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Autore: My Pride    01/02/2013    8 recensioni
Yo, ho, ho at the battle of bones, you sail the seven seas but you’re never getting home, well the sea answered back, “Old boy, where have you been?”
I’ve been waiting for a fight like this since time first began, so prepare yourself and get ready for your death ride, I’ll be taking you down to Davy Jones with your cargo and your pride.

«Temi tu la morte? Temi l'idea dell'oscuro abisso? Ogni tua azione scoperta, ogni tuo peccato punito? Io vi posso offrire una scelta: unitevi alla mia ciurma e proponete il giudizio finale. Cent'anni ancora sopra coperta. Vuoi arruolarti?»
Le leggende sono solo leggende. Leggenda o meno, però, ad attenderli fra le ombre c’era di sicuro qualcosa. Se lo sentiva sin dentro le viscere.
[ New World Arc ~ Spoiler dai capitoli 668 in poi ]
[ Terza classificata al contest «No words: multifandom contest» indetto da Audrey_24th ]
[ Prima classificata al contest «One Sentence» indetto da Reghina-chan e valutato da ZiaConnie ]
[ Prima classificata al contest «Don't be a drag, just be a Queen!» indetto da RoyMustungSeiUnoGnocco ]
Genere: Angst, Avventura, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Mugiwara
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Violenza
Capitoli:
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Like Davy Jones_8
THIRD SEASON › IN PIECES
BACK TO HOME, #04
 
    Dal momento in cui quella lama aveva attraversato il capo di Jones senza ucciderlo, sembrava essere passata un’eternità.
    Zoro era rimasto ad osservarlo ad occhi sgranati, faticando a considerare veritiera quella scena. Erano passati esattamente due anni dall’ultima volta in cui, a Thriller Bark, si era sentito completamente inerme dinanzi ad un nemico, e aveva giurato a se stesso di diventare ancora più forte per fare in modo che nessuno dovesse mai agire come aveva deciso di fare lui per il bene della ciurma; provare dunque la stessa sensazione di devastante impotenza l’aveva momentaneamente paralizzato, poiché mai, dopo tutti i sacrifici compiuti durante quegli anni di separazione, avrebbe creduto di potersi sentire ancora una volta così. Debole. Un debole che non riusciva nemmeno a liberarsi di qualche insulsa pianticella per aiutare un proprio compagno.
    A quei suoi stessi pensieri, Zoro imprecò, cercando ancora una volta di strattonare i tentacoli che lo costringevano ad incurvare sempre più la schiena all’indietro, dandogli quasi l’orrenda sensazione che la spina dorsale potesse spaccarsi a metà; non aveva perso d’occhio nemmeno per un attimo la figura di Jones che, portandosi distrattamente una mano dietro la testa, aveva afferrato saldamente l’elsa della katana e se l’era sfilata come se nulla fosse, gettando l’arma sul terreno con fare sciatto e annoiato. «Ti pregherei di non distrarmi oltre, Roronoa. Presto il posto di tutti voi sarà a bordo della mia nave».
    «Non cantare vittoria troppo presto, bastardo!» gracchiò in risposta lo spadaccino, mordendosi il labbro inferiore nel sentire le piante avvolgersi intorno al busto. Premevano con forza contro le sue ferite e aveva l’impressione che esse fossero percorse da mille lame acuminate che penetravano nelle sue carni, maciullandole dall’interno; la casacca e l’haramaki erano ormai completamente impregnati di sangue ed era solo per miracolo se riusciva ancora a tenere gli occhi aperti e il capo sollevato, o forse era tutto merito di quei tentacoli e delle spire soffocanti in cui gli avevano avvinghiato il collo, non permettendogli di reclinarlo né all’indietro né tanto meno in avanti. Come se non bastasse, quel Jones sembrava ignorarlo come se non aprisse minimamente bocca, e la cosa stava cominciando a diventare snervante.
    Nel vederlo afferrare nuovamente il cuoco e caricarselo in spalla, Zoro tentò di divincolarsi ancora una volta, sentendosi un vero e proprio incapace per quella sua mancanza di spirito. Cazzo! Come diavolo avevano fatto a ritrovarsi in quella dannata situazione? Eppure fino a pochi giorni prima non avrebbero mai pensato di vivere un incubo come quello. Nemmeno dopo Punk Hazard avrebbero creduto ad una cosa del genere, maledizione. «Ti ho detto di non toccarlo!» gridò con tutto il fiato che aveva in gola, ma Jones continuò ad avanzare imperterrito in direzione della nave, come se non fosse mai stato fermato e non avesse un buco sanguinante nel cranio. «Lascialo andare, figlio di puttana!» urlò, lo sguardo fisso sul volto pallido del compagno. Non l’aveva visto di quel colorito nemmeno quando aveva rischiato di morire per quelle sue stupide emorragie nasali, e, purtroppo, stava cominciando a credere anche lui che ormai non ci fosse più niente da fare. Erano davvero destinati a veder terminare i loro sogni su quell’isola dimenticata da un qualunque Dio?
