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Autore: Evazick    02/02/2013    1 recensioni
“Bè, sembra che la sfortuna ti abbia già presa di mira, piccoletta. Ti hanno abbandonata appena nata e le tue nuove madri sono delle prostitute e la tenutaria di un bordello. Non c’è che dire, una famiglia davvero particolare, la tua. Sarà meglio che il tuo nome ti porti più fortuna possibile.” Aveva schioccato la lingua, un tic vecchio di anni. “Da oggi in poi ti chiamerai Inés, colei che è pura, come diceva mia nonna, sempre se riuscirai a rimanere casta tra di noi. E siccome non esiste una vera signorina senza cognome, sarai Inés Salvada.”
E così era stato. La parola di Mama Grande era legge.
[Omaggio a Isabel Allende.]
Genere: Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Daniel Arrera vide per la prima volta la donna che gli avrebbe cambiato la vita a dieci anni.
A quel tempo era un bambino così timido che si rifugiava dietro le gonne di sua madre o di Nana, la governante, non appena uno sconosciuto o un conoscente entrava in casa per partecipare ad una delle tante cene organizzate dai suoi genitori o più semplicemente per fare un saluto. Ogni volta sua madre rideva e lo faceva uscire dal suo nascondiglio con gesti delicati e rassicuranti, imitata dal padre, ma Daniel vedeva che dietro il sorriso di quell’uomo da cui aveva ereditato la pelle color caramello e gli occhi castani si nascondevano una rabbia sorda e un orgoglio ferito. Non era difficile capire quanto si sentisse offeso dal suo comportamento, perfino un bambino come lui lo capiva. Lo zio Fernando, invece, non mancava mai occasione di prenderlo in giro per la sua timidezza eccessiva in tono leggero e divertente. Lo acchiappava prima che avesse il tempo di rifugiarsi dietro la donna più vicina e, tra gli strilli divertiti di entrambi, lo sollevava e lo faceva volteggiare per aria come le pale del vecchio ventilatore.
I due gemelli Arrera erano come il giorno e la notte, nonostante la grande somiglianza fisica: uno era tanto spensierato e sregolato quanto l’altro autoritario e conservatore, e anche i loro comportamenti nei confronti del piccolo Daniel erano opposti. Il padre lo aiutava con i compiti e pretendeva dal figlio la massima serietà e impegno, ma fu Fernando a spiegargli come costruire una fionda con un ramo d’albero e a distrarre Nana per rubarle sotto il naso un pezzo di torta o un cucchiaino pieno di miele da spartire poi con il proprio compagno. Fernando era zio e fratello maggiore allo stesso tempo e Daniel provava una grande ammirazione per quell’uomo così simile a suo padre e allo stesso tempo e così diverso. Era affascinato da quell’uguaglianza-diversità, e spesso arrivava a pensare che Fernando fosse il riflesso di suo padre scappato da uno specchio, uguale nell’aspetto ma opposto nel carattere. Confessò questa sua fantasia solamente due volte nella sua vita: la prima aveva nove anni e si trovava in cucina con Nana durante una dei tanti giorni afosi d’agosto. La donna aveva riso di gusto e gli aveva scarruffato i capelli e mormorando “Niño, niño,” con aria divertita. La seconda volta, dodici anni più tardi, sarebbe stato sdraiato su un letto al primo piano di un fatiscente edificio nella città vecchia e avrebbe raccontato il suo segreto alla donna sdraiata accanto a lui. Lei si sarebbe limitata a un breve sorriso prima che lui continuasse a parlare alla luce delle candele.
Da giovane Fernando Arrera era stato il dongiovanni più famoso dell’intera regione, ma una volta oltrepassata la soglia dei quarant’anni da solo aveva capito che nessuna donna gli avrebbe fatto compagnia in quell’ultimo tratto di corridoio. Si era rassegnato con tristezza al suo destino e aveva preso casa poco lontano da quella del fratello per poter spartire con lui un’unica famiglia, come avevano fatto con tanti altri oggetti e persone durante la loro infanzia e adolescenza. Un paio di volte a settimana, tuttavia, un bisogno feroce lo assaliva, lo faceva uscire di casa in piena notte e lo conduceva tra i palazzi cascanti e i vicoli soffocanti della città vecchia fino al bordello di Mama Grande, un posto talmente nascosto da passare inosservato persino a chi lo cercava per la prima volta. In quelle occasioni il Casanova dentro di lui si risvegliava e dava sfogo a tutto il suo sapere e le sue tecniche secolari prima che il sole sorgesse e lui dovesse tornare alla vita tranquilla di sempre. Né il fratello né la cognata sapevano delle sue notti infuocate, e non avrebbero mai dovuto saperlo: non gli avrebbero detto niente in faccia, ma tra di loro il buonsenso borghese avrebbe prevalso sugli anni di amicizia e l’affetto che li legava. Tuttavia, pochi giorni dopo che Daniel ebbe compiuto dieci anni, Fernando sentì che era arrivato il momento di spiegargli le cose della vita e si accollò la responsabilità nel modo che riteneva più consono. Una sera prese il nipote per mano e, con la scusa di una passeggiata serale, lo condusse nella parte più fatiscente del porto che ormai considerava una seconda casa.
