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Autore: Biecamente    29/01/2013    7 recensioni
«Lukding, smetta di importunare l’ebreo. Sa benissimo che determinate ricompense non le possono riscotere i semplici ufficiali» Entrò d’un tratto un uomo. Altezza imponente e numerose insegne onorifiche non facevano altro che evidenziare l’alto grado della figura appena entrata. Sebbene il volto sbarbato e dagli occhi dolci rasserenarono l’animo del ragazzo, questo non poté evitare di sussultare alle sue seguenti parole. «Quell’ebreo tra l’altro è mio, e sono stanco di doverlo ricordare di continuo. Voi SS, sapete essere davvero stupidi quando volete»
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Guerre mondiali, Olocausto
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L’ebreo dagli scuri capelli lunghi e l’ariano dagl’occhi dolci

a tale by Biecamente








Le forti braccia ariane lo stringevano mentre l’ingorda bocca rovente si nutriva lasciva della sua pelle tremante. Il figlio di Israele gemeva al tocco di quelle labbra ruvide che lo accarezzavano con cotanta sensualità al semplice scopo di deriderne ancora più le umili condizioni. Le dita lunghe ornate da unghie tonde e ben curate gli passavano carezzevoli sul capo ormai privo dei suoi bei capelli scuri. Gl’occhi giudei dal liquido iride nascosto dalle ciglia nere fissavano imperturbabili il soffitto della ricca dimora del tedesco, mentr’egli s’insinuava sempre più vorace nel suo proprio essere.
Come fosse giunto tra quelle calde braccia, costretto a lunghi amplessi che gli toglievano importanti ore notturne riservate al sonno, a quella tale situazione era cosa a lui sconosciuta. Sapeva solo, fin dove giungeva il suo sapere, che appena deportato nel Lager ad egli prestabilito, coi suoi soffici capelli dolcemente posati sulle spalle, gli occhi perennemente vacui e appannati, alcune SS avevano cominciato ad esprimere i loro pareri positivi sulla sua persona e pian piano tali sparute voci s’erano unificate ad una sola raggiungendo così anche le più alte cariche tedesche. Omaccioni dai volti rubicondi e biondi baffetti, con spesso mogli e figli alle spalle, che subito visto il giovane giudeo carezzarono desideri proibiti. Quindi da neo-deportato qual era, smilzo nella assai più larga tenuta carceraria, già affatto preso dalla nuova e disperata situazione, si ritrovò fin da subito circondato da generali e comandati palesemente ariani che non perdevano occasione di accarezzargli la schiena coi lacci di cuoio delle fruste, di causalmente palparlo, di spiarlo con disattenzione mentre rabbrividendo si sciacquava nel getto gelido. Il loro obiettivo comune era uno solo: le sue carni.
Sicché il suo soggiorno forzato in quel campo che di suo prospettava grande miseria e angoscia, raggiunse in pochi mesi l’apice, smagrendolo e facendogli raggiungere la stessa desolazione nell’animo che solo i più anziani lì conoscevano. Non riusciva a mangiare, se cibo la si vuole definire la brodaglia a loro destinata; non riusciva a seguire il passo dei compagni durante le marce stabilite, spesso sbagliava e si accasciava a chi lo precedeva causando risa di scherno dei carcerieri.