    Senza riuscire a comprendere quel suo modo di fare, Zoro vide quel Jones lanciare contro la nave il cuoco, il cui corpo si accasciò fra le botti annerite e le casse distrutte, quasi l’avesse caricato a bordo alla stregua di un pacco; poi, come se nulla fosse, il Capitano volse lo sguardo sullo spadaccino e sorrise, o almeno così parve. Era difficile distinguere la sua espressione su quella maschera di carapace che era ormai divenuta il suo volto, che di umano non aveva conservato un bel niente. «Dovevi solo attendere, Roronoa. Te l’avevo ben detto», asserì poi, incamminandosi a passi moderati nella sua direzione, quasi non avesse fretta. Merda. Quindi quella era davvero la fine?
    Zoro non finì nemmeno di formulare quel pensiero che le piante che lo tenevano prigioniero allentarono la presa intorno ai suoi polsi e al suo collo e si seccarono, lasciandolo finalmente libero di toccare terra; persino la nebbia nei dintorni si diradò, per quanto nell’aria persistesse ancora un velo di foschia che non permetteva di distinguere i profili lontani, dando solo una vaga visione del paesaggio circostante. Ciò che Zoro riuscì a vedere bene, però, fu la smorfia che parve dipingersi sul volto di Jones, immobile a pochi passi da lui.
    «Quel maledetto traditore...» sibilò, facendo schioccare furentemente le dita della mano sinistra come se si fosse trattato della chela di un granchio. Lo spadaccino non fu in grado di capire a cosa si riferisse, però, se l’incantesimo che l’aveva tenuto intrappolato fino a quel momento si era sciolto, forse c’entrava proprio il vecchio che l’aveva lanciato?
    Zoro non perse tempo a divagare oltre su quei pensieri e, allungando un braccio per afferrare l’elsa di almeno una delle proprie katane con entrambe le mani, si alzò in piedi sulle gambe malferme, lanciandosi contro l’avversario prima ancora che quest’ultimo potesse rendersene del tutto conto; concentrò tutta la propria forza in quell’unico colpo, accertandosi di aver trapassato da parte a parte la carne di Jones, tentando di non badare alle scosse dolorose che fulminarono il suo corpo ferito. La sensazione della lama che tagliava la carne come se fosse burro si diramò lungo i suoi arti superiori, dandogli una scarica di adrenalina che arrivò dritta al suo cervello; sentì il sangue schizzargli sul viso, l’ansimo sofferente fuggito dalla labbra dell’avversario, e si girò appena in tempo per vederlo cadere su un ginocchio, tenendo lo sguardo fisso sullo squarcio che partiva dalla spalla fino al fianco destro.
    Per un attimo il mondo parve fermarsi in un momento di stasi. Non si muoveva nemmeno una foglia e anche la nebbia sembrava essere diventata consistente, tanto che sarebbe bastato poco per sfiorarla con le dita e catturarla, almeno fino a quando Jones non si sollevò in piedi, grondando sangue, e si voltò con aria di sufficienza per osservare il volto incredulo dello spadaccino, scuotendo il capo. «Per quante volte tu mi colpisca, non potrai mai uccidermi».
    Zoro strinse le dita intorno all’elsa dell’Ichimonji, deglutendo nel continuare a fissarlo in viso, la pupilla ingigantita dalla confusione. Non poteva crederci, dannazione. «È uno scherzo. Un fottuto scherzo», cercò di auto-convincersi, eppure ciò che stava vedendo era del tutto vero. Che non potesse davvero fargli nulla? A quel suo stesso pensiero trasse un lungo sospiro, quasi volesse provare a riacquistare la calma, cosa per niente facile, in quel momento. Non doveva scoraggiarsi né tanto meno perdere di vista il proprio obiettivo primario, poiché farlo avrebbe significato arrendersi e gettare all’aria tutto l’allenamento a cui si era sottoposto fino a quel momento.