La seconda cosa che Daniel avrebbe ricordato con chiarezza di quella sera sarebbe stata l’odore dell’oceano. Sembrava che impregnasse ogni mattone e sprigionasse da ogni marciapiede, e anche quando provò a trattenere il respiro nelle narici gli era rimasto quel profumo salmastro. Si aggrappava alla mano dello zio quasi con disperazione e fu sollevato quando, dopo aver svoltato un angolo, davanti a loro apparve una porta da sotto la quale usciva una lama di luce. Alzò lo sguardo verso Fernando e capì dai suoi occhi che lui era stato lì già molte volte e che continuava ad andarci tuttora. Durante il tragitto lo zio gli aveva spiegato senza tanti giri di parole come gli uomini si procuravano il piacere dall’inizio dei tempi e come nascevano i bambini, e in quel momento comprese che il mondo oltre quella porta era la tappa finale della sua spiegazione. Fernando gli disse ridendo che aveva ancora tempo prima di tornare in un posto del genere, ma che sarebbe stato meglio che ne conoscesse l’esistenza il prima possibile. Con il rumore delle onde in lontananza, spalancarono la porta ed entrarono dentro. Daniel si aspettava un tugurio fatiscente buio come una cantina, ma rimase a bocca aperta quando vide il mondo dietro la vecchia porta: candele e lampade erano sparse sui mobili o appese alle pareti, i pavimenti e i gradini della scala erano coperti da tappeti pregiati e ovunque c’erano divani di un rosso acceso pieni di cuscini. E dappertutto, come parte dell’arredamento, c’erano donne con occhi truccatissimi, labbra di un rosso carminio e vestiti con scollature audaci e gonne così corte da rasentare l’indecenza; la maggior parte di loro era in compagnia di uomini e rideva o sorrideva languida mettendo in mostra denti bianchissimi o ingialliti dalle sigarette e dal tempo. Fernando gli fece attraversare un paio di stanze invase dal profumo pungente delle rose e parlò con una donna sulla cinquantina con penetranti occhi verdi, poi lo fece sedere su una poltrona, gli diede un buffetto dicendogli che sarebbe tornato presto e sparì dietro una porta, lasciandolo da solo in quella moltitudine di gente. Daniel, cresciuto con sua madre e Nana come uniche presenze femminili, non riusciva a smettere di guardarsi intorno, come se i suoi occhi non ne avessero mai abbastanza di esplorare quel luogo. Dopo qualche tempo la sua attenzione fu attirata da una porta accostata vicina a quella in cui era scomparso lo zio Fernando: da dietro di essa proveniva una risata femminile non languida come quella delle prostitute, ma vivace e gioiosa come solo una bambina può avere. Attirato da quel richiamo irresistibile, si alzò dalla poltrona e si diresse verso la porta come in sogno. La spinse quel tanto che bastava per poter vedere dentro l’altra stanza e il fiato gli si mozzò in gola.
La prima cosa che Daniel avrebbe ricordato di quella sera sarebbe stata la bambina seduta di spalle davanti a lui sul pavimento. Aveva una matassa di ricci neri tenuta a malapena ferma da un nastro rosso e i pantaloni e la camicia da uomo le stavano talmente grandi da caderle addosso come sacchi. Parlava tra sé e sé con voci diverse mentre faceva camminare sul tappeto due vecchie bambole di stoffa, e l’unica cosa che Daniel riusciva a vedere oltre alla sua schiena era la pelle delle sue mani, color caramello come la sua, quando lei alzava le braccia. Osservò affascinato la bambina che continuava a giocare senza accorgersi della sua presenza e rideva di gusto; sarebbe potuto rimanere lì per l’eternità, prigioniero di quella risata melodiosa e di quella cascata nera che brillava alla luce delle candele. Improvvisamente, lei smise di parlare e di far muovere le bambole, come se si fosse accorta dello sguardo che la osservava. Si voltò lentamente e Daniel ebbe appena il tempo di vedere due innaturali occhi dorati brillare nel suo volto scuro prima che le mani forti di suo zio lo afferrassero per le spalle e lo trascinassero via dalla porta e dalla bambina.
 
Dieci anni prima, Dia Sanchez era uscita dalla porta sul retro di quello stesso bordello nel bel mezzo della notte, quando la nebbia che saliva dall’oceano circondava l’intero quartiere e offuscava anche la luce dei pochi lampioni ancora funzionanti. Aveva tirato fuori dalla scollatura del vestito un accendino e una sigaretta, se l’era accesa e aveva iniziato a fumare appoggiandosi alla parete dell’edificio con lo sguardo fisso nel vuoto. Durante quei momenti di pausa vagava da un pensiero all’altro senza un filo logico, aspettando che la sigaretta si consumasse e lei dovesse tornare dentro l’inferno che ormai considerava la sua casa. (Mama Grande non era crudele con le sue ragazze: erano tutte scappate da situazioni tragiche e avevano trovato un’unica soluzione ai loro problemi, e lei non voleva aggravare i loro problemi più del dovuto. A meno che non interferissero con i suoi affari, ovviamente.) Mentre la cenere cadeva sul selciato come sabbia in una clessidra, pensava ai suoi genitori, ormai anziani, e ai suoi fratelli minori, abbastanza grandi da poter aiutare da soli la madre e il padre. Aveva gettato via il mozzicone rimastole in mano e si era voltata per rientrare dentro il bordello, ma uno strillo acuto come il miagolio di un gatto l’aveva bloccata sulla soglia con la mano sul pomello. Dia, che non era mai stata coraggiosa, aveva sentito i peli sulla nuca e sulle braccia che le si intirizzivano, ma quando il verso si era ripetuto lo aveva ascoltato con più attenzione e si era convinta che non appartenesse ad un animale randagio. Si era avvicinata a passi felpati al vicolo da cui proveniva quella sirena spaccatimpani e si era fatta luce con l’accendino. La fiammella aveva illuminato un fagotto bianco nascosto in un angolo, e la donna aveva dovuto trattenere un grido di spavento quando aveva visto la minuscola faccia urlante che spuntava dalla stoffa.
