio sempre anch’io, anche se non ho mai saputo perché lo facesse. Probabilmente era sempre stata solo una piccola mania, un lento trascinarsi di abitudini d’infanzia, e non mi riusciva difficile immaginare un annoiato Sherlock partecipare ad un coffee party con le amiche di sua madre girando e rigirando la sua tazzina in cerca di una qualunque distrazione.
“Era del nonno. Non ha molto valore e all’ultima visita lo zio lo ha lasciato qui” lei mi spiega, soffermandosi ad osservare la cassa armonica illuminata dalla luce del sole.
Rigiro di nuovo la tazza, sovrappensiero.
“Quando hai imparato?” poi mi chiede, e so che per quanto abbia notato anche quest’ultimo gesto, è al violino che si riferisce. “Non mi hai mai detto niente”.
E’ colpa di Sherlock” vorrei dire ancora, perché è la risposta perfetta, la frase con cui potrei replicare a qualunque insinuazione, domanda o innocente affermazione.
Mi passo una mano tra i capelli, adesso più lunghi e –l’ho scoperto solo lasciandoli crescere- divisi in ciocche disordinate come i suoi, e lascio passare qualche secondo prima di risponderle. Quello che ho temuto e allo stesso tempo desiderato è ormai pericolosamente troppo vicino.
“Ho iniziato il giorno del…secondo anniversario della sua morte” pongo un accento più marcato sull’ultima parola, come se senta il bisogno di ostentare una sicurezza che però non ho affatto. “Non è stato difficile. E’ stato naturale, come se fossi nato per suonarlo” sorrido appena, a quella considerazione. Aggiungo un paio di zollette di zucchero scuro al mio caffè, pregustando il sapore dolciastro della bevanda ancor prima di avvicinarla alle labbra. Mi sto abituando pian piano a preferire quel sapore più intenso al graffio amaro del caffè nero.
“E da quando metti lo zucchero nel caffè?” Harry dice ancora, e ho idea che non abbia davvero bisogno di una risposta a quelle domande. “E da quando giri la tazza a quel modo, o ti fai crescere i capelli e indossi quelle camicie?” indica con lo sguardo quella viola scuro che ho addosso e io non riesco a incrociarlo, è più forte di me.
“Ti ho visto fermo davanti casa mentre arrivavo e per un secondo ho avuto paura, John. Sei più magro, lo sai?” la sua voce s’incrina pian piano e respingo l’impulso di abbracciarla con tutta la forza che ho. Vorrei mettere fine a tutto questo e allo stesso tempo continuare finché tutto uscirà alla luce del sole, come sarebbe dovuto succedere da mesi.
Tutti si sono accorti di me ma nessuno ha mai osato dire anche solo qualcosa.
“Sembravi lui. Ho visto lui. Ho temuto fossi lui” mi sfiora anche lei i capelli, come se non possa credere che io lo abbia fatto davvero, come se non riesca a concepire che quella metamorfosi rappresenti la mia ultima spiaggia, la mia dose di morfina contro quel dolore che a lungo andare mi avrebbe solamente ucciso, a poco a poco, come una goccia di pioggia che corrode la roccia.
“Allora va bene” finalmente parlo anch’io, e volutamente modulo la mia voce affinché risulti tagliente, non certo dolce o comprensiva. “E’ quello che voglio. E’ quello che ho sempre voluto”.
Sento il suo sguardo perforare il mio petto, il mio viso, l’intero mio essere come se i suoi occhi fossero una scintilla e io una sciocca figurina di carta che pian piano brucia, logorandosi lentamente. Posso quasi percepire quello che prova, quello che vorrebbe dirmi ma che trattiene dentro di sé per non ferirmi ulteriormente, perché è conscia che io non stia bene per quanto mi ostini a dire che è tutto a posto, che va bene così. Guardo i bordi di quell’ipotetica figurina di carta a mia immagine e somiglianza annerirsi, consumandosi a poco a poco.
E’ colpa di Sherlock, è colpa di Sherlock. E’ solo colpa di Sherlock.
“Non va bene. Non va bene per niente” Harry ha rinunciato a trattenere le lacrime e la sua voce si abbassa di un tono. “Finirai come questa casa John. Finirai come questo posto, che ti ostini a non voler vendere nonostante tu ne abbia bisogno, che continui a considerare come un intoccabile mausoleo di cose che non ci sono più e non torneranno mai”.
Stavolta non posso fare a meno di guardarla e stringo la tazza di ceramica sbeccata che ho in mano, incurante che possa infrangersi in mille pezzi tra le mie dita.
“Non è così” cerco di difendermi, ma sono il primo a non credere a quel pallido tentativo di sostenere la mia posizione.
Harry ride senza alcuna allegria. Sorseggia l’ultimo rimasuglio di caffè in fondo alla sua tazza e incrocia le mani tra le ginocchia; lo faceva sempre quando si sentiva sopraffare da una situazione. L’avevo vista rannicchiarsi al suolo in quella posizione talmente tante volte, dopo aver bevuto fino a perdere i sensi, da aver perso il conto.
“Oh e invece lo è” sussurra, restando ferma ma mantenendo costantemente e coraggiosamente lo sguardo sul mio volto. “E fai lo stesso con casa tua, a Londra. Pensi che non ti abbia sentito inveire contro la tua padrona di casa per aver cercato di dar via le cose di Sherlock? L’ultima volta che sono entrata nel tuo salotto era tutto in disordine, come quando c’era lui. Un disordine che il giorno prima non c’era. E ora ti comporti come se tu fossi lui e per qualche motivo sei convinto che sia la cosa migliore, che tu possa trovare giovamento da questa misera pantomima”.
