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Autore: LilithJow    31/01/2013    8 recensioni
[..] Gli occhi di Johanna mi fissavano ancora e - non per mia impressione - si erano avvicinati parecchio al mio viso, più di quanto avessero fatto giorni prima, a scuola.
Ma, proprio come quella volta, qualcosa accadde: ancora quelle ombre rosse che le attraversarono l'iride. Più forti, più scure, più continue: le vidi chiaramente, e non era né un riflesso di luce né una mia fantasia né, tanto meno, per via di una botta in testa. Li fissai, incredulo, ma allo stesso tempo incuriosito: a cosa era dovuto? Non ne avevo la benché minima idea. Forse internet mi avrebbe dato delle risposte, oppure – cosa molto più probabile – riempito di ansie, paure e paranoie.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies Saga'
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Capitolo 2
"Tiny dreams"


«Simon! La colazione!».

La voce acuta di mia madre provocò il primo risveglio traumatico nella nuova casa. Era strano come si percepisse a tono così elevato, anche a metri e metri di distanza, in quell'enorme appartamento.
«Arrivo!» urlai, in risposta, mentre mi trascinavo fuori dalle coperte, a fatica. Non avevo molte energie. Avevo passato la sera prima davanti al pc, a documentarmi il meglio possibile sulla nuova scuola: imparai a memoria l'orario di quel semestre e tutti i nomi dei professori. Così, per fare una bella impressione. Il fatto di iniziare a metà anno era qualcosa di arduo, lo sarebbe stato per chiunque, ma, stranamente, quella volta mi piacque essere fiducioso.
Prima di raggiungere la cucina, dalla quale proveniva un sottile odore di pancake, mi buttai sotto la doccia del mio bagno personale – amavo avere un bagno personale. Il getto d'acqua calda riuscì a tonificarmi per bene e a svegliarmi quasi del tutto.
Mi vestii rapidamente, indossando la divisa scolastica che l'Istituto mi aveva fatto gentilmente trovare a casa, insieme ad una calorosa lettera di benvenuto. Non erano esattamente abiti che mi appartenevano. Ero sempre stato abituato a jeans strappati e t-shirt di vari colori. Passare ad un completo con pantaloni grigi a piega centrale, maglioncino verde e cravatta rossa, era davvero un gran cambiamento.
“Ma questa è la nuova vita, giusto, Simon?” suggerì la mia coscienza e non potei non darle ragione.
Infilai il mio fedele quaderno rosso nello zaino di pelle nera che mia madre si era ostinato a comprarmi, nonostante io fossi in disaccordo, e andai in cucina, per la colazione.
Mangiai tutto in assoluta fretta. Ero impaziente e non sapevo nemmeno perché. Forse era la troppa ansia, allegata al panico del cambiamento e al desiderio impellente di cominciare, finalmente, qualcosa di bello e nuovo. Mia madre mi fissò, ridacchiando, e io feci una smorfia, non replicando a parole, altrimenti il cibo mi sarebbe uscito fuori dalla bocca e avrei combinato un disastro.
Alla fine, ormai più che sazio, mi alzai di fretta, saltellando appena.

«Ehi, piccolo campione! Ma che fretta hai?».

Storsi le labbra. «Piccolo campione? Sul serio, mamma? Mi chiamavi così quando avevo cinque anni».

«Beh, sei pur sempre il mio bambino, non credi?». Roteai gli occhi. Spesso si lasciava prendere dalla nostalgia del passato e io non potevo far nulla per impedirlo, e nemmeno volevo farlo. Ero tutto ciò che rimaneva a mia madre, dopo l'abbandono senza scuse di mio padre. Per me, quella nuova vita se la meritava anche e soprattutto lei.

«D'accordo» esclamai «puoi ancora chiamarmi così, ma solo quando siamo io e te. Intesi?».

«Oh, sì, capo!». Rise. «Comunque, ho già parlato al telefono con il Preside della tua scuola. E' tutto a posto, quindi non serve che ti accompagni io, anche perché stamattina è anche il mio primo giorno allo studio e...».

«Mamma!».

«Cosa?».

«Pensavo mi accompagnassi in auto! Avrei mangiato più in fretta se avessi saputo che avrei dovuto prendere l'autobus!».

«Si può mangiare più in fretta di quanto hai fatto tu?».

Strabuzzai gli occhi, allargando le braccia e lei rise ancora. «Oh, scusa, tesoro» disse, cercando di ricomporsi. «Non mi hai fatto finire. Non posso accompagnarti io a scuola, ma ci sarà un auto dell'Agenzia che ti porterà a scuola, con tanto di autista in divisa».