    Assottigliando le palpebre, Zoro fletté le gambe e caricò il colpo, lanciandosi con furia verso Jones, che scartò di lato così in fretta che quasi parve avergli letto nella mente; ogni fendente con cui lo spadaccino tentava di colpirlo veniva prontamente schivato e rispedito al mittente, rendendo vani tutti quegli sforzi. Con agilità inumana, il Capitano si piegò sulle ginocchia e gli sferrò un calcio dritto al viso, costringendo Zoro ad indietreggiare tra un colpo di tosse e l’altro, e fu solo per miracolo che quest’ultimo non allentò la presa sulla katana, rinserrandola; provò comunque a contrattaccare, però ebbe appena il tempo di sollevare lo sguardo prima che un altro colpo lo centrasse dritto in mezzo al petto, mozzandogli il fiato. Boccheggiando, scosse la testa nel vano tentativo di schiarirsi la mente, ma un altro calcio si abbatté con furia sulla sua guancia, facendogli sputare sangue.
    «Sei cocciuto, Roronoa», disse Jones con calma assoluta, sferzando il terreno con la coda per far crollare di schiena il Vice Capitano, sfruttando lo spostamento d’aria e la sua espressione provata; approfittò poi di quella sua momentanea confusione per afferrarlo per la casacca e sollevarlo da terra, chiudendo una mano a pugno per colpirlo violentemente al viso.
    Quel colpo lo scagliò dritto contro lo scafo della nave, mandando in frantumi le assi ormai logorate dagli anni e dalla salsedine; cadde riverso di schiena sulle rocce sottostanti, in una pioggia di schegge di legno, muffa e povere, e tossì nel vano tentativo di riprendere fiato, passandosi una mano sugli occhi per ripulirli. Non riusciva a vedere bene - difficile dire se per il colpo ricevuto o se per le ferite che non gli davano tregua - e sentiva il sangue tamburellargli nelle orecchie, però, assottigliando la palpebra, provò a mettere a fuoco almeno i dintorni, riconoscendo a poco a poco la figura del compagno, rannicchiato poco distante. Alcune assi dello scafo gli erano cadute addosso e l’avevano ricoperto di polvere e detriti, e forse era stato solo per miracolo se non avevano infilzato le sue carni, nascondendolo solo parzialmente.
    «Ormai è morto... un vero peccato». Simili ad una lama a doppio taglio, le parole di Jones trapassarono i suoi timpani e riuscirono a far correre dentro tutto il suo essere un moto di panico, tanto che, seppur barcollante e quasi privo di forze, Zoro si sforzò di raggiungere il cuoco per controllare lui stesso, sperando vivamente che quell’idiota non ci avesse lasciato le penne. Profonde occhiaie violacee gli contornavano gli zigomi, risaltando sinistramente sul volto scarno, la cui carnagione era di un pallore quasi mortale; goccioline di sudore gli avevano imperlato la fronte e le labbra livide erano distese in una linea sottile, ma la sua cassa toracica, vagamente intravedibile attraverso il legno che lo ricopriva, era immobile, cosa che fece temere il peggio allo spadaccino. Quando, una volta scansate tutte le assi che gli erano cadute addosso per farlo respirare meglio, accostò l’orecchio al suo petto e riuscì a sentire il battito del suo cuore, quasi esultò interiormente, issandosi in piedi e poggiandosi con la schiena contro lo scafo per mantenere l’equilibrio.
    «Non dire cazzate, non è ancora morto», sibilò poi all’indirizzo di Jones, senza riuscire a trattenere un breve tremito nella voce, puntando la lama contro di lui; quest’ultimo si limitò semplicemente a scrollare le spalle, sfilando con un movimento fluido il fioretto che teneva appeso alla cintola.
    «Ma lo sarà molto presto. Sta per raggiungere la nave».
    «Stronzate. Solo stronzate».
    Per quanto sembrasse voler convincere più se stesso che il proprio avversario, fu continuando a ripetersi quelle parole nella testa che Zoro si lanciò contro di lui, recuperando una seconda spada per gettarsi all’attacco; alzando il fioretto in fretta, Jones riuscì a parare quel colpo appena in tempo, e, sollevando una gamba, poggiò un piede sul petto dello spadaccino e lo calciò lontano da sé, inclinando il busto verso di lui per affondare nel suo fianco la lama sottile della propria arma.