Questo sfogo è più violento di quanto mi sarei mai aspettato da una come Harry. Ero stato abituato a redarguirla per le sue azioni, a tentare di rimetterla in riga dopo una vita sregolata e sempre sull’orlo di un immaginario precipizio. Mi ero messo in testa che sarei sempre stato io quello responsabile, l’unico che avrebbe mai potuto rimetterla sulla buona strada, l’uomo posato e dal sangue freddo che l’avrebbe sempre sostenuta qualunque cosa fosse successa. Ero sempre stato abituato al suo completo abbandonarsi nelle mie mani, alle sue continue promesse, alle sue scuse, ai suoi mille ‘ho sbagliato, non lo rifarò mai più ma ti prego, aiutami’.
Sentirla adesso –sobria e perfettamente consapevole di cosa io stia passando- così piena di rabbia nei miei confronti, mi spiazza.
“Io non sto recitando” cerco di rispondere ma lei è più veloce di me. Ha preso il via, e so per certo che non si fermerà fin quando non avrà reso ben chiare le sue convinzioni, i suoi dubbi e le sue angosce.
“Tu hai una maschera, John. E’ solo uno stupido travestimento” mi accusa, e non ci va piano, non ne ha la minima intenzione. “Questa cosa ti consumerà da dentro annullandoti pian piano, distruggendo John Watson e lasciando che il fantasma di un uomo morto ne prenda il posto”.
Mi guarda, mi scruta da capo a piedi notando ogni differenza, come se nella sua mente abbia una perfetta immagine di ciò che ero e ora stia valutando fino a che punto io mi sia spinto. Il suo verdetto non è a mio favore e le sue labbra diventano bianche, corrugate in un espressione che non vedevo sul suo viso da tempo e che avrei sperato di non vedere mai più.
“Chi c’è avanti a me adesso?” sfiora la mia camicia, la giacca scura che le strappa un sorriso amaro, fino a stringere la mia sciarpa blu con forza, indecisa se attirarmi a sé o rimanere lì ferma a fissarmi.
Chi c’è davanti a lei adesso? Chi si riflette nello specchio opaco e ingiallito, di fronte al letto? All’apparenza è una persona, ad un’analisi più attenta è un’altra. E’ come se in questa stanza, in questo preciso momento, ci siano tre persone diverse, di cui una custodita dentro un’altra.
Colpa di Sherlock” è ancora una volta quello che vorrei dire, le uniche parole che ho bisogno di pronunciare.
“Ci sono io. E c’è lui” mi costringo a rispondere perché non voglio mentirle, non lo merita. Vuole solo il mio bene e le sono grata anche se sta riaprendo una ferita non ancora completamente rimarginata, rinnovando un dolore che avevo sperato non dover provare più.
Harry annuisce ma è ancora confusa. Posa la tazza sul tavolo e leggo chiaramente nel suo sguardo quanta voglia abbia di scaraventare tutto quanto contro il pavimento, cercando distrazione nel rumore di ceramica infranta, nel violento cozzare di quel vecchio servizio inutilizzato sul legno rigido del parquet. Sarebbe un sollievo anche per me. Forse è per questo che ancora si trattiene.
“Fai una scelta, John” il tono della sua voce adesso non è più esitante. Asciuga una lacrima sfuggita al suo controllo e ritorna seria, irreprensibile, glaciale come non l’ho quasi mai vista in tutta la mia vita. “Scegli, perché non c’è spazio per entrambi”.
Vorrei rispondere che si sbaglia, che c’è spazio in abbondanza perché entrambi possano vivere dentro di me. Vorrei che lei sapesse di quel biglietto che Sherlock aveva lasciato in camera nostra due sere prima della sua morte e che io avevo ritrovato soltanto quando ero ritornato a casa dopo il funerale.
Vorrei che leggesse quelle due parole leggermente sbafate d’inchiostro, come se durante la scrittura Sherlock avesse pianto. Certamente era stata la pioggia scrosciante di quel giorno, ma mi piaceva pensare che la forza di Sherlock fosse venuta meno e si fosse davvero commosso nel lasciarmi quell’ultima testimonianza d’amore.
Cor Cordis’  Sherlock aveva lasciato scritto sul suo vecchio taccuino, poggiato sul mio lato del letto. Cuore del cuore.
“E’ colpa di Sherlock” finalmente dico, e quell’accusa è vera, ma anche falsa, e mi sento sollevato e allo stesso tempo in colpa ora che ho avuto il coraggio di pronunciarla.
Harry capisce immediatamente a quale ricordo quelle parole siano legate e per un secondo sorride, ricordando la sé stessa di tanti anni fa accampare quella scusa che una scusa non è affatto, abbracciandomi e promettendomi che la volta dopo non sarebbe successo ancora, illudendosi che tutto sarebbe potuto cambiare nell’intervallo di tempo fino al mattino dopo e al successivo, immancabile: E’ colpa di Clara.
“Questa volta no, John” il sorriso scompare e resta solo la Harry adulta, la sorella maggiore che non era mai stata e che adesso sta cercando in tutti i modi di diventare. “Questa volta è colpa tua”.
Non dico niente in risposta a quell’accusa, e mi sento un codardo, un uomo ritenuto colpevole che sa di non esserlo ma non ha forza di dimostrare la propria innocenza. Cor Cordis ricordo ancora, e so per certo che Sherlock abbia voluto dirmi, con quelle due semplici parole, quanto tenesse a me, chiedendomi di non dimenticarlo, di tenerlo, nonostante le menzogne, nel suo cuore.
Io ho solo fatto di più.
Ho accolto il suo intero corpo dentro di me, ho lasciato che la mia anima custodisse la sua e non c’è colpa in questo, nonostante quello che Harry dice e che gli altri, rimanendo in un silenzio ipocrita che nulla ha a che fare con il rispetto, pensano.