«Che cosa?!». Ciò che mi fuoriuscì dalla bocca fu più che altro un urlo stridulo che avrebbe potuto tranquillamente appartenere ad una dodicenne. «Ho un'autista privato?».

«Non esageriamo adesso. E' solo un piccolo favore ed è temporaneo».

Non diedi molta attenzione alle sue ultime parole. Possibile che stesse andando tutto in meglio e la strada davanti a me fosse in discesa? La sensazione era quella.
Diedi un bacio veloce sulla guancia di mia madre, che ancora continuava a spiegarmi cose che entravano da un mio orecchio e uscivano tempestivamente dall'altro. Ciò che appresi e che, di fatto mi serviva, fu «E' una Mercedes blu scuro, si trova davanti al portone».
Evitai di prendere l'ascensore: per i miei gusti, ci avrebbe messo troppo tempo e mi precipitai giù per le scale. Stranamente, non avevo il fiatone quando arrivai in strada e mi ritrovai di fronte quell'enorme auto, con l'autista in abito d'alta sartoria proprio al fianco di essa. Per il sorriso che feci, le mie fossette dovevano aver scavato due profondi buchi sul mio viso.

«Buongiorno, signorino» disse l'uomo, indossando un'espressione cordiale.

“Signorino? Davvero?”.

«Salve!» replicai, con tono euforico e salii in auto. Partimmo poco dopo.

La scuola era parecchio distante da dove abitavamo: si trovava quasi in periferia, questo perché, a quanto pareva, era un luogo più tranquillo della trafficata metropoli, e non potevo discutere su ciò.
Quel mini-viaggio durò esattamente trentasette minuti, che passai tutti a fissare fuori dal finestrino, a osservare la gente affannarsi, correre da ogni parte, scendere per prendere la metro o arrabbiarsi al volante della propria auto. Nonostante quel casino, a me sembrò essere ancora tutto idilliaco.
L'autista – Tom, lessi dal cartellino appiccicato sul retro del sedile anteriore – rimase in silenzio per tutto il tempo, concentrato alla guida, quasi fosse un robot. Per un attimo, temetti che lo fosse davvero. Arrivato davanti al gigantesco edificio dalle pareti rossicce e rifiniture bianche, scesi dalla Mercedes blu, lanciando un cenno di saluto a Tom, che rimase impassibile, anche a quello. Abbozzai un sorriso sarcastico e mi diressi verso l'entrata dell'Istituto.

Quel posto era molto silenzioso, forse fin troppo. C'erano gruppi di ragazzi sparsi un po' ovunque, nel prato che circondava la scuola, interrotto saltuariamente da vialetti di pietra. Nessuno mi diede molta attenzione. Solo qualche sguardo distratto, prima di continuare le loro chiacchiere.

Questo accadde fuori. Non appena varcai la soglia del grande portone di legno, intagliato con decori floreali, l'atmosfera fu ben diversa. C'era chiasso, provocato dalle voci degli studenti vicino alla schiera di armadietti blu. Gli occhi di tutti mi ricaddero addosso e io rimasi paralizzato. Sopraggiunse anche un improvviso silenzio a complicare le cose. Alzai una mano, in segno di saluto generale a tutti, ma non ottenni nulla da parte loro.

“Questo è imbarazzante” pensai.

«Tu devi essere quello nuovo». Un ragazzo biondo, dagli occhi azzurri, tutto tirato nella sua divisa identica alla mia – solo che a lui stava meglio, io sembravo più un pinguino – mi si avvicinò, seguito da altri due, più bassi, mori e dalla pelle più scura.

«Già» replicai, riuscendo a riprendere fiato. «Simon Clarke».

«Simon! Benvenuto alla Hills High. Io sono Jason Boyd, loro sono Carl e Jerry».

«Piacere».

«Ti ambienterai presto. Qui dentro siamo in pochi, del resto, ci conosciamo tutti, più o meno».

«Bene, questo... Credo sia un bene, considerata la mia non propensione al fare nuova amicizie in tempi brevi». Jason scoppiò a ridere, incitando anche gli altri due a fare lo stesso. Le risate di Carl e Jerry furono palesemente sforzate. Aggrottai le sopracciglia, cercando di ridere come loro, ma la mia recita fu pessima, tanto che feci una smorfia, cercando di tornare a comportarmi normalmente, per quanto fosse possibile.