    Barcollando, Zoro si portò una mano nel punto ferito nel vano tentativo di arrestare l’emorragia, sentendo il sangue sgorgare fra le dita in fiotti caldi e vischiosi; stringendo i denti e rinserrando la presa sulle katane, però, non si diede per vinto e tornò all’attacco, conficcando una lama nel petto di Jones con tutta la potenza che gli era rimasta. Dovette far pressione nell’incontrare l’ostacolo della gabbia toracica, ma, prima ancora che riuscisse ad andare più a fondo nella carne, il Capitano lo allontanò ancora una volta, facendolo ruzzolare lontano.
    Senza dare allo spadaccino il tempo di alzarsi in piedi, fu Jones stesso a corrergli in contro e, sfilando con forza la katana che gli era rimasta conficcata nel petto, utilizzò la stessa per colpire il viso del suo avversario, il quale ebbe almeno la prontezza di reclinare in fretta il capo all’indietro; Zoro vide la lama passargli proprio davanti agli occhi e ne sentì il filo gelido fra i capelli, e fu solo per miracolo se non gli venne staccata di netto la testa, per quanto avesse assunto un’espressione esterrefatta. E spalancò la bocca quando, senza alcun ritegno, Jones premette un piede sulle sue ferite e, colpendogli la mano per fargli abbandonare l’arma, lo costrinse con la schiena contro il terreno, strappandogli un gemito e poi un urlo nel conficcare il proprio fioretto negli squarci già aperti e sanguinanti che gli percorrevano il corpo.
    Lo spadaccino tentò di allontanare quell’arto da sé, avvolgendo debolmente le mani intorno alla caviglia per quanto le sue dita glielo permettessero, sentendo il respiro venir meno e il capo divenire sempre più dolente, come se lo stesso pensare fosse divenuto una sofferenza. Ogni più piccola fibra del suo essere era concentrata sulla sgradevole sensazione che gli trasmetteva quella pressione sempre più marcata, sul freddo metallo della spada che gli dilaniava le carni, sul sinistro scricchiolio che aveva cominciato a sentire nelle orecchie e sul terribile presentimento che quel suono fosse provocato dalle sue ossa che si stavano spezzando, e per un attimo fu quasi tentato di lasciarsi andare del tutto e di allentare persino quella presa che lo teneva ancora ancorato al proprio avversario. Forse era colpa del poco ossigeno che aveva cominciato ad arrivare al suo cervello, forse per il sangue che sgorgava senza sosta dalle sue ferite brutalmente rovistate dalla punta di quella lama, ma qualcosa, dentro di lui, voleva solo che tutto quel dolore finisse e che potesse finalmente riposare in pace. Jones sembrava giocare con lui come un gatto che aveva catturato un topo, indugiando nel dargli il colpo di grazia, e lui non riusciva più a sopportarlo.
    Come se non gli appartenessero, sentì le dita scivolare inermi dalla caviglia del Capitano e le braccia piombare pesantemente lungo i fianchi, facendo serpeggiare dentro di lui un brivido al quale non seppe dare spiegazione; con un ansito doloroso, strinse violentemente le labbra in una linea sottile e reclinò il capo di lato, trovando conforto nella terra umida contro la quale premette il viso. Fu proprio nel farlo, però, che scorse la figura del compagno attraverso la palpebra socchiusa, i capelli biondi scompigliati a nascondergli parzialmente il volto insanguinato e una delle braccia piegate ad un’angolazione impossibile, come se l’arto fosse ormai rotto. Respirava sempre più a fatica e il suo battito cardiaco sembrava sul punto di arrestarsi da un momento all’altro, e fu il pensiero che avrebbero potuto perderlo che riconnesse i nervi del suo cervello, facendogli spalancare l’occhio. Merda. Che diavolo stava facendo? Non avrebbe nemmeno dovuto pensare, anche solo per un momento, di arrendersi come un maledetto idiota. Che cosa avrebbe detto Rufy, il suo Capitano, il futuro Re dei Pirati, se lo avesse visto in quelle miserevoli condizioni?
    Imprecando contro se stesso, Zoro cercò a tentoni la propria arma e provò ad impugnarla, ma Jones intercettò il suo movimento e la scansò lontano da lui, schiacciandogli la mano con il tacco dello stivale; nonostante il dolore che corse lungo il suo braccio e si conficcò come un coltello nel suo sistema nervoso, lo spadaccino approfittò di quell’opportunità per far ricorso alle poche forze che gli erano rimaste e riafferrare la caviglia del Capitano, scansandolo brutalmente da sé. Il sangue scivolò lungo i suoi arti e sul suo petto quando, seppur a fatica, si sollevò in piedi sulle gambe malferme, però non ebbe il tempo di preoccuparsi delle proprie condizioni, indietreggiando il più velocemente possibile per evitare l’affondo con cui tentò di colpirlo Jones.