“Madre di Dio!” aveva esclamato mentre si chinava sul neonato e lo prendeva in braccio. Lo aveva cullato fissandolo ad occhi sgranati finché il suo pianto disperato non si era fatto più sommesso, poi era entrata dentro il bordello e si era diretta di corsa in cucina, dove le altre ragazze stavano bevendo per riprendersi dalle fatiche della serata. Si erano voltate tutte di scatto ed avevano strabuzzato gli occhi nel vedere il bambino, facendo rimbalzare lo sguardo da Dia al fagotto di stoffa per trovare un nesso. L’avevano tempestata di domande – se fosse suo, chi fosse il padre, come avesse fatto a far passare inosservata la gravidanza – a cui la donna non era riuscita a rispondere, spaventata, e le acque si erano calmate solo quando Mama Grande in persona era entrata nella stanza. Si erano zittite tutte di colpo, e per qualche istante l’unico rumore udibile era stato quello dei tacchi a spillo della donna più anziana sulle mattonelle sconnesse della cucina. Aveva lanciato un’occhiata al neonato, che aveva finalmente smesso di frignare, e con delicatezza lo aveva tolto dalla presa di Dia per poggiarlo sul tavolo tra i bicchieri e la bottiglia di rum. Aveva disfatto il fagotto ed aveva osservato il petto nudo che presto o tardi si era sviluppato, poi si era voltata verso la ragazza. “Dove l’hai trovata?”
Dia aveva farfugliato qualcosa di vagamente comprensibile, ma tanto era bastato a Mama Grande per prendere una decisione. Aveva avvicinato il suo volto a quello della neonata, che la osservava con occhi dorati pieni di curiosità, e le aveva detto seria: “Bè, sembra che la sfortuna ti abbia già presa di mira, piccoletta. Ti hanno abbandonata appena nata e le tue nuove madri sono delle prostitute e la tenutaria di un bordello. Non c’è che dire, una famiglia davvero particolare, la tua. Sarà meglio che il tuo nome ti porti più fortuna possibile.” Aveva schioccato la lingua, un tic vecchio di anni. “Da oggi in poi ti chiamerai Inés, colei che è pura, come diceva mia nonna, sempre se riuscirai a rimanere casta tra di noi. E siccome non esiste una vera signorina senza cognome, sarai Inés Salvada.”
E così era stato. La parola di Mama Grande era legge.
 
Per i suoi primi anni di vita, prima che Daniel Arrera la sbirciasse da dietro una porta socchiusa, la vita e l’infanzia di Inés Salvada erano state surreali. Era cresciuta salendo e scendendo le scale del bordello, ed aveva iniziato a scivolare per il vecchio corrimano in legno ancora prima di imparare a camminare. Aveva dormito per tre anni nella camera di Dia e Adela, poi si era trasferita in una stanza tutta per sé al primo piano, lontana da quelle che venivano usate con i clienti. I suoi primi giocattoli erano stati pupazzetti e bambole ritagliati da vecchie coperte e con bottoni per occhi, e qualche volta preservativi gonfiati e legati a mo’ di palloncini. Visitación, che aveva imparato a cucire da bambina, sarebbe stata la sua sarta per molto tempo, anche se doveva fare una fatica mortale per costringere Inés a stare ferma per prenderle le misure. “Quella mocciosa è figlia del Demonio,” borbottava Mama Grande quando la vedeva scorrazzare per tutta la casa urlando e fingendo di essere un pirata, ma in realtà si era affezionata a lei e rimpiangeva già il momento in cui avrebbe smesso di giocare con l’aria agitando spade invisibili.
E sembrava davvero la figlia del Diavolo, con quella massa indistricabile di ricci neri e quegli occhi innaturali sul suo volto da mulatta. Era un tornado capace di correre su e giù per le scale cento volte e di passare interi pomeriggi seduta davanti alla finestra ad osservare l’oceano e le navi che arrivavano in porto. Trattava tutte le donne della casa indistintamente, come se ognuna di loro fosse sua madre, e non riservava attenzioni particolari a nessuna: quando faceva un regalo o un complimento lo faceva a tutte, Mama Grande compresa, anche se quest’ultima avrebbe potuto essere sua nonna. Quando aveva compiuto sette anni, Nancy, una trentenne coperta di tatuaggi fatti in carcere che iniziavano a sbiadire, l’aveva afferrata sotto le ascelle e l’aveva fatta sedere al tavolo di cucina con un libro davanti. Dopo lunghi mesi di lotte accanite e di nascondini fatti per pura sopravvivenza e ribellione, la donna era riuscita ad insegnarle a leggere e a scrivere quel che bastava per sopravvivere nel mondo. Mama Grande era stata chiara su questo punto: non avrebbero cresciuto Inés solo perché si riducesse ad intrattenere qualche uomo in una camera squallida, ma perché potesse uscire da quella topaia senza aver paura di niente e di nessuno e girare per il mondo per fare la sua fortuna e il proprio destino.
La curiosità innata di Inés riusciva a scoprire qualunque cosa, e a soli nove anni intuiva perché, dopo il tramonto, le sue madri iniziassero a truccarsi e a ‘vestirsi nude’, come lo definiva lei, per poi accogliere uomini nelle camere da letto al primo piano per tutta la notte. Quando aveva chiesto a Mama Grande spiegazioni, la donna gliele aveva fornite senza tanti giri di parole, confermando i suoi sospetti. Così, non appena calava il sole, la bambina si nascondeva in una delle stanze non occupate – spesso e volentieri un salotto al pianterreno – e rimaneva lì a giocare finché non si addormentava per terra e qualche prostituta la portava in camera sua facendosi largo tra i clienti. Gli avventori abituali la consideravano ormai come una di famiglia e non mancavano di farle qualche complimento o di portarle un chicco se la incontravano mentre aspettavano il loro turno. Lei sorrideva e li ringraziava, poi spariva in un turbine di capelli neri e gelsomino, residuo dei suoi lunghi bagni in compagnia di una o più donne.