Tiro fuori un pacchetto di sigarette dalla tasca della mia giacca e non incrocio lo sguardo di mia sorella mentre ne prendo una e la stringo tra le labbra. La scintilla che la accende oscura per un attimo ogni mio pensiero e prendo la prima boccata, sentendo il fumo scendere nella mia gola fin nei polmoni. Credevo di non esserne più abituato, dopo l’esercito, invece è ancora naturale, semplice, istintivo.
Per un secondo ricordo il modo in cui Sherlock usava tenere la sigaretta tra le dita lunghe e sottili, il modo in cui la portava tra le labbra, sostenendola appena, con un eleganza tale da far sembrare quel gesto una danza. Chiudo gli occhi, godendomi quella chiarissima visione, per poi riaprirli, osservando vacuo il nulla davanti a me.
“Basta John” Harry bisbiglia, alzandosi e raggiungendo la soglia. Io non la guardo ancora. “Fai della tua vita, o di quello che è rimasto di essa, quello che vuoi”.
La sento scendere le scale di fretta, afferrare il cappotto e uscire dalla porta d’ingresso, sbattendola con violenza.
Rimango fermo in quella stanza, lasciando che l’estremità incandescente della sigaretta si consumi contro le mie nocche, incurante del dolore, desideroso solo di qualcosa che faccia ancora più male del pugno che mi torce le viscere. Il calore è acuto, bruciante, tanto da costringermi a gemere sommessamente, ma non getto via il mozzicone .
Lascio che continui la sua lenta opera, lascio che quel fuoco rosso oblii l’azzurro doloroso di quegli occhi.
 
 
Il salotto di Mycroft è sempre il solito pomposo e pretenzioso stanzone pannellato di legno scuro, che lo fa assomigliare sempre di più ad una delle stanze del suo amato Diogene’s Club.
Il camino in marmo bianco risalta nella monocromia scura della grossa parete centrale, e i tre grandi finestroni laterali donano all’ambiente un’aria meno soffocante, nonostante adesso sia sceso il buio e le uniche fonti di luce nella stanza siano la lampada liberty sulla scrivania di mio fratello e il fuoco che arde fiacco nella sua gabbia di ferro e marmo.
Fisso le altissime librerie alle mie spalle, distogliendo lo sguardo dal fuoco e cercando di distrarmi ricordando quali libri Mycroft abbia portato qui da casa nostra.
Alcuni non sono stati neppure mai letti, altri solo sfogliati e poi lasciati lì come elaborato orpello d’arredamento, dal fascino più intellettuale di un semplice soprammobile.
Mi annoio quasi subito anche di quel passatempo e il fuoco torna a riflettersi nei miei occhi per un secondo, prima che decida di rivolgere ogni mia attenzione al quadro sul caminetto.
E’ una riproduzione fedele e dettagliatissima del Viandante sul mare di nebbia² di Friedrich, ed è il mio quadro preferito per quanto di arte conosca solo il minimo indispensabile per il mio lavoro.
Ha sempre avuto un fascino particolare e irresistibile, per me.
Mi sono sempre rivisto in quella figura scura, di cui non avrei mai conosciuto il volto, in piedi davanti a quel precipizio in contemplazione del nulla e del tutto dinnanzi a sé.
Da bambino avevo passato ore a pensare a quale potesse essere il viso di quella figura, se fosse stato concepito come un uomo giovane o in età più adulta, se la sua espressione perennemente nascosta allo sguardo dello spettatore fosse stata immaginata dal pittore come felice, o triste, o impassibile. Mi ero domandato tante volte se i suoi occhi fossero scuri e profondi come quelli di mio padre o chiari e limpidi come quelli di mia madre.
Bevo un sorso del caffè che ho preparato poco fa, assaporando il sapore amarognolo della miscela costosa che Mycroft usa, pur preferendo di gran lunga il tè. La mia lingua brucia ma non ha importanza, e il sollievo della bevanda bollente che scivola per la gola distoglie per un attimo la mia attenzione dalla tela.
Poso la mia tazza sul tavolino accanto alla mia poltrona, sistemandola sul piattino con la mano sinistra, che prima la reggeva. Pulisco lentamente una goccia scura rimasta sul mio labbro e prima che possa tornare a rivolgere lo sguardo al Viandante, qualcuno entra in salotto inficiando ogni mia precedente intenzione.
Non vedo Mycroft da mesi, nonostante sia rimasto in contatto con lui costantemente, quasi ogni giorno dalla mattina al St. Barts. Si siede sulla poltrona accanto alla mia senza rivolgermi uno sguardo, probabilmente talmente stanco e spossato da non poter sopportare il concentrarsi sul mio volto, sulla mia salute, sulle domande che certamente ha in serbo per me prima di essersi opportunamente riposato.
Apre gli occhi piano, e la prima cosa che essi vedono sono i miei che lo fissano a mia volta. Poi la sua attenzione viene catturata dal colletto della mia camicia rossa, che probabilmente non mi ha mai visto indosso e che lo sorprende, in qualche modo. Mentirei se dicessi di non aver sperato che se ne accorgesse. Lo sguardo si sposta sulla giacca leggera di maglina che ho infilato sulla camicia, viaggiando sui bottoni per metà allacciati e sulla cintura dei miei jeans scuri, di quelli che non mi vedeva addosso da quando ero ragazzo e mi ostinavo a rifuggire gli abiti eleganti imposti dai miei genitori.
Mycroft sospira e non dice niente, limitandosi a scolare gli ultimi rimasugli del suo brandy dal calice che stringe in mano. Sembra intrattenere una sorta di lotta interiore con sé stesso, come se non abbia la benché minima idea di cosa dire, delle parole adatte da pronunciare a suo fratello dopo mesi di conversazioni esclusivamente telefoniche e messaggi riferiti attraverso terzi.
“E’ bello, vero?” è stranamente la prima cosa che mi domanda. Capisco dal cenno del suo viso che si riferisce al quadro. “E’ di un artista tedesco. Ha un innato talento nel riprodurre quadri d’autore. Non potendo avere l’originale, ho ritenuto fosse una valida alternativa”.