    Sforzandosi di rimanere lucido, lo spadaccino rotolò sul terreno per recuperare la propria arma, riuscendo a non farsi colpire da un nuovo attacco del nemico grazie a chissà quale miracolo; alzò la lama per parare un nuovo affondo e dovette strisciare per terra nel tentativo di allontanarsi e di riacquistare almeno in parte il controllo delle proprie facoltà mentali, sentendo una dolorosa fitta al costato quando, sollevandosi di peso su entrambe le braccia, riuscì ad issarsi nuovamente in piedi.
    Pur non riuscendo più a distinguere i profili con la stessa chiarezza di poco prima, Zoro sferrò un calcio a Jones con tutta la forza che possedeva e provò a farlo indietreggiare il più possibile da sé, incassando la testa nelle spalle per caricare il braccio e puntare la katana al suo sterno; non riuscì a colpirlo al primo tentativo come aveva sperato, eppure non si diede per vinto, incrociando la propria arma con quella del suo avversario. In un cozzar di metallo e scintille, con il tamburellare del proprio cuore nelle orecchie e quelle fasciature improvvisate ormai completamente intrise di sangue, Zoro si gettò ancora una volta contro di lui con un grido rabbioso, compiendo un affondo con il quale gli trapassò lo stomaco. Jones afferrò la lama con una mano e chiuse le dita intorno ad essa, sfilandosela con uno scatto secco; ignorò il sangue che cominciò a stillare dalla ferita che si provocò e, con una rapida stoccata, sollevò il proprio fioretto per colpire un braccio dello spadaccino, il quale sibilò di dolore e indietreggiò.
    Il Capitano provò a colpirlo ancora una volta, però, con un’imprecazione, Zoro scartò e, flettendo le gambe, ruotò svelto il polso con cui sorreggeva la spada, parando l’affondo con il piatto della lama; piroettò poi di lato e, piegando le ginocchia, assottigliò la palpebra per concentrare tutta la propria potenza sulla mano dell’avversario, esultando interiormente quando riuscì a fargli allentare la presa intorno alla sua arma e a tenerlo sotto tiro; vide la spada volare lontano e il Capitano fermarsi con un piede dietro di sé, ansimando quasi quanto lui.
    Jones rimase immobile, la lama dello spadaccino puntata alla gola e lo sguardo fisso proprio su quest’ultimo, limitandosi semplicemente ad abbandonare le braccia lungo i fianchi. Per quanto tremasse visibilmente dalla testa ai piedi a causa del sangue perduto  - il quale gocciolava pigramente lungo i suoi arti e gli sporcasse il viso, imbrattandogli anche gli abiti - e mantenere l’equilibrio gli costasse uno sforzo enorme, la presa intorno all’elsa della katana era salda e sembrava più che intenzionato a staccargli la testa dal collo, per quanto avesse capito a proprie spese che battersi con lui era del tutto inutile. Quel ragazzino aveva una tenacia che non aveva mai visto negli ultimi secoli, e la cosa lo fece stranamente ghignare. «Ti sei battuto bene, Roronoa... sarà un vero piacere averti nella mia ciurma, quando arriverà il momento».
    Con il poco fiato che aveva ancora nei polmoni, Zoro gli soffiò contro «Quel momento non arriverà mai», rinfoderando con una certa fatica la propria katana; a passi malfermi e zoppicanti, poi, si diresse verso Sanji per issandoselo in spalla meglio che poté, ignorando il sorriso di scherno che gli venne rivolto da Jones, il quale fece un rapido inchino.
    «Staremo a vedere, spadaccino. Staremo a vedere», sussurrò, sparendo nella nebbia come l’eco lontana di una sinistra risata
.


    Schermandosi gli occhi con una mano, Nami sollevò lo sguardo verso il cielo grigio che sovrastava tutti loro, costatando piacevolmente che, nonostante il tempo non fosse dei migliori, la nebbia che li aveva accompagnati fino a quel momento si era finalmente diradata, facendo sì che potessero vedere tutto ciò che li circondava senza problemi.
    Non aveva capito con esattezza che cosa fosse successo e dove fosse sparito lo strano vecchio contro cui si stava scontrando Rufy, però, non appena i suoi occhi erano riusciti ad abituarsi alla luce accecante che aveva investito tutti loro, si era resa conto di essere nuovamente soli e che il luogo in cui si erano ritrovati fino a quel momento si era dissolto insieme a lui.