Fu solo quando compì tredici anni che le donne del casino decisero di comune d’accordo che era arrivato il momento di insegnarle i misteri della vita e i segreti che avevano appreso tra le lenzuola. Saltarono la storia dell’ape e del fiore e le insegnarono come una donna consapevole del proprio potere sugli uomini valga più di cento eserciti. La misero nuda davanti ad uno specchio e le fecero conoscere la se stessa di cui aveva ignorato l’esistenza fino a quel momento: le presero le mani e le fecero toccare i seni in crescita, i glutei sodi e la sua arma più potente, quella che avrebbe legato un uomo a lei e al suo letto più di mille catene. Ognuna le raccontò le proprie esperienze e i propri trucchi in modo che niente e nessuno la potesse ingannare, ma le fu detto più di una volta che non avrebbe mai usato quello che sapeva lì dentro, per via di quell’accordo fatto quando l’avevano trovata. A quattordici anni Inés avrebbe potuto competere con qualunque puttana della città e dei dintorni, e a diciannove probabilmente le avrebbe superate tutte: i capelli neri le erano cresciuti fino a metà schiena, selvaggi e indomabili come mamba, la sua pelle splendeva dorata sotto qualsiasi luce e i suoi occhi attraevano come calamite. Quando usciva per strada per fare qualche compera, si vestiva il più possibile per nascondere il suo volto e le sue forme giovanili: aveva una paura tremenda degli uomini, come se ognuno di loro, perfino il vecchietto più gentile o il bambino più innocente, potesse prenderla e portarla via con la forza in qualsiasi momento. Non aveva però scordato gli occhi castani che l’avevano fissata da dietro la porta del salotto, e sbirciava continuamente tra la folla per ritrovare quello stesso sguardo che aveva intravisto alla fine della sua infanzia.
 
Come Inés, anche Daniel era cresciuto. Il suo volto aveva iniziato a riempirsi di peli appena superata la soglia dell’adolescenza, e ogni mattina si radeva con il rasoio del padre. Frequentava lo stesso istituto superiore in cui avevano studiato i gemelli Arrera e si era guadagnato un’ottima reputazione tra gli insegnanti e i compagni. Era un ragazzo taciturno e solitario: da quando entrava in classe, raramente si alzava dal suo banco in fondo all’aula, dove rimaneva sempre in silenzio prendendo appunti e abbozzando figure che di umano avevano ben poco e alberi con rami contorti come braccia. Avrebbe voluto frequentare una scuola d’arte, ma sapeva che parlarne coi suoi genitori sarebbe stato inutile: lo avrebbero considerato un semplice passatempo e non quello che avrebbe voluto fare veramente nella vita. Dipingere al tramonto, viaggiare per il mondo con solo un taccuino in tasca, incontrare persone e imprimere i loro volti nella carta per sempre: per loro non era un modo decoroso di vivere. Soltanto lo zio Fernando incoraggiava il suo talento nascosto, facendogli addirittura da modello quando le circostanze lo richiedevano. Quello che all’inizio gli era sembrato un semplice modo per non annoiarsi in breve tempo diventò il centro attorno a cui organizzava il proprio tempo libero; ogni volta che finiva di studiare presto si armava di matite e blocco o taccuino e usciva in strada, vagando per le vie e le piazze della città per poi sedersi puntualmente su una bitta al porto e disegnare un pescatore che preparava le reti o il tramonto. Era un sognatore incallito, e non era raro che nei suoi disegni uscissero sirene dal mare o il sole fosse coperto da enormi figure volanti simili a serpenti con le ali. Fernando osservava ammirato le opere del nipote e si dispiaceva di non poter fare niente per aiutarlo a vivere con i suoi disegni. L’idea giusta gli balenò in mente in una delle sue notte folli, mentre tornava a casa dal bordello di Mama Grande, e il giorno dopo bussava alla casa del fratello e ne parlava tutto eccitato a Daniel, che però non sembrava ricambiare il suo entusiasmo. All’inizio fu restio ad accettare, ma alla fine si lasciò convincere e decise di recarsi al bordello la settimana seguente. Fernando aveva già parlato con Mama Grande, e lei gli aveva garantito di mettergli a disposizione la modella migliore che aveva. E chi sarebbe potuta essere, se non l’unica persona che non lavorava durante le lunghe notti della casa d’amore?
 
Quando Daniel arrivò davanti alla porta, si ricordò vagamente per un istante di essere già stato lì anni prima. Si diede un’occhiata intorno, controllando che non arrivasse nessuno che potesse riconoscerlo, poi spalancò la porta ed entrò dentro con taccuino, gomma e matite in tasca. Non era cambiato nulla in quei nove anni, nemmeno i tappeti per terra e le pareti tinte di rosso, che invece avrebbero avuto bisogno di una rinfrescata. Dai salotti del pianterreno giungevano risate e chiacchiere, ma l’atrio era deserto; neppure Mama Grande era in vista ad aspettare l’arrivo del nipote di Fernando Arrera. Il ragazzo, irritato, scrollò le spalle e fece per andarsene, ma in quel momento dalle scale arrivò un rumore di passi affrettati e poco dopo sui gradini apparve una ragazza della sua età con i lunghi capelli neri raccolti in una crocchia spettinata che cercava di stirare le pieghe sui pantaloni – una vista a cui Daniel non era abituato. Alzò gli occhi un secondo prima di sfracellarsi sul pavimento, incespicando ugualmente e bestemmiando tra sé e sé, ma non appena incontrò lo sguardo dell’altro si bloccò in fondo alle scale. Entrambi rimasero immobili, catturati dagli occhi dell’altro: li avevano ricordati e cercati così a lungo, li avevano visti e ritrovati nei loro sogni e adesso se li ritrovavano inaspettatamente davanti senza nemmeno un briciolo di preavviso. Daniel fu il primo a riprendersi emettendo un colpo di tosse, e Inés finse di togliersi qualche briciola dalla camicia troppo grande prima di chiedere: “Il signor Arrera?”