Non capisco il gioco di Mycroft ma non glielo lascio intendere. Mi limito ad annuire e a rivolgere lo sguardo dove è anche il suo, completamente spiazzato dal fatto che la conversazione stia procedendo in maniera drasticamente differente da come l’avevo immaginata.
“E’ bello” mi limito a rispondere, distogliendo lo sguardo e osservando il fuoco senza davvero vederlo. “Lo sai”.
Mi mordo il labbro superiore, sovrappensiero, come faceva John ogni qual volta si trovava in una situazione a cui non riusciva a venire a capo. Lascio la presa qualche secondo dopo e passo la lingua su quello inferiore, inumidendolo e apprestandomi a smuovere la conversazione.
Mycroft lo capisce, e annuisce fra sé e sé. E’ impossibile pretendere che non noti qualcosa, che lasci passare, che decida di accettare qualcosa senza dire la sua, senza sottolineare ciò che per lui è giusto e ciò che invece è sbagliato.
“Cosa vedi in quel quadro, Sherlock?” chiede, e la domanda non è quella che mi sarei aspettato. Nessun ‘Cosa ti è successo, Sherlock? Perché ti comporti così, Sherlock? Hai perso il senno, fratellino?’ solo quell’inattesa richiesta.
Rivolgo lo sguardo al quadro per l’ennesima volta in pochi minuti. Lo osservo in ogni particolare, in ogni più piccolo solco lasciato dalle pennellate e in ogni minima sfumatura di colore e d’intensità.
“Vedo me stesso” esclamo, dando voce a ciò che ho sempre pensato. “Vedo me stesso, mentre scruto nell’ignoto di fronte a me”.
Mycroft non sembra soddisfatto della mia risposta. Storce leggermente la bocca come se non creda affatto che ciò che sto dicendo sia la completa e assoluta verità. Mi sento a disagio, non creduto, sbeffeggiato da uno dei pochi alleati su cui posso fare affidamento.
Sospiro, chiudendo gli occhi e raccogliendo tutta la forza di volontà che possiedo, come faceva lui ogni qual volta facevo qualcosa che minava la sua –costantemente vacillante, dal giorno in cui si era trasferito al 221B con me- pazienza. Stringo i braccioli della poltrona dove sono seduto, e aspetto che Mycroft parli di nuovo.
“E’ di nuovo l’ignoto quello che vedi?” replica, con un’altra domanda. I suoi occhi non si staccano un secondo dai miei, come se voglia anticipare le mie parole leggendole sul mio viso. Non escludo che possa riuscirci. “Non fu questa la tua risposta, tempo fa”.
Non mi ci vuole molto per ricordare esattamente il giorno in cui Mycroft mi aveva posto quella stessa domanda, tempo prima. Eravamo seduti l’uno accanto all’altro anche quella sera, pochi giorni prima che John si dichiarasse. Ero infuriato, frustrato dal non riuscire a reagire in alcun modo a quel sentimento sconosciuto che mi ero accorto di provare nei confronti del mio coinquilino, e chissà come ero finito a casa di Mycroft, l’ultima persona a cui avrei mai voluto confessare le mie amorose tribolazioni.
Mi aveva chiesto anche allora, verso notte e dopo una cena passata in assoluto silenzio, cosa vedessi in quell’immagine. Io mi ero fermato, l’avevo osservata e non avevo avuto la minima esitazione nel rispondere.
“Vedo me stesso, mentre scruto davanti a me” era stata la mia risposta. Lui mi aveva chiesto cosa stessi scrutando, che cosa scorgessi nella nebbia che inghiottiva il paesaggio e qualunque cose mi si stagliasse davanti. A quell’ultima domanda, avevo risposto quasi automaticamente.
John” avevo esclamato, con voce sicura ma resa malinconica dal dubbio. “Solo John. Ovunque John”.
“Sì. Lo è” esclamo ora perché non voglio pensare a quel giorno, a quello che avevo detto e al drastico cambiamento della mia attuale risposta. “Lo è e sai perché”.
Lui sospira e rimane a fissare il fuoco come fa in continuazione. Ogni volta mi chiedo come faccia a rimanere semplicemente lì davanti senza far nulla, in quell’esasperante silenzio a fissare le fiamme consumare i tizzoni scuri. Lo facevo anch’io una volta, e ne sono consapevole, ma adesso non riesco più a concepire il silenzio o l’inattività. Servono solo a far riaffiorare nella mia mente ricordi lontani, a riaccendere desideri che non posso soddisfare e che probabilmente non potrò assecondare mai più.
Vorrei andarmene ora, immediatamente. Afferrare il mio giubbotto e uscire da quella casa senza voltarmi indietro.
“Sei sicuro di quello che stai facendo, Sherlock?” la nostra conversazione questa sera è un continuo botta e risposta. Mi chiedo se lavori troppo e se sia convinto –in preda a qualche sciocca allucinazione- che io sia una sorta di criminale sotto interrogatorio.
“Sono sicuro di cosa?” chiedo, ma so benissimo a cosa si riferisce. Non avevo creduto neppure per un secondo che non si fosse accorto di nulla, che avrebbe semplicemente lasciato stare. Mi guarda con espressione eloquente, con quel sopracciglio inarcato e la bocca piegata in un sorrisetto che sembrano dire silenziosamente ‘sai bene di cosa sto parlando’.
“Non sono mai stato più sicuro di qualcosa in vita mia”.
Non credo di essere mai stato così sincero, con mio fratello. A lui sembra andare bene.
“Sei certo che questo non ti porterà alla pazzia?” le sue difese s’indeboliscono, come se minate dall’avvisaglia di un pericolo imminente. Sembra quasi che tenga a me come un normale fratello.