Una volta svenne. Semplicemente gli si piegarono le ginocchia e cadde di peso per terra. Gli altri che avevano già da tempo compreso tutto cercarono di non far notare agli sguardi maligni delle SS la situazione, preoccupati che l’avrebbero di certo ucciso non essendo ormai più in condizioni per lavorare. Ma non riuscirono a sostenere il suo peso e non ci fu più niente da nascondere. Al ragazzo però non fecero niente.
I suoi melanconici occhi chiari si riaprirono qualche ora più tardi. Sentiva distintamente il calore delle coperte a fasciargli il corpo e l’umidità di una pezza bagnata postagli sulla fronte. Non sapeva neanche che all’interno del campo ci fosse una farmacia, o piccolo pronto soccorso. Non riusciva a credere di essersela cavata poi con così poco. Girava gli occhi all’interno del piccolo locale dalle pareti candide e dal vago sentore di disinfettante.
«Ma tu guarda, la nostra principessina si è svegliata» udì distintamente la voce dal cupo tedesco provenire da un angolo imprecisato della stanza. Il giovane rivolse lo sguardo ancora annebbiato verso l’origine di quella voce dove distinse le scure figure di un paio di SS sghignazzanti. Fece per alzarsi ed eseguire una qualche forma di saluto, quando una mano pesante lo rispinse contro il cuscino.
«E no, piccolo ebreo, resta pure comodamente disteso. Non ti preoccupare di ringraziarci per non averti ucciso… tanto il momento per sdebitarti ci sarà» ghignò un altro ufficiale. Il sorriso sghembo dai denti storti era talmente vicino al suo pallido viso che poteva sentire l’odore forte del cibo buono dal tedesco precedentemente ingurgitato. Poteva distintamente vedere le singole macchie biancastre che gli segnavano la pelle. Ma i suoi occhi ghiaccio erano quanto di più agghiacciante in quel volto terribile: parevano elencare i singoli pensieri perversi che prendevano pian piano forma nella sua mente. Il giovane giudeo rabbrividì all’incrociare quello sguardo e si ritrasse leggermente sperando l’altro non notasse la sua paura. Che i tedeschi erano come i cani: la fiutavano e l’odoravano dalle narici.
«Lukding, smetta di importunare l’ebreo. Sa benissimo che determinate ricompense non le possono riscotere i semplici ufficiali» Entrò d’un tratto un uomo. Altezza imponente e numerose insegne onorifiche non facevano altro che evidenziare l’alto grado della figura appena entrata. Sebbene il volto sbarbato e dagli occhi dolci rasserenassero l’animo del ragazzo, questo non poté evitare di sussultare alle sue seguenti parole. «Quell’ebreo tra l’altro è mio, e sono stanco di doverlo ricordare di continuo. Voi SS, sapete essere davvero stupidi quando volete». Non riusciva a credere a quanto le sue orecchie avevano udito. E sì che era ebreo, che non aveva alcun diritto ormai, sì che era stato trattato negli ultimi mesi peggio di un animale, che era stato frustato, che aveva visto morire i suoi compagni così come le vacche malate venivano portate al macello, sì che aveva sopportato tutto quanto, le scarpe dure, i vestiti larghi… Ma quello no. Ne andava della sua umanità, quel briciolo che gliene era rimasta, quel briciolo che non gli era stato portato via assieme ai capelli, ai vestiti caldi, alla sua famiglia, alla casa, ai libri… Non poteva credere che un uomo dallo sguardo sì dolce si spartisse i prigionieri con gli altri generali, come loro non fossero altro che una mercanzia.
Probabilmente l’uomo notò il verso che avevano preso i suoi pensieri, forse dall’iride non più appannato, forse dal sangue che ribolliva sotto il sottile strato delle guancie, sotto l’incrostatura del fango. «Che hai ebreo? Noto con piacere che il concetto del Lager non ti è ancora ben chiaro. Be’ mi toccherà rispiegartelo, ma fa niente… mi piace fare il professore» e sorrise, un sorriso intelligente sulle labbra chiare. Le SS risero maligne.
Altro sangue affluì alle gote del giovane, questo volta non per ira, però, semplice imbarazzo. Come riusciva ad essere inquietante generale ariano e semplice uomo eccitato nella stessa frase? L’aveva fatto impallidire in principio e sgranare con timore gli occhi, e poi abbassare lo sguardo col volto rosso di disagio.
«Vedi», egli gli alitò carezzevole all’orecchio, le dita lunghe poste sotto il mento ad alzargli il capo, «è così che ti voglio… Le guancie rosse di vergogna e il desiderio a malapena represso».
Sentì il cuore sussultare e il rossore acuirsi. Quelle labbra che col loro moversi gli solleticavano il padiglione, quell’alito caldo che umido gli si posava sulla pelle. Voleva nascondere il volto nelle palme delle mani, ma ben sapeva quanto quelle iene delle SS ne avrebbero riso. Quindi sbatté le palpebre sugl’iridi chiari noncurante delle chiazze rosse sulle guancie e rimase immobile, imperturbabile anche alle provocazioni e ai doppi sensi degli ufficiali, chiuso nel suo rigido guscio di deportato, di vittima di un sadico carnefice.