Sobbalzò nel sentire il suo nome. “Come fa a sapere come mi chiamo?”
Rise solare. “Non sono molti gli uomini che vengono qui con un blocco come il suo sotto il braccio, signore!” Quando finì di ridere, sorrise. “Mama Grande mi ha spiegato per cosa è venuto qui. Mi segua, al piano di sopra non ci disturberà nessuno.”
Daniel non replicò e la seguì in religioso silenzio al piano di sopra con il cuore che gli batteva come un tamburo. Passarono davanti alle camere occupate dal resto delle abitanti della casa e raggiunsero l’ultima porta del corridoio, la più appartata. Inés l’aprì e fece strada al ragazzo nella sua tana non molto diversa dalle altre camere: mobili vistosi e antichi, tappeti sul pavimento e un enorme letto a baldacchino che troneggiava accanto alla finestra. La carta da parati in certi punti si stava staccando e le lenzuola erano diventate in parte giallastre, ma Daniel fece finta di non aver notato niente e si sedette sulla poltrona barocca davanti al letto. Tirò fuori il taccuino e una matita appuntita e guardò imbarazzato la ragazza, come se fosse lei a dover fare la prima mossa. Si rese poi conto che avrebbe dovuto dirle lui cosa fare e, tra le risatine imbarazzate di entrambi, le mormorò di sedersi a gambe incrociate sul bordo del letto. Lei ubbidì e si mise in posizione senza alcuna malizia, decisa a non far venire un infarto a quel poveraccio che probabilmente la considerava una prostituta come tutte le altre. Puntò i suoi occhi in quelli di lui e non distolse lo sguardo di un centimetro per tutto il tempo del ritratto. Rimase immobile come una statua, senza mai muoversi o vacillare, così come la mano di Daniel non esitò nemmeno un istante a tracciare la sua figura sul taccuino. Di tanto in tanto il ragazzo alzava lo sguardo per catturare un particolare, poi i suoi occhi ritornavano in basso e si perdevano nel disegno che stava facendo. Soltanto due ore più tardi, quando fu sicuro di aver disegnato ogni singola piega della camicia e dei pantaloni e ogni ombra sulla sua pelle e tra i suoi capelli, alzò definitivamente lo sguardo e le fece cenno di avvicinarsi. Lei ubbidì ancora una volta e guardò il risultato da sopra la spalla di lui, chinandosi per osservarlo meglio; il suo profumo intenso non sfuggì a Daniel, che arrossì e distolse lo sguardo dal taccuino finché lei non si fu allontanata. “Mi piace,” disse, come se il suo giudizio fosse decisivo.
Lui mormorò un brusco ‘Grazie’ e si alzò in fretta dalla poltrona, deciso ad uscire da lì prima che l’imbarazzo lo facesse morire di crepacuore. Mentre apriva bocca per salutare, però, Inés gli tese una mano e si presentò, per poi aggiungere mentre lui gliela stringeva: “Se ha ancora bisogno di una modella, sa dove trovarmi. E mi dia del tu la prossima volta.”
Non c’era alcun sottinteso nelle sue parole, ma Daniel fu di nuovo spaventato dalla ragazza – lui, che non aveva mai incontrato una donna così inconsapevole dell’effetto che faceva e così diversa da tutte quelle che sua madre gli propinava come possibili fidanzate. Mormorò quella che poteva essere considerata una risposta affermativa e uscì dalla stanza come un tornado, lasciandosi alle spalle gli occhi che lo perseguitavano dall’infanzia e quel profumo di gelsomino.
 
Inés Salvada e Daniel Arrera continuarono a vedersi al bordello di Mama Grande per molti anni ancora. All’inizio Fernando faceva loro da tramite e prendeva gli appuntamenti per il nipote, ma ben presto il ragazzo iniziò a sgattaiolare fuori di casa ogni volta che poteva e si catapultava da Inés correndo per le strade semideserte, e lei era sempre lì ad aspettarlo, per niente sorpresa dal suo arrivo improvviso. Una volta dentro la camera di lei, erano capaci di passarvi ore, e a volte Daniel era costretto a correre fino a farsi scoppiare i polmoni per tornare a casa prima che Nana, ormai vecchia, entrasse in camera sua a svegliarlo. Fortunatamente nessuno scoprì mai le sue fughe notturne, altrimenti la punizione che avrebbe ricevuto sarebbe stata tremenda.