Io mi limito a replicare con un cenno brusco del capo.
“Più di quanto io già non lo sia, Mycroft?” volgo l’attenzione al computer portatile di mio fratello, poggiato sulla sua scrivania di massiccio legno massello. L’immagine che la mia mente plasma nell’immediatezza del momento è quella di John seduto al tavolino da caffè, intento a battere un articolo per il suo blog, usando solo i suoi indici. Scrivo anch’io così adesso. Mi ci è voluto tempo per abituarmi, tempo per imparare a perdere tempo, ma ora non riuscirei più a scrivere in altro modo.
“Dunque sei pazzo, Sherlock?” la voce di Mycroft torna prepotentemente a infrangere la quiete. “Definiresti follia ciò che stai facendo? Ciò che ti ha spinto a…questo?”.
Non indica nulla in particolare, ma capisco che non si riferisce ad una parte specifica della mia persona ma alla sua interezza. Forse, sta indicando anche la mia stessa anima con quel cenno arrogante del capo.
Mi stringo nella stoffa calda del mio cardigan mentre dall’altra stanza giunge la melodia soffusa di un capriccio di Paganini. Sorrido, mestamente. Non so neppure se rimettendo mano sul mio violino riuscirei a ricordare come reggerlo, sfiorarlo, suonarlo.
“La definiresti in altro modo?” stavolta sono io a porre il mio quesito. Lui sorride, e si versa un altro dito di brandy nel bicchiere. “O ti piacerebbe credere che io lo faccia per nascondermi?”.
Mio fratello solleva il bicchiere e lo innalza davanti ai suoi occhi, osservando il mio viso attraverso il vetro bombato. Scuote la testa, ma non è disapprovazione quella che ha sul volto, né rammarico misto a compassione. E’ come divertito, come se già preparato, come se trovarmi così cambiato non lo sconvolga poi più di tanto. Sembra quasi che il guardarmi, in questo momento, gli provochi soltanto un ilare piacere piuttosto che una sincera preoccupazione.
“No, non mi piacerebbe. So che se ti occorresse un volto per nasconderti, non sceglieresti lui” finalmente risponde, bagnandosi appena le labbra con il liquido ambrato che riscalda con la mano attraverso il vetro. “Penso sia follia, ma nell’accezione migliore del termine”.
Sfioro i miei capelli con una mano, ancora non completamente abituato al non sentire più le ciocche lunghe accarezzare le mie dita. I capelli che adesso solleticano leggermente il palmo della mia mano sono corti e leggermente ispidi, resi irregolari dal taglio improvvisato nel bagno di un albergo a Lhasa.
Quello che ha detto Mycroft mi ha spiazzato e adesso non so cosa pensare: è una sensazione che non mi è mai piaciuta e che in questo momento apprezzo ancora meno. Ho come la sensazione che voglia prendermi in giro, burlandosi di quel sentimentalismo che per anni ho disprezzato ma che, parlando di John, non posso fare a meno di ostentare con fierezza. Allo stesso tempo però, sembra serio come non l’ho mai visto in tutta la mia vita.
“Ti prendi gioco di me, Mycroft?” gli dico, chiaro e tondo, senza ulteriori indugi.
Lui sembra sorpreso e shockato dalla mia insinuazione. Poggia finalmente il bicchiere sul pavimento accanto al fuoco e si china verso di me, stringendo la mano in un pugno sulla sua coscia. Sembra che soffra anch’egli, in questo momento.
“Sfogliai un libro una volta. Uno che la mamma rileggeva spesso, il suo preferito. Cime Tempestose” sussurrò, tanto che dovetti avvicinarmi anch’io per udirlo, coperto dallo sfrigolare della legna. Ricordo quel libro, chiaramente. Era un piccolo volume antico, in copertina blu e argento. Mia madre lo teneva costantemente sul comodino, come se le occorresse sempre averlo a portata di mano. “E lessi una frase un giorno, che mi colpì. L’aveva sottolineata, come ad evidenziarne l’importanza”.
Non so a quale obiettivo questo racconto sia mirato, ma non posso fare altro che rimanere in silenzio e ascoltare.
Lui è più me stessa di quanto non lo sia io” recita, ricordando ogni parola vividamente. Apro gli occhi come destato improvvisamente da un sonno profondo e, finalmente, capisco che è stato serio fin dall’inizio. Non c’è mai stata malizia nelle sue domande, alcun doppio fine, nessuna intrinseca malignità nelle sue intenzioni.
“E’ così” asserisco, stringendo le mie mani tra le ginocchia –John lo fa sempre quando è agitato- e guardando Mycroft con occhi diversi. “E’ sempre stato così”.
“Lo so. E’ sempre stato chiaro” la sua voce è pacata e tranquilla. Non credo mi abbia mai parlato a quel modo, da quando ricordo.
Dopo qualche secondo si alza dalla poltrona, cogliendomi di sorpresa, e afferra un paio di fascicoli dal cassetto della scrivania, sfogliandoli con sguardo attento e poi osservando me con aria interrogativa.
“Lo vuoi vedere?” è la sua domanda, mentre chiude la cartellina arancione e me la porge, aspettando che io l’afferri.
Sento il sangue abbandonare il mio viso e l’intero mio corpo, completamente impreparato a quell’eventualità. Ci avevo pensato, avevo passato notti insonni a chiedermi come fosse John adesso, come vivesse, come fosse diventato. Adesso che ne ho l’occasione, adesso che ho la possibilità di vedere con i miei occhi, sono terrorizzato.
“No” allontano quella tentazione da me, alzandomi dalla poltrona e raggiungendo la soglia della stanza, guardando in basso. “Lo rivedrò il giorno in cui busserò alla porta di casa nostra”.