    L’immensa foresta che avevano percorso si era rivelata per ciò che era in realtà, ovvero un boschetto in cui alberi e cespugli si innalzavano timidamente verso il cielo; la cittadina che avevano visitato non appena avevano messo piede sull’isola era esattamente dinanzi a loro, però adesso, grazie alla mancanza della nebbia, appariva meno spaventosa e sinistra di quanto non lo fosse stata fino a quel momento, pur continuando ad essere decadente e disabitata; alla loro destra, proprio ad una decina di metri dal bosco, si poteva scorgere alla perfezione una cascata e un fiumiciattolo che scorreva verso il mare, serpeggiando sinuoso fra l’erba alta e le pietre accatastate su entrambi i lati. Si riusciva anche a sentire distintamente lo scrosciare dell’acqua, cosa che prima, a causa della nebbia e della bizzarra quiete in cui la stessa aveva avvolto tutta l’isola, non erano per niente stati in grado di fare. E di questo Robin se ne accorse, cominciando a guardarsi intorno con fare pensoso, volgendo poi lo sguardo verso la città oltre il sentiero.
    «A quanto pare siamo stati tutti vittime di un’illusione», esordì pacatamente, scansandosi qualche ciuffo di capelli dalla fronte prima di sistemarsi gli occhiali da sole sul capo. «La nebbia deve aver compromesso le nostre facoltà intellettive e alterato le nostre percezioni, facendoci credere di essere in un luogo infestato dagli spiriti».
    Brook le gettò uno sguardo, rabbrividendo al ricordo di ciò che avevano veduto fino a quel momento. «Ma quei fantasmi e quei mostri sembravano veri, yo-hohoho!» esclamò, e Usopp non poté fare a meno di convenire con lui, incrociando poi le braccia al petto qualche attimo dopo.
    «Quel che è certo è che quel tizio che abbiamo affrontato era reale... forse anche troppo reale». Al ricordo tremò per un attimo, gettandosi un’occhiata intorno come per timore di vederselo ricomparire dinanzi agli occhi di punto in bianco. «Inoltre vorrei ricordarvi che Zoro e Sanji non sono ancora qui», ci tenne a far notare, e Chopper annuì energico, saltandogli in spalla.
    «Adesso che la nebbia è sparita abbiamo più possibilità di trovarli», replicò. «Dobbiamo tornare nel bosco e andare a cercarli. Le parole di quel vecchio non mi sono piaciute per niente... non vorrei fossero nei guai».
    Nel sentirli, Nami sospirò, poggiando una mano sul fianco per far scorrere poi lo sguardo sul viso di entrambi. «Se adesso torniamo a cercarli, loro potrebbero riuscire a ritrovare la strada e noi potremmo di nuovo perderci nel bosco». Per quanto fosse a sua volta preoccupata per i suoi amici, non potevano rischiare che, nel fortuito caso in cui ritornassero sui propri passi, non trovassero nessuno ad attenderli. «La soluzione migliore è restare qui ad aspettarli», soggiunse, sforzandosi di sorridere. «Quei due sanno cavarsela, no? Non è detto che quel vecchio stesse dicendo la verità su di loro. In fin dei conti ci ha ingannati per tutto il tempo, e anche la sua lotta con Rufy non mi è parsa per nulla seria come avrebbe dovuto», cercò di suonare rassicurante, così da poter in qualche modo calmare l’ansia che aveva attanagliato se stessa e il piccolo Chopper.
    Non seppero quanto tempo rimasero lì in attesa, chi seduto con le gambe incrociate sul terreno e chi semplicemente in piedi, tutti con lo sguardo fisso sulla foresta che erano riusciti ad abbandonare con così tanta fatica. Fortunatamente, oltre a quegli Uomini Pesce e a qualche strano essere, sul loro cammino non avevano incontrato nient’altro. Escludendo la nave volante e quel vecchio dai loschi scopi che nessuno aveva compreso, ovviamente. Il pensiero di tutti, in quel momento, era che anche i loro compagni fossero stati altrettanto fortunati. Non che non credessero nelle loro capacità, certo, ma avevano imparato a diffidare di tutto e a tenere sempre gli occhi aperti, specialmente lì nel Nuovo Mondo, dunque il modo in cui si sentivano in quel momento era più che legittimo. Restava pur sempre il dubbio che tutto ciò che avevano incontrato fosse stato soltanto frutto dell’illusione creata dalla nebbia che, come Robin stessa aveva affermato, aveva probabilmente alterato la loro mente e mostrato loro cose che in realtà non esistevano, ma ognuno di loro ricordava fin troppo bene quanto fossero apparse reali le cose che avevano veduto e contro cui si erano scontrati, quindi, per quanto facesse molto comodo a tutti dar per buona quell’ipotesi, non poteva essersi trattato unicamente di un abbaglio.