Era difficile spiegare cosa facessero insieme i due ragazzi così a lungo. Per i primi tempi mantennero le distanze del loro primo incontro – lui disegnava, lei rimaneva immobile ad osservarlo e dava un giudizio sul suo lavoro – ma presto iniziarono a scambiarsi qualche chiacchiera prima di circostanza, poi sempre più intima e personale. Tempo sei mesi e parlavano allegramente tra di loro anche mentre Daniel disegnava, e a volte le loro risate erano così contagiose che erano costretti a fermarsi e ad aspettare che Inés si alzasse dal letto su cui si era sdraiata e che il ragazzo potesse riprendere la matita in mano senza farla tremare. C’erano anche sere in cui entrambi rimanevano in silenzio ad osservarsi, studiandosi come animali senza sapere quale strano filo del destino li avesse legati insieme una casualità dopo l’altra.
I disegni di Daniel migliorarono col passare del tempo, e un anno dopo avrebbe saputo disegnare le forme e le curve di Inés ad occhi chiusi e con una mano legata dietro la schiena. Gli piaceva farle assumere le posizione più strane, tra le risate di entrambi, e quasi sempre aggiungeva un paesaggio fantastico sullo sfondo o un particolare strano sul corpo di lei; una volta la disegnò con una lunga coda da sirena al posto delle gambe, e un’altra con capelli corti e ricci e una lunga cicatrice che le attraversava il volto in diagonale. Non fu solo la sua bravura a migliorare, però: ormai riusciva a parlare ad Inés senza arrossire e senza pensare a quello che avrebbe potuto fargli in quella stanza mentre erano da soli. La ragazza, dal canto suo, aveva smesso di avere costantemente paura del sesso opposto e trattava Daniel come un fratello, come se entrambi fossero ancora i bambini che si erano incontrati anni prima al pianterreno. Si scambiarono regali e mangiarono dolci per i loro primi compleanni festeggiati insieme, seduti accanto innocentemente sul grande letto di Inés.
L’anno successivo Daniel decise di fare il grande passo: contro il parere dei suoi genitori, si iscrisse ad una scuola d’arte poco fuori città e iniziò una lunga salita per affermarsi come artista. Ovviamente il tempo da dedicare a Inés era sempre meno, ma almeno due volte a settimana sgattaiolava via dalla porta sul retro e correva di gran carriera con il taccuino in tasca verso il bordello. Adesso, però, passavano molto meno tempo a disegnare: rimanevano sdraiati sul letto per tutta la notte, con Daniel che raccontava tutto quello che gli accadeva alla scuola d’arte e Inés che lo ascoltava in religioso silenzio, immaginandosi le persone e i luoghi di cui sentiva tanto parlare. Non si arrabbiava o ingelosiva se il suo amico menzionava qualche altra ragazza: era comprensibile che lo facesse, dopotutto era nell’età in cui buona parte dei suoi coetanei si vantavano di aver fatto acrobazie o aver distrutto qualche letto. Quindi rimaneva in silenzio, sperando di poter uscire un giorno dalla città e vedere tutto quello di cui Daniel le raccontava.
Presto il ragazzo iniziò a parlare sempre di più di una studentessa in particolare, e Inés quasi emise un sospiro di sollievo quando lui le confessò finalmente di essersene innamorato. Si chiamava Luisa Carnabal, e a detta del ragazzo era la reincarnazione di una dama inglese ottocentesca, con i suoi occhi, capelli e pelle chiara e il portamento elegante ma mai snob. Il fantasma di Luisa fece sentire sempre di più la sua presenza tra loro due finché Inés non se lo ritrovò un bel mattino seduto ai piedi del letto che fluttuava qualche centimetro sopra le coperte. Lo scacciò lanciandogli addosso un cuscino, e lo spirito sparì così com’era apparso. Ormai Luisa era diventata parte integrante della sua vita, come lo erano sempre state le sue madri e com’era diventato Daniel; lui gliene parlava così spesso e in modo così dettagliato che le sembrava di conoscerla veramente, sebbene non l’avesse mai vista neanche in foto. Quando usciva in strada e andava al mercato si guardava sempre intorno cercando di trovarla in quel mare di volti, e ogni volta che si sbagliava il suo cuore, trepidante fino a quel momento, perdeva un colpo e tornava deluso al suo solito battito.
Ci vollero cinque mesi di confessioni notturne prima che Daniel prendesse il coraggio a due mani e chiedesse a Luisa di uscire a passeggiare insieme una domenica. Lei all’inizio fu titubante, poi ci ripensò e accettò: quel ragazzo così taciturno e il suo talento la incuriosivano, e in quel pomeriggio trascorso a parlare scoprì che sotto la sua superficie si nascondevano abissi marini di incredibile bellezza. Rimase piacevolmente contenta di quell’incontro, e i due iniziarono a vedersi ogni domenica, a volte prendendo il tè in qualche elegante sala della città alta, a volte passeggiando, a volte disegnando in silenzio, schiena contro schiena, immersi nei loro mondi privati ma che in qualche modo condividevano. Non un singolo particolare di questi incontri fu nascosto a Inés, che nel buio della sua stanza ascoltava Daniel riportare in vita i suoi ricordi attraverso la sua voce.
Qualche mese più tardi, Luisa si accorse che non considerava più Daniel soltanto un compagno di passeggiate, ma non ne rimase sorpresa: aveva sempre avuto la sensazione che prima o poi sarebbe successo, e sapeva già da tempo che il ragazzo ricambiava il suo sentimento. Dopo il primo bacio – rubato sotto un ponte nella parte vecchia del porto – i due riunirono le loro famiglie e annunciarono il loro fidanzamento. Ci fu una serata di grandi festeggiamenti e, dopo che gli ospiti se ne furono e i coniugi Arrera si furono ritirati nella loro camera, Daniel corse da Inés per comunicarle la lieta notizia. La ragazza, incapace di provare sentimenti negativi nei confronti di Luisa, lo abbracciò e si congratulò con lui. Approfittando della solita confusione del bordello, sgattaiolò in cucina e trafugò dalla dispensa una scatola di biscotti, due bicchieri e una bottiglia di champagne, con cui festeggiò insieme all’amico e brindò alla salute dei due fidanzati. Dopo che il ragazzo se ne fu andato, rimase a lungo distesa sul letto con un sorriso felice in volto che non sparì nemmeno quando si addormentò.