Ho timore che quello che sto facendo non serva a nulla, che io stia davvero impazzendo per qualcuno che ha ormai voltato pagina, estirpando ogni ricordo legato alla nostra vita insieme come erbaccia infetta. Ho paura che lui sia andato avanti, lasciandomi inevitabilmente indietro.
Mio fratello solleva un sopracciglio, sorpreso. E’ evidente che la mia non sia la risposta che si era aspettato. Si siede di nuovo sulla comoda poltrona e appoggia i fogli accanto al suo bicchiere. Annuisce. Probabilmente, ha compreso.
“Tienilo stretto a te, fratellino” mi augura poi, chiudendo gli occhi e abbandonandosi a quel principio di oblio che precede il sonno. “Fa che il tuo viandante lo scorga ancora, nella nebbia” sussurra appena, prima di cedere alla profonda stanchezza.
Tengo lo sguardo fisso su di lui e ascolto il suo respiro divenire più regolare e cadenzato, mentre le sue parole riecheggiano nella mia testa come se questa fosse una sconfinata stanza vuota.
“Lo farò” bisbiglio anch’io, anche se so che non può sentirmi. “Lo giuro”.
 
 
Quando lo vedo, in piedi davanti alla porta di camera mia, il mio unico pensiero è quello di essere morto.
Probabilmente è successo giù a Brixton ed è divertente a ben pensarci, perché credo sia successo in prossimità della nostra prima scena del crimine. Quei due brutti ceffi che avevo sapientemente evitato si erano certamente avvicinati, appropriandosi dei pochi spiccioli che avevo addosso e lasciandomi lì morente sull’asfalto malmesso.
Oppure, è successo durante la passeggiata al vecchio molo, inciampando in uno dei vecchi ormeggi per le barche, tramortito e probabilmente affogato.
Perché Sherlock non può essere vivo e di conseguenza, non lo sono nemmeno io.
Non dico nulla e rimango soltanto a fissarlo come se i miei occhi non ne abbiano mai abbastanza, come se qualcuno abbia improvvisamente cambiato le regole e non mi occorra più respirare per vivere ma solo tenere lo sguardo su di lui il più a lungo possibile. Sento le lacrime bruciare agli angoli degli occhi e il fiato graffiare le pareti della mia gola e dei miei polmoni come carta vetrata, appena metto a fuoco la sua intera figura e mi rendo conto di cosa io abbia davanti.
Lui è come me. Lui è me.
Non parlo solo degli abiti che ha indosso, della camicia rossa identica alla mia che lui adorava o del sottile maglione a maniche lunghe che mi ricorda un regalo di Harry di tanti anni fa. Non parlo dei jeans scuri che lui amava vedere su di me e che aveva sempre professato di odiare su se stesso, né del giaccone verde scuro che è fradicio della pioggia che fuori cade incessante.
Io vedo me nei suoi occhi, nel tremore delle sue mani, nel modo in cui è in piedi sulla soglia e soprattutto, nel modo in cui i suoi occhi cercano i miei avidamente.
E’ quello stesso sguardo che riservavo a lui dopo un caso particolarmente pericoloso, dopo che entrambi avevamo sfiorato la morte uscendone sani e salvi ancora una volta. Quello sguardo che stava a significare ‘eccoci qui, ce l’abbiamo fatta, è tutto finito e sono ancora con te amore mio’.
Non sono mai stato solo. Lui, dovunque sia stato nascosto, qualunque cosa abbia fatto in tre lunghi anni di lontananza ha sempre portato il mio cuore nel suo cuore, come mi aveva esortato a fare in quel suo ultimo messaggio.
Mi sollevo dal letto in meno di un attimo e lui non fa in tempo ad emettere un flebile bisbiglio che io catturo quelle labbra con le mie, imponendomi in un bacio disperato, folle, affamato.
Lui è sorpreso –probabilmente certo che il mio primo istinto sarebbe stato quello di un pugno in pieno viso- ma avvolge le braccia intorno alla mia vita e asseconda il bacio con la mia stessa appassionata ingordigia.
La sua lingua è dolce, sa di tè e biscotti al cioccolato e non voglio immaginare che sia stato in qualunque altro luogo prima di tornare da me, come se io abbia bisogno di rivendicare la proprietà assoluta di quest’uomo, trovando intollerabile il pensiero che un altro abitante di Londra lo abbia rivisto vivo e vegeto prima di me. Quella inaspettata gelosia mi rende più frenetico nei movimenti e lo stringo ancora più forte, sfilandogli il maglioncino con foga e dedicandomi poi –e sembrano cento, mille, miliardi- ai bottoni della sua camicia.
“John” lascio le sue labbra libere per qualche secondo, e sentire nuovamente quel nome pronunciato dalla sua voce mi fa quasi perdere i sensi. Gli sfilo la camicia mentre lui fa lo stesso con la mia t-shirt grigia e lo attiro di nuovo a me, sentendo la delicatezza della sua pelle -la mia pelle- contro la mia –la sua-.
Accarezzo i suoi capelli, corti come lo erano i miei, e lui lascia scorrere le mani tra le mie ciocche, stringendole con dolcezza e attirandomi nuovamente in un bacio. Non oppongo resistenza, è l’ultimo dei miei pensieri. Abbandono ogni difesa, ogni ritrosia, ogni tentativo di trovare una spiegazione a ciò che sto vivendo: se questo è un sogno, voglio viverlo in ogni attimo fino al risveglio.
Lui si sdraia sul letto e mi trascina con sé, non sopportando di rimanermi lontano anche per pochi secondi appena. Le sue mani lavorano incessanti ai miei pantaloni e sfioro il suo collo con la lingua, nel mentre, accarezzando ogni frazione di esso e riscoprendo ogni neo, ogni cicatrice, ogni sfumatura della sua pelle nivea adesso leggermente più abbronzata. Mi chiedo dove sia stato, ma nessuna domanda lascia le mie labbra. Ci sarà tempo, quando vorrà.