La prima lezione della mattina era lingua inglese. Jason, per mia fortuna – o sfortuna, dipendeva dai punti di vista – frequentava lo stesso corso e fu proprio lui, seguito dai suoi scagnozzi – quello erano – a guidarmi tra i corridoi dell'Istituto, che sembrava sempre più un labirinto. Da solo, lì dentro, non mi sarei mai orientato. Perché non avevo imparato a memoria anche la piantina dell'edificio? Progettai di farlo quella sera.
Per non dare troppo nell'occhio, mi diressi subito in fondo alla classe, dove sarei stato coperto da tutti gli altri studenti, ma il mio tentativo di raggiungere l'ultimo banco fu boicottato da Jason, che mi tirò per un braccio, costringendomi a sedermi al primo, proprio di fianco a lui.
L'insegnante era una certa Miss Boudlaire, una donna di mezza età, che entrò in classe sistemandosi il tailleur rosa pallido di Chanel e aggiustandosi i capelli, prima di sussurrare un timido «Buongiorno» ai propri allievi. Salutò me personalmente, ma solo perché ero “quello nuovo”.

L'argomento della lezione era Shakespeare. Il metodo di insegnare era totalmente diverso dalla vecchia scuola. Qui c'era partecipazione da parte di tutti, era più un dibattito, una botta e risposta tra studenti e insegnanti, anche se, in realtà, alla fine tutto si trasformò in una sorta di dialogo tra Miss Boudlaire e Jason, che rispondeva ad ogni sua domanda, guardando me con un sorriso ogni volta.
Quel ragazzo era stranamente intelligente, sebbene, dall'aspetto, avrei detto che assomigliasse di più ad uno stupido giocatore di football che puntava il proprio futuro sulla borsa di studio dello sport. Che poi, non sapevo nemmeno se l'Istituto avesse una squadra di football.
Jason rispose correttamente ad ogni domanda: data e luogo di nascita dello scrittore, titolo della prima opera, stile. Io non potei intervenire nemmeno una volta, almeno finché lui non sbagliò. 
Avevo come la sensazione che nessuno avesse il coraggio di contraddirlo, né i nostri compagni e, tanto meno, l'insegnante.
Alla domanda «Quali tragedie Shakespeare scrisse prima del 1600?», Jason disse «Romeo e Giulietta, Giulio Cesare e Amleto». Sbagliò e nessuno disse niente. Non so cosa mi spinse a parlare prima della professoressa. «In realtà» dissi «l'Amleto è stato scritto tra il 1600 e il 1602. Tra le tragedie prima del '600, manca Tito Andronico, che poi, è la prima vera tragedia scritta da Shakespeare».
Miss Boudlaire sorrise soddisfatta. «Molto bene, signor Clarke» esclamò. Anche Jason mi sorrise, ma il suo fu più che altro un gesto meccanico, di falsa cortesia.
Osai contraddirlo altre due volte in quella lezione, e la stessa cosa accadde per quasi tutta la mattinata, a chimica e a matematica. Era nata una sorta di sfida tra noi, e non sapevo ancora se fosse un bene o un male. Del resto, mi stavo divertendo a competere sotto qualcosa di culturale.

Purtroppo per me, non passò molto prima che potessi collocare da una delle due parti quella lotta, e non era una celestiale luce bianca.

Nella pausa pranzo, mentre camminavo seguendo le indicazioni per la caffetteria in quel labirinto di corridoi tutti uguali, mi sentii afferrare per le spalle, con forza e prepotenza. Senza che potessi urlare, dimenarmi o fare qualsiasi altra cosa, mi ritrovai in un piccolo stanzino, immerso nell'oscurità. Ero impossibilitato a muovermi, sentivo due paia di braccia bloccare le mie e, la parte peggiore, era che non riuscivo a vedere niente.

«Novellino, pensavo fossi più cauto». Riconobbi la voce di Jason. «Sai, chi arriva alla Hills High, normalmente si dà da fare per capire chi comanda e chi invece obbedisce. Se non ti fosse chiaro, IO sono quello che comanda. Il migliore della classe, il migliore della squadra di football, il migliore del team di Chimica. Tentare di entrare in competizione con me? Pessima mossa».

«Competizione? Io ho solo...». La mia frase venne interrotta bruscamente e un dolore lancinante mi attanagliò lo stomaco. «Questo è solo un avvertimento, Clarke» disse ancora Jason e il suo pugno di scagliò sul mio volto. Sentii scrocchiare le sue nocche contro il mio zigomo.

«Fatti da parte, finché sei in tempo».

Venni liberato dopo l'ultima frase. La presa, probabilmente di Carl e Jerry, cessò e io ricaddi in ginocchio sul pavimento. Il silenzio tornò e l'oscurità fu ancora più profonda. Ebbi il coraggio e la forza di rialzarmi solo dopo qualche minuto. Forse cinque, forse dieci.
Uscii dallo stanzino, che scoprii essere lo sgabuzzino del bidello. Non c'era nessuno in giro e ringraziai per quello: avrei evitato le mille domande “cosa è successo? Chi è stato?” e così via.
Andai in bagno, nel tentativo di darmi una ripulita, prima delle lezioni del pomeriggio, se mai vi avessi partecipato, ma, guardandomi allo specchio sopra uno dei tanti lavandini in fila, vidi come il pugno di Jason era riuscito a spaccarmi il labbro. Dal taglio sulla bocca, usciva parecchio sangue e l'occhio destro stava iniziando a gonfiarsi; per non parlare della divisa, tutta sgualcita e sporca.