 
Gli anni e gli incontri clandestini successivi trascorsero in un battito di ciglia, e quando Daniel si alzò la mattina del suo sesto anniversario di fidanzamento gli sembrava che fosse passato solo un giorno da quando l’aveva annunciato. Lui e Luisa avevano finito la scuola d’arte tre anni prima e avevano aperto un atelier in cui facevano ritratti e quadri su commissione. Non era il futuro che i loro genitori borghesi avevano immaginato per entrambi, ma loro si ritenevano soddisfatti e felici: facevano quello che amavano di più al mondo e il gruzzoletto di soldi per il loro matrimonio cresceva di giorno in giorno; Daniel, inoltre, continuava ad andare a trovare Inés ogni volta che poteva, e questo gli bastava per essere un uomo felice. Quella mattina, appena entrato in bottega, aprì insieme a Luisa il barattolo con i soldi che avevano messo da parte in quegli anni ed entrambi sorrisero quando videro che erano sufficienti per potersi sposare.
Ci fu un’altra festa in pompa magna a casa Arrera, e tra il vino e le portate vennero decise la data e il luogo del matrimonio. A notte fonda, Daniel raggiunse il bordello di Mama Grande e comunicò tutto ancora una volta ad Inés, che lo abbracciò con impeto piangendo di gioia. Non ci mise molto a notare l’espressione preoccupata e imbarazzata del ragazzo, la stessa con cui era entrato lì dentro per la prima volta anni prima. “Che c’è?” gli chiese.
Lui titubò e prese fiato diverse volte, senza però riuscire mai a parlare. Alla fine mormorò flebilmente: “Sono ancora vergine.”
Lei lo guardò ed annuì lentamente, capendo tutto quello che non le aveva detto. Era la norma che due fidanzati arrivassero al matrimonio senza mai essersi sfiorati, ma Daniel non aveva un briciolo di esperienza, nemmeno teorica, e durante la sua prima notte non avrebbe saputo da che parte cominciare. Con un sospiro divertito lo prese per mano e lo fece sedere sul letto accanto a lei, poi gli fece cenno di chiudere gli occhi. Lui ubbidì e li tenne serrati mentre la stoffa dei vestiti della ragazza frusciava in modo inquietante alla sua sinistra. Quando li poté riaprire, sobbalzò e si tirò indietro: Inés, la sua amica, la sua confidente bambina, si era tolta tutti i vestiti ed era completamente nuda, ma nessuna malizia le scintillava negli occhi dorati. Lo guardava con la stessa espressione impassibile di sempre, come se lui l’avesse sempre vista senza niente addosso. Fece per alzarsi e battere in ritirata, spaventato come le prime volte, ma lei lo afferrò per il polso con una forza inaspettata e gli fece cenno di rimanere dov’era. “Non ti toglierò l’onore, non prima del tuo matrimonio,” gli disse in tono fermo. “Ma se vuoi che ti insegni tutto quello che so, questo è l’unico modo in cui posso farlo.”
Così, illuminata solo dalla luce delle candele e della luna, Inés Salvada svelò a Daniel Arrera tutti i segreti che gli erano stati confidati anni prima dalle sue madri. Gli mostrò i punti deboli di ogni donna, le zone segrete in cui anche il solo sfiorare portava piacere, le chiavi per sciogliere le catene che tenevano legato l’uomo al letto. Le mani di lui le passarono avanti e indietro su tutto il corpo un numero infinito di volte mentre lei perfezionava i suoi tocchi e gli spiegava ridendo quello che le puttane consideravano conoscenze innate. Mantenne la sua promessa e non violò l’onore di nessuno dei due, anche perché le sarebbe sembrato quasi un incesto, ma quando il ragazzo se ne andò, piacevolmente stordito e confuso da quella notte, continuò a sentire le sue dita scorrerle dolcemente sulla pelle.
Inés fu invitata al matrimonio con tutti gli onori, e se non fu testimone di Daniel fu solo perché nessuno dei presenti era a conoscenza della sua esistenza. Gli sguardi e i pettegolezzi di molti degli invitati si rivolsero verso la strana ragazza mora dagli occhi dorati che nessuno aveva mai visto prima d’ora, ma tutti si tranquillizzarono quando Fernando Arrera la salutò calorosamente come se la conoscesse da sempre. Si sedette al tavolo degli sposi insieme ai parenti e agli amici più stretti, e ogni volta che si voltava verso Daniel le brillavano gli occhi di felicità nel vederlo insieme alla donna che amava. Fu ovviamente presentata a Luisa, che però si limitò a salutarla e a ringraziarla di essere venuta senza però chiedersi cosa avessero in comune suo marito e quella perfetta sconosciuta.