Uno scorrere veloce delle sue mani –le mie mani- lungo le mie gambe –le sue- e il pantalone è ai piedi del letto a far compagnia alla mia maglietta e alla sua camicia, mentre anch’io lo privo dei suoi jeans e mi abbandono su lui, ascoltando il suo respiro affannoso, pieno di aspettativa e desideri da soddisfare.
Poso un bacio lieve sulle sue labbra e lui afferra il mio viso tra le mani, tenendolo lontano quanto basta per osservarlo nella sua interezza. Fissa le mie labbra ancora incredulo, e sfiora con lo sguardo la curva del naso, il ciuffo di capelli che ricade sul mio occhio destro e il mio mento liscio, senza accenno di barba alcuno.
So cosa sta pensando, perché è ciò che ho pensato anch’io appena superato lo shock, lì fermo di fronte a lui sulla porta.
Sei come me, non lo hai dimenticato. Sei come me perché ti ho chiesto di essere il cuore del tuo cuore e tu non hai strappato quel foglio” il suo sguardo sembra dire, sussurrare e allo stesso tempo urlare.
Sospira, mentre una mano scivola sulla mia schiena fino alla base, dove si ferma, e sue labbra si piegano finalmente nel primo vero sorriso dell’intera serata. Scivolo sotto di lui, e poggia il suo capo contro la mia spalla, nella stessa posizione in cui amava addormentarsi anni fa, dopo una serata passata a rincorrere criminali per le strade di Londra.
Cor cordis” bisbiglia contro la mia spalla, solleticando la pelle morbida del mio collo. Bacio la sua tempia dolcemente, il cuore che batte a mille, la testa che gira vorticosamente ma senza fare male, nemmeno un po’.
“Sempre” io gli rispondo, mentre lo attiro in un nuovo bacio.


Non mi sarei mai aspettato un dono simile da parte di John, per quanto conoscessi la sua lealtà, la sua fedeltà e la profondità del suo amore per me.
Ho visto me stesso riflesso in lui. Ho rivisto ciò che ero tre anni fa e che dentro di lui, grazie a lui, ho continuato ad essere anche durante la mia lontananza.
Ho rivisto me stesso nei suoi occhi, nella piega leggera delle sue labbra, nelle braccia tenute rigide lungo i fianchi e nelle mani, le dita contratte come se in procinto di sferrare un colpo.
Come ho potuto anche solo pensare che lui avesse dimenticato?
Inconsapevolmente, ignari delle rispettive intenzioni, entrambi abbiamo continuato a vivere, l’uno nel corpo dell’altro.
Spinge la sua bocca sulla mia ancora una volta e non ho la minima intenzione di impedirglielo, come non mi opporrò mai a qualunque cose deciderà di concedermi o non concedermi questa notte. Se vorrà continuare a baciarmi fino a consumare le mie labbra con le sue, io glielo lascerò fare; se vorrà stringermi a sé per tutta la notte, rimanendo soltanto abbracciati ad ascoltare i fruscii dei nostri respiri, io accetterò di buon grado.
Mi lascia il comando del bacio e sento il mio cuore infiammarsi di fronte a quell’arrendevolezza che non meriterei dopo ciò che ho fatto, quasi piangendo davanti al suo totale abbandonarsi nelle mie braccia.
Passo di nuovo una mano tra i suoi capelli –o sono i miei? Forse lo sono, lo sono sempre stati- amando la sensazione dei riccioli disordinati sotto il mio palmo, e la lascio scivolare lungo il suo petto–sentendolo mugolare per la sensazione piacevole- fino ad afferrare saldamente il suo fianco. Lui intreccia le dita alla base della mia schiena, poco sopra il mio coccige, probabilmente già conscio di ciò che ho intenzione di fare –è me, dopotutto- e rivolgendomi un sorriso incoraggiante.
“Ti amo” gli sussurro, e non ho mai detto qualcosa di più vero in vita mia. Lui sorride e annuisce, sembra dire ‘io sono te, so che mi ami e non avresti neanche più bisogno di dirlo’ e pone un bacio sul mio cuore, accelerandone il ritmo già frenetico.
“Ti amo anch’io” John mi dice –o Sherlock mi dice, non ha più importanza- mentre una lacrima scivola lungo la sua tempia fino a bagnare il cuscino. “Ti amo anch’io e non ti ho mai lasciato andare”.
E’ tutto quello che mi serve perché la mia mano si sposti tra i nostri corpi, lì dove entrambi ne abbiamo più bisogno, e strappi da entrambi un gemito troppo a lungo represso, troppo a lungo riecheggiato in una stanza vuota o nel cubicolo freddo di una doccia, senza nessun altro con cui condividerlo se non l’immagine sbiadita di un ricordo.
E’ tutto ciò che mi serve perché due dita umide lo accarezzino in quel luogo che io –io o lui, la stessa identica cosa- avevo avuto il privilegio di esplorare per primo, rilassandolo e preparandolo a ciò che succederà. Lui artiglia la mia schiena, ma le sue unghie sono corte –le mie unghie lo sono sempre- e il dolore è solo lieve e altro non fa che aumentare la mia voglia di lui, il mio desiderio di unirmi nuovamente con l’uomo che amo e amerò per tutta la vita.
E’ facile, veloce, intenso come se non fossero passati affatto tre anni ma poche ore appena. E’ naturale e posso quasi sentire il suo leggero fastidio iniziale –è anche il mio-, o il leggero gemito di John, pian piano che scivolo in lui con lentezza –è il mio stesso flebile mormorio- fin quando non sono in lui completamente e John reclina la testa sul cuscino, sopraffatto.
Sherlock e John, in questo momento, non esistono più. O meglio io potrei essere lui e lui me, o viceversa o entrambi potremmo essere ognuno dei due allo stesso momento.