«Dovresti metterci su del ghiaccio». Udii una voce femminile, proprio alle mie spalle. Mi girai di scatto e... Ed era lei. La stessa ragazza che avevo visto nell'atrio di casa mia qualche giorno prima.

«Tu cosa...» balbettai. «Cioè... Questo è il bagno dei maschi».

«Lo so» replicò, facendo qualche passo in avanti e fermandosi a qualche metro da me. «Ti ho visto uscire dall'ufficio di Jason».

«Ufficio?».

«Lo sgabuzzino del bidello. So come è fatto Jason: vuole essere il migliore in tutto. Ecco perché, quando arriva qualcuno nuovo, cerca subito di farselo amico, per testarlo e tenerlo a bada. Ci sono passati quasi tutti i ragazzi di questa scuola, quelli che hanno voluto tenergli testa, almeno».

Sbuffai. «Ho solo risposto a qualche domanda in classe».

«Per lui è grosso torto anche e soprattutto quello».

«E' una cosa...».

«Da idioti. Ma da una ragazzino ricco e annoiato, che cosa ci si può aspettare?».

Abbozzai una risata, priva d'entusiasmo.

«Comunque» continuò lei «Io sono Johanna. Johanna Wilkinson».

«Simon Clarke». Feci una breve pausa. «Ci siamo visti l'altro giorno, nell'atrio a...».

«Sì, abitiamo nello stesso palazzo».

«Mi sarei presentato, ma sei sparita prima che potessi farlo».

Johanna mi sorrise. «E' una mia caratteristica». Si avvicinò ancora e, alla fine, fu solo a qualche centimetro di distanza dal mio viso. Alzò una mano e sfiorò con due dita i contorni del mio zigomo.

Io fui attirato dai suoi occhi. Ero sempre dell'idea che lo sguardo di una persona rivelasse chi quella persona fosse, perché gli occhi non tradiscono mai.
I suoi erano verdi, cristallini e chiarissimi e... Strani. Non che lei fosse davvero strana: insomma, mi pareva una ragazza piuttosto normale. Solo che, in quel momento, mentre fissavo quelle due pozze color smeraldo, mi parve di vedere delle ombre rosse attraversare l'iride, in maniera repentina. E fu, appunto, molto strano.

«Porti le lenti a contatto?» chiesi, inconsciamente.

«Cosa?» esclamò. «No».

«Oh...». Scossi appena il capo e accennai una risata, nervosa. «Mi sembrava che... Niente, lascia perdere. Devo aver preso anche una botta in testa».

«Forse». Johanna fece un passo indietro. «Ora esco: questo è pur sempre il bagno degli uomini».

«Giusta osservazione».

Mi sorrise ancora e fece per uscire, ma, sulla soglia della porta, si fermò, voltando appena verso di me. «Stavo pensando» disse «visto che abitiamo nello stesso palazzo, qualche volta potremmo studiare insieme. Ti va?».

«Uhm». Tentennai per qualche secondo. «Certo, mi... Sarebbe bello».

«Grande. Ci vediamo, allora».

«Ci vediamo».

Johanna sparì dal bagno e mi ritrovai nuovamente solo. Nelle condizioni pietose in cui ero, non me la sentii di partecipare alle lezioni del pomeriggio, anche perché la maggior parte includevano la presenza di Jason.
Così, restai seduto sui gradini all'ingresso, fino a fine giornata, quando Tom mi venne a prendere. Non chiese nulla riguardo al livido sull'occhio, al taglio sul labbro o altro. Restò in silenzio: forse era ciò che gli avevano detto di fare.
Per mia fortuna, a casa, mia madre non c'era ancora. Trovai un suo messaggio in segreteria, che mi comunicava di ordinare qualcosa da fuori, perché lei sarebbe tornata tardi. Fui grato di ciò: anche le sue domande sarebbe state evitate.

Non ordinai nulla da mangiare, volevo solo dormire e fu quel che feci. Mi liberai della divisa scolastica, gettandola sul pavimento di moquette, e mi ficcai sotto le coperte.

Calando le palpebre, oltre all'oscurità, vidi una sola cosa, per tutta la notte: gli occhi verdi di Johanna e quelle ombre rosse.

  
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