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Autore: Violet_forevah    30/01/2013    1 recensioni
Gli occhi sono lo specchio dell'anima. Ogni sentimento, ogni emozione che proviamo si riflette nel nostro sguardo. Cosa si prova a poter sentire tutto quello che provano le persone intorno a te? Quale sentimento riflettono i tuoi occhi, in quel caso? Tutti o nessuno? Io, Sophie Richardson, ho la risposta a tutte queste domande.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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Dicono che prima di morire vedi tutta la tua vita scorrerti davanti agli occhi: tutti i momenti, belli o brutti che siano; quelli che avresti preferito dimenticare e quelli che non pensavi di ricordare. Per me non è stato così. Quando la macchina di mio padre è slittata fuori scontrandosi su un grosso albero che, con tutta probabilità, non sarebbe dovuto essere lì, l’unica cosa che ho visto è stata la sua faccia, distorta da un urlo e dal faticoso ma vano tentativo di ritornare nella corsia. E poi… il buio.
Dopo quelli che a me sembrarono millenni, ripresi conoscenza, su una barella. Era tutto offuscato, eppure riuscii a distinguere il paramedico che mi urlava parole che a stento sentivo.  Mi chiedeva il mio nome, se sapessi dove mi trovavo. “Dove sono?”, pensai. Volevo chiederglielo, ma non riuscii ad aprire la bocca; ero bloccata. Poi divenne di nuovo tutto nero.
 
Mi risvegliai con un forte mal di testa. Quando aprii gli occhi fui assalita dalla luce del sole, così potente da stordirmi. Avevo una flebo nel braccio sinistro, collegata ad una macchina che emetteva un lento e regolare ‘bip’.  Alzai la testa a fatica e scorsi mia madre seduta su una poltrona vicino alla porta della stanza. Sembrava invecchiata di dieci anni: i suoi occhi, solitamente allegri, erano cerchiati da occhiaie profonde; la bocca era tesa, ma non sorrideva. Quando si accorse che ero sveglia venne vicino al mio letto, mi accarezzò la fronte e mi sussurrò: «Ei, piccola. Come ti senti?». Aveva assunto quel tono che usava quando ero bambina e mi sorrideva tristemente. Fu allora che mi ricordai di mio padre. «Dov’è papà, mamma?», gemetti con voce roca. I suoi occhi si riempirono di lacrime. «Lui è…non ce l’ha fatta, Sophie». Quelle parole mi colpirono come una doccia fredda. “Non può essere vero”, pensai. “E’ solo un brutto sogno, solo uno stupido incubo.” Ma non era così. Mio padre era morto…ed era tutta colpa mia.
 
Tutto quello che riuscivo a sentire era dolore. Ero stata io a distrarre mio padre dalla guida, provocandolo dicendogli che sarei andata a dormire dalla mia amica Amy, anche se lui non voleva. L’avevo fatto arrabbiare.
Mia madre tentò di consolarmi, dicendo che non era colpa mia, che lui non avrebbe mai voluto vedermi così.
Ma io non ce la facevo. E più il senso di colpa aumentava, più sentivo la mia testa esplodere.
 
Due giorni dopo il medico decise che ero sana fisicamente abbastanza per tornare a casa; solo fisicamente, ma non mi importava.  Quel pomeriggio ci sarebbe stato il funerale e dovevo esserci. Mia mamma mi portò in ospedale un suo vestito di pizzo nero, molto semplice. Mentre mi cambiavo mi guardai allo specchio: mi sembrava assurdo vedermi sempre uguale, con il mio fisico esile da bambina, i capelli scuri mossi che circondavano il mio viso forse un po’ troppo squadrato, e che mi scivolavano sugli occhi grandi e scuri da cerbiatto, quando nella mia vita erano cambiate così tante cose. Coprii con il trucco i segni del pianto ma non riuscii a togliere la tristezza dai mie occhi. “Com’era quel proverbio?”, mi chiesi. “Gli occhi sono lo specchio dell’anima.” Ed era così vero.
 
 
Il cimitero di Evanston, Illinois, era così piccolo che mi chiesi dove mettessero tutti i cadaveri; non eravamo così pochi in quel paesino, dopo tutto.  Alla cerimonia partecipammo in pochi: i miei nonni morirono prima che nascessi e mio padre non aveva fratelli. Per me e mia madre era meglio così, non volevamo sentire parole di finto cordoglio provenire da sconosciuti, gente che ci avrebbe compatito senza nemmeno conoscerci. Durante tutto il discorso del pastore fissai la lapide di marmo bianco. Ci avevano inciso poche parole, che per me non avevano significato: “Jack Richardson: 18 ottobre 1962- 27 luglio 2012. In ricordo di un amabile marito e di un padre devoto.” “ Davvero credevano che bastassero quelle parole per ricordare mio padre? Lui non credeva in questo, nella vita dopo la morte. Diceva sempre che quando sarebbe arrivato il suo momento, avrebbe preferito essere cremato e sparso nella natura” , pensai. Ma ormai non aveva più importanza. Dopo la cerimonia tornammo a casa a piedi, senza dire una parola. Mi fissai le scarpe per tutto il tragitto, non volevo vedere l’espressione di mia madre, mi bastava starle vicina per sentire il suo dolore. Avevo un mal di testa tremendo, non voleva finire. Come se non avessi già abbastanza problemi. Arrivammo a casa e io corsi subito in camera mia, al secondo piano. Mi buttai sul letto, tolsi il vestito quasi strappandolo via. Volevo solo mettermi il pigiama e dormire. Dormire, dormire, dormire… finché tutto il dolore non fosse scomparso. Andai in bagno per lavarmi i denti e mi fermai un secondo davanti allo specchio... rimasi paralizzata vedendo il mio riflesso. I miei occhi, di solito scuri, quasi neri, erano bianchi. Bianchi e lucenti, come fatti di quarzo. Sbattei più volte le palpebre con violenza. Poi ricontrollai, ed era di nuovo tutto normale. Tornai in camera dimenticandomi completamente di lavarmi i denti. Mi infilai nel letto. “Era solo un’illusione ottica”, pensai. “Avevo gli occhi lucidi e hanno riflesso la lampadina del bagno.”
 
Una parte di me lo credeva veramente, che era solo una reazione al mal di testa e al troppo piangere. Ma l’altra parte non riusciva a togliere quell’immagine dalla testa, e più la rivedevo, più mi sembrava reale.
 
 
 
  
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