Mi esorta a muovermi e perdo ogni briciolo di lucidità quando la mia guancia è sulla sua e le mie lacrime –quando ho iniziato a piangere?- si mescolano alle sue.
“John” dice lui all’improvviso e capisco che nonostante sia il suo nome quello sulle sue labbra non è a se stesso che sta rivolgendo quel sussurro implorante e pieno d’amore.
“Sherlock” rispondo io, muovendomi più velocemente e senza poter fare a meno di baciarlo ancora una volta. “Sherlock, Sherlock, Sherlock”.
D’ora in poi potrei rivolgermi a lui come a me stesso e lui potrebbe fare lo stesso con me.
Nulla importerebbe, niente sarebbe sbagliato, andrebbe più che bene e sarebbe meraviglioso, assolutamente giusto così.
I nostri corpi e i nostri cuori sono adesso fusi insieme, così tanto che nessuno riuscirebbe a distinguerci l’uno dall’altro, ed è quello che voglio, quello che entrambi desideriamo.
Non siamo più due entità separate in questo momento, ma anche quando io lo lascerò andare e lui abbandonerà il nostro abbraccio, continueremo ad esistere l’uno nell’altro.
Tu sei me stesso più di quanto lo sia io” sussurro sulle sue labbra quello che Mycroft ha detto a me settimane fa, e lui sorride, ride e allaccia le sue gambe al mio bacino, spingendomi ad andare più in fretta perché è vicino, mi vuole, mi ama e lo ha sempre fatto.
Solo me.
Sono egoista e lo so, ma non posso farci nulla. E in fondo, non voglio nemmeno far qualcosa per smettere di esserlo.
“E tu sei il mio cuore” mi dice, la voce roca e instabile. Improvvisamente, poi, lo sento stringersi intorno a me, trascinandomi nelle onde del suo orgasmo che è anche il mio, stringendomi per evitare che scivoli via da lui prima del tempo –minuti, ore, o giorni interi-, prima del necessario, come temendo che io possa scappar via di nuovo o che il sogno finisca qui.
Rimaniamo abbracciati, stretti così forte che i muscoli quasi fanno male, ma non accenniamo ad allentare la presa. Sento il respiro affannoso di John sulla mia spalla e i suoi singhiozzi soffocati contro il mio petto e gli accarezzo lentamente la schiena, disegnando cerchi sulla pelle tesa delle sue spalle, con dolcezza.
Aspetto che anche il mio respiro si regolarizzi e che la sua tensione si plachi e, finalmente, lo vedo riemergere dal rifugio della mia spalla e alzare di nuovo gli occhi –quegli occhi che hanno popolato i miei sogni e le mie fantasie diurne-, per incontrare i miei.
Mi sorride ma rimane in silenzio e per me quel gesto vale più di mille parole, più di qualunque frase di circostanza o ringraziamento. Strofina il naso contro il mio collo come per imprimere nella mente il mio profumo, e io faccio lo stesso con lui, inspirando il mio odore che pervade la superficie della sua pelle e scorgendo più sotto quello muschiato della sua. Mi è mancato. Mi è mancato come l’aria.
“Me lo dirai, un giorno?” poi improvvisamente mi chiede, e anche se non ha specificato cosa, io capisco benissimo a cosa si riferisca. E’ un perché che vuole.
“Certo” gli dico e non c’è alcun dubbio su questo punto. Lui deve sapere e saprà, ogni più piccolo particolare. Gli racconterò ogni dettaglio di ogni singolo giorno passato lontano da lui. “Presto”.
John annuisce e finalmente si rende conto che non è un sogno e che il giorno sta sorgendo pigramente al di fuori del nostro appartamento, cancellando il blu scuro della notte e rischiarandolo con i toni chiari dell’aurora.
“John” poi mi dice, chiudendo gli occhi e rannicchiandosi ancora contro la mia spalla. Capisco che è stanco, sopraffatto dagli eventi di quella notte e che ha bisogno di riposo e di un lungo sonno.
“Sherlock” sussurro io contro la sua tempia, cullandolo a me con dolcezza. Si addormenta nel mio abbraccio, tenendo le dita di una mano intrecciate con le mie, e guardarlo abbandonarsi al sonno con espressione serena e rilassata è probabilmente una delle cose più belle che io abbia mai visto in vita mia.
Ripenso al quadro di mio fratello, quello dove l’ultima volta avevo visto me stesso contemplare l’ignoto e un incognito futuro. Se mi trovassi nuovamente a casa di Mycroft, seduto su quella stessa poltrona, e mio fratello mi ponesse la stessa domanda di quel giorno, la mia risposta sarebbe un’altra.
Risponderei che è me stesso che vedo in quel quadro, ma un me stesso diverso, questa volta.
Mi identificherei comunque nel Viandante ma non resterei comunque a scrutare nella nebbia, chiedendomi cosa nasconda sotto la sua coltre lattea. Osserverei per l’ultima volta l’ignoto di fronte a me, ma non definirei ciò che ho davanti il mio futuro, bensì il mio passato.
Poi volterei le spalle e lascerai quel passato dietro di me, camminando a passo svelto verso il futuro che ignoto non lo è più, senza mai voltarmi indietro, ansioso di raggiungerlo e viverlo.
E quel futuro non ha che un volto.
John.
 
 


 
*

¹ “During his discussion of music in The Cardboard Box, Holmes told Watson that he owned a violin made by the renowned violin maker, Antonio Stradivarius. Holmes believed it to be worth at least five hundred guineas, which he had purchased for some fifty-five shillings on Tottenham Court Road.”

² Un bellissimo quadro, almeno a mio parere, e alcuni affermano che Doyle si sia ispirato a quest’opera per la stesura de ‘Il Mastino dei Baskerville’. Qui la scheda.

  
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