 
I polpastrelli dell’ariano parevano ora alla sua pelle eccitata freschi e si beava degli arabeschi che vi andava disegnando, una volta terminato l’amplesso e giaciuti uno accanto all’altro. Il tedesco poggiò una palma sulla sua guancia nascondendovela e lo costrinse a volgere il capo nella sua direzione. Gl’occhi giudei si posarono sulla mascella ben delineata dell’altro, sulla fronte madida di sudore dov’erano rimaste imprigionate sparute ciocche bionde, seguirono il tratto dritto del bel naso sino alle dolci curve delle labbra che si mossero piano nel silenzio pronunciando alcune parole che l’ariano si era sforzato d’imparare.
«Ti amo», egli disse in giudaico.


«Sveglia! Sveglia!», urlò un’SS incitando i carcerati a muoversi. «Non vestitevi…» soggiunse a un tratto «Si va a fare la doccia!».
Alcuni dei suoi compagni esultarono quasi a quell’ultima affermazione, felici di potersi finalmente togliere un po’ del fango che s’era loro incrostato addosso. Uscirono tutti assieme con ancora quello che rappresentava il loro pigiama: per chi soffriva di più il freddo gli stessi vestiti che portava durante il giorno, chi aveva più caldo si azzardava a togliersi la giacca. A piedi nudi camminavano tra le viottole fangose, osservando i restanti residenti del Lager procedere com’era solito verso la miniera.
Se solo il giovane giudeo che una volta portava i bei capelli lunghi poggiati sulle spalle, non fosse stato così stanco. Egli di certo avrebbe intuito ciò che stava accadendo e chissà, forse si sarebbe ribellato, avrebbe urlato e gridato che non aveva alcuna voglia di andare alle docce. Invece era stanco, tanto stanco. Gli occhi annebbiati gli si chiudevano quasi mentre seguiva i suoi compagni. Quella notte non era riuscito a dormire quasi per niente: le parole a lui confessate dal nobile generale tedesco che l’aveva preso in custodia continuavano a riecheggiargli nelle orecchie, quelle e numerose domande sul se fosse a loro possibile amarsi una volta che la guerra avesse avuto fine.
Arrivati alle docce, si svestì quasi meccanicamente dei miseri abiti che aveva indosso e seguì gli altri nella sala docce. Non fece il collegamento con ciò che l’ariano gli aveva raccontato n elle lunghe ore di passione. Non pensò affatto che quello che sarebbe uscito non era acqua. Semplicemente immaginava i dolci occhi dell’uomo che aveva imparato ad amare e immaginava la sua gioia una volta che la guerra fosse finita.
Poi uscì il gas. Gas velenoso che entrava rovente e bruciante nei polmoni. Gas che aspirato non dà possibilità di salvezza. Gli uomini caddero uno dopo l’altro protendendo le mani a coppa verso la gola. Anche il giovane ebreo dagli occhi chiari cadde. Ma lui non si agitò molto mentre la vita gli veniva risucchiata a forza dall’interno. Solo una lacrima gl’inumidì lo sguardo e il suo unico pensiero fu a quelle labbra morbide che mormoravano in giudaico “Ti amo”. 





  
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