    La preoccupazione che aveva attanagliato la ciurma era tale che persino Rufy, di solito quello che non perdeva il sorriso nemmeno nelle situazioni più disperate, se n’era rimasto seduto sul terreno con lo sguardo rivolto verso la foresta, lo zaino abbandonato al proprio fianco e le braccia incrociate al petto. In un altro momento, forse, si sarebbe persino lamentato di aver fame - i bentou che erano stati così diligentemente preparati da Sanji se li era spolverati tutti quando il suo stomaco aveva ardentemente reclamato del cibo - e di voler mangiare assolutamente qualcosa, ma adesso, con in viso un’espressione talmente seria che quasi stonava con la sua intera persona - anche il modo in cui si era ripreso il cappello era apparso nervoso, ma Nami si era solo limitata a sospirare e a tenerlo d’occhio per evitare che, in preda alla sua solita irruenza, facesse qualcosa di stupido -, pareva essere unicamente concentrato su ogni minimo fruscio che proveniva dal folto della foresta, immersa in cinguettii e canti lontani come se la natura stessa si fosse improvvisamente risvegliata. Sembrava che si aspettasse di veder comparire da un momento all’altro i suoi due amici, per quanto fosse passato ormai molto tempo e di loro non avessero ancora visto nessuna traccia.
    «Basta così!» esclamò all’improvviso nell’alzarsi in piedi di scatto, facendo sussultare i restanti membri della ciurma; si voltarono tutti in simultanea verso di lui e lo osservarono con tanto d’occhi, quasi non fossero riusciti a capire che cosa gli fosse preso.
    «Che hai, fratello?» domandò di rimando Franky, e fu solo a quel punto che Rufy gli gettò appena una rapida occhiata, la fronte aggrottata e con in viso la stessa espressione che aveva mantenuto fino a quel momento.
    «Io vado a cercarli», asserì deciso, stornando nuovamente lo sguardo verso il bosco. «Ci stanno mettendo troppo. Non è da loro».
    «Non pensarci nemmeno, Rufy», rimbeccò Nami, aggrottando la fronte. «Siamo tutti preoccupati, ma non possiamo agire senza riflettere. Aspetta almeno un altro po’».
    «Ho aspettato abbastanza», sbottò il Capitano, più che convinto di ciò che diceva. Quell’attesa stava cominciando a snervarlo, e lui aveva giurato a se stesso che non avrebbe perso più nessuno a cui voleva bene, men che mai i suoi compagni. Dopo la morte di Ace aveva creduto di aver perduto tutto ciò che gli era più caro, e non era stato per rivivere quella stessa sgradevole sensazione che aveva deciso, probabilmente anche in modo egoistico, di ritardare l’incontro con i suoi compagni - i suoi amici, la sua famiglia - per due lunghissimi anni. Era arrivato il momento di comportarsi come un buon Capitano e andare a cercare il suo cuoco e il suo spadaccino. Anche perché, e odiava ammetterlo, forse quel vecchio gli aveva inculcato il tarlo del dubbio. E se fosse successo davvero loro qualcosa? Non se lo sarebbe mai perdonato, dannazione.
    Senza dar peso ai richiami di Nami, né tanto meno venendo fermato dagli altri - avevano probabilmente compreso il suo stato d’animo e deciso di lasciarlo stare, sapendo fin troppo bene che quando prendeva una decisione nulla sarebbe stato capace di smuoverlo -, cominciò ad avviarsi in direzione del bosco, calcandosi il cappello di paglia in testa prima di chiudere i pugni lungo i fianchi. Se avesse incontrato qualcuno sulla propria strada, illusione o meno che fosse, non avrebbe esitato a farlo fuori in un lampo. E se gli fosse ricapitato di nuovo fra i piedi quel vecchio... gli avrebbe spaccato il culo una volta per tutte e avrebbe continuato ad avanzare, senza inutili interruzioni di sorta. Faceva sul serio e l’avrebbe dimostrato, se ciò avrebbe potuto aiutarlo in qualche modo a raggiungere i suoi amici, ovunque essi si trovassero in quel determinato frangente. Mosse appena qualche passo, però, prima che un fruscio proveniente dal folto del bosco richiamasse la sua attenzione, facendogli aguzzare la vista in quella direzione; una figura sfocata sembrava avanzare lentamente verso di loro, quasi a tentoni, e Rufy non ci mise molto a capire di chi si trattasse, riconoscendone la sagoma.
    «Eccoli, finalmente!» esclamò tutto contento, con un enorme sorriso sornione che gli illuminava il viso; quello stesso sorriso, però, gli morì sulle labbra non appena si soffermò sulle condizioni dei suoi due amici, facendo scorrere lo sguardo sui loro vestiti strappati e insanguinati e sul volto pallido e scarno che Zoro, sostenendo malamente Sanji sulle spalle, stava mostrando a tutti loro. L’unico occhio sembrava osservarli vacuamente, senza vitalità alcuna, e anche il modo in cui avanzava appariva fiacco e stanco, per niente simile alla solita camminata spavalda e fiera che lo caratterizzava di solito. Sembrava persino che, nel vederli, l’intera ciurma si fosse pietrificata, come se nessuno di loro riuscisse a credere ai propri occhi o a mettere veramente a fuoco l’immagine che avevano dinanzi. Erano rare, se non praticamente nulle, le volte in cui quei due si ritrovavano in così pessime condizioni, e ciò era riuscito a fermarli in un momento di stasi.
    «Chopper...» chiamò infine lo spadaccino in un soffio, non riuscendo più a sostenere sulle gambe il proprio peso e quello del cuoco; cadde in avanti, riverso con il viso nella terra umida, allentando la presa con cui fino a quel momento aveva sorretto contro di sé Sanji, il cui corpo si accasciò inerme sulla sua schiena.
    Il piccolo medico, a quella vista, riuscì finalmente a riscuotersi e corse immediatamente da loro in preda al panico, trasformandosi per potersi occupare di entrambi nel pieno delle sue facoltà. «Zoro! Sanji!» Provò a riscuoterli senza successo, imprecando a denti stretti prima di afferrare il polso di Zoro; trasse un sospiro di sollievo nel sentire il suo battito cardiaco, sbiancando seduta stante quando si ritrovò a fare lo stesso con Sanji. Il polso era debole, troppo debole, e il suo respiro era lieve, appena accennato, come se potesse smettere di incanalare aria nei polmoni da un momento all’altro. «Franky!» strillò, passando un braccio robusto sotto il busto di Sanji per sistemarselo in spalla il più delicatamente possibile, alzandosi alla svelta. «Prendi Zoro e raggiungetemi alla Sunny, presto!» raccomandò loro, affrettandosi a discendere il sentiero per poter attraversare la città, correndo a perdifiato in direzione del promontorio dove ore addietro, se non addirittura interi giorni, avevano attraccato la loro imbarcazione, perfettamente visibile ora che la nebbia era scomparsa.
    Sotto lo sguardo preoccupato dei suoi amici, Franky non perse tempo ad eseguire l’ordine datogli dal dottore, e, dopo aver recuperato il corpo del Vice Capitano ed esserselo caricato sulla schiena, fece cenno a tutti gli altri di seguirlo in fretta, inoltrandosi nel folto della città per tornare indietro.
    Un solo attimo di ritardo avrebbe potuto compromettere la vita di entrambi i loro compagni.








_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
Per chi non lo sapesse - ma suppongo che ormai lo sappiano tutti -, Davy Jones non ha un cuore, quindi non può essere ucciso con metodi tradizionali. Ecco spiegato tutto l'ambaradan (?) che c'è dietro e la sua fuga - che proprio fuga non è, in verità - anziché una sua colossale sconfitta. E poi, beh, i Mugi non possono sempre sconfiggere gli avversari con successo, no? x)
Ammetto poi che in questo capitolo mi sono lasciata parecchio andare, anche se per qualche attimo ho pensato - e penso tuttora - che avessi strafatto e che forse avrei dovuto tagliare un po' di cose che sarebbero potute sembrare alquanto inverosimili. E credo ancora che questo capitolo non sia abbastanza soddisfacente e faccia letteralmente schifo. Mi scuso
Comunque sono anche troppo contenta, perché su due contest a cui questa storia ha partecipato si è piazzata prima ad entrambi, quindi, boh, una volta tanto volevo condividere con tutti voi che mi state seguendo questa piccola felicità personale. Vuol dire che questa long fiction non è così pessima come l'avevo reputata io stessa al principio, e sapere che viene apprezzata è una piccola soddisfazione. Grazie mille a tutti voi

Al prossimo capitolo. ♥



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