Dopo il matrimonio ci furono ancora un paio di incontri clandestini, poi Daniel non trovò più il tempo di scappare in piena notte, preso com’era dalla sua vita matrimoniale e professionale. La bottega sua e di Luisa era ormai diventata famosa, e poco tempo dopo venne offerto loro di andare a lavorare in un’altra città, più grande e con più prospettive di lavoro. Dopo lunghe indecisioni e discussioni, i nuovi coniugi Arrera decisero di accettare la proposta. Inés venne a conoscenza del trasferimento durante la seconda visita che fece all’amico nella sua nuova casa, e ancora una volta gli augurò tutta la felicità possibile senza alcuna tristezza, nemmeno negli occhi. A Daniel si spezzò il cuore nel vederla così felice e innocente, lei che non si sarebbe mai mossa da lì, e meditò persino di portarla via con loro, ma sapeva che Luisa avrebbe iniziato a sospettare cose che non esistevano e lasciò perdere. In compenso promise a Inés di mandarle il suo nuovo indirizzo il più presto possibile e di scriverle ogni settimana, se lei avesse ovviamente risposto. Inutile dire che la ragazza giurò sulla testa di Mama Grande, e fu l’unica a non piangere lacrime di tristezza quando vide partire il treno che la separava dall’unico amico che avesse mai avuto.
 
Daniel mantenne la sua promessa, e meno di una settimana dopo la sua partenza Inés si vide recapitare una spessa busta ricoperta dall’elegante calligrafia del ragazzo. L’aprì con ferocia e si mise a leggere le quattro fitte pagine al suo interno come se volesse divorare le parole, con la stessa bramosia di un prigioniero che può finalmente mangiare e bere dopo essere uscito di carcere. In alcuni punti dovette concentrarsi al massimo per capire cosa ci fosse scritto, ma non riusciva ad averne abbastanza: le descrizioni di Daniel erano vivide come sempre e riuscivano a far rivivere tutto quello che lui aveva visto in quei pochi giorni. Quando fu il momento di rispondergli, la ragazza si sedette al tavolo della cucina con una penna in mano e un foglio bianco che la fissava minaccioso davanti a lei. Sapeva cosa voleva scrivere e quali parole usare, ma quando provò a fissarle sulla carta quelle volarono via come farfalle, ridendo sommessamente tra di loro. Ci provò più e più volte, poi, delusa e stanca, scagliò la penna contro il muro e iniziò a piangere con il volto tra le mani. Nancy, che passava di lì in tutta l’eleganza dei suoi cinquant’anni, la sentì e la raggiunse. Raccolse la penna dal pavimento, si sedette accanto alla giovane e, con la stessa pazienza di vent’anni prima, gliela mise in mano, dicendole in tono dolce ma fermo di prendere fiato e ricominciare senza fare scene isteriche. Inés si calmò e si mise di nuovo al lavoro sotto la guida paziente della vecchia prostituta, e al tramonto la lettera era finita, pronta per essere imbucata e spedita. La ragazza la lasciò cadere nella buca delle lettere all’ufficio postale con l’orgoglio vittorioso di una madre e tornò al bordello sorridendo e canticchiando tra sé e sé.
 
La corrispondenza tra Daniel e Inés rimase regolare per tre anni, poi le lettere di lui si fecero sempre più rare fino a sparire del tutto. Nelle ultime missive lui le confidò che il lavoro gli stava togliendo tutto il suo tempo e che non riusciva nemmeno a trovare un momento per tornare nella sua città natale con Luisa, ma le promise che prima o poi sarebbe tornato a trovarla. La giovane annuiva mentre leggeva nella sua stanza, immaginandosi che il ragazzo fosse lì accanto a lei a parlare e a confidarsi come aveva sempre fatto. Le sue lettere, al contrario di quelle lunghissime di lui, coprivano a malapena due facciate ed erano scritte in frasi brevi e spezzettate, reti in cui le parole si ritrovavano imprigionate e da cui cercavano di liberarsi a tutti i costi; forse era per questo che la calligrafia di Inés era storta.
Se Daniel aveva raggiunto un discreto successo ed aveva iniziato una nuova vita, non si poteva dire la stessa cosa per la ragazza: morta Mama Grande, il bordello era stato presto in gestione da Dia Sanchez, ma la vecchia promessa di non farvi lavorare Inés era ancora valida. Senza più la compagnia del suo amico, ciondolava per la città senza granchè da fare, sentendosi inutile e vuota come le conchiglie che la marea abbandonava sulla spiaggia. Il suo unico passatempo era sedersi su una bitta al porto o su una panchina nel parco, dove presto o tardi qualche vecchietto la raggiungeva e si metteva a sproloquiare sul presente, il passato e il futuro. Lei rimaneva in silenzio ad ascoltare come aveva sempre fatto in tutti quegli anni, e non ci volle molto prima che diventasse un punto di riferimento per i pescatori e i pensionati; tutti volevano parlare con Inés, perché Inés non diceva una parola ma confortava più di chiunque altro. Quando la sua cerchia di frequentatori si fece più ampia, la ragazza comprò delle assi di legno e costruì un casottino nella parte vecchia del porto, non molto lontano dal bordello, dove poteva ritirarsi con i clienti senza che altri ascoltassero le loro confessioni. Non accettava mai soldi perché non considerava il suo un vero lavoro, ma le capitava spesso di trovare qualche moneta o banconota sul pavimento di legno o nelle tasche del cappotto appeso alla porta. All’inizio fece finta di nulla, sperando che prima o poi i soldi smettessero di arrivare così come avevano iniziato, ma col passare del tempo sembrarono addirittura aumentare. Ormai rassegnata ad essere pagata contro la sua volontà, decise di usarli per qualcosa di utile e comprò un piccolo fondo nei meandri della città vecchia, un posto così sperduto che furono necessari un paio di cartelli per indicare ai clienti la strada giusta. Non lo rese mai un posto confortevole o decorato finemente, come se il lusso potesse distrarre dal vero scopo della sua attività: gli unici mobili erano un paio di sedie di legno e una fila di ganci a cui i clienti appendevano i loro cappotti. Inés non smise mai di trovare soldi nei posti più impensati, ma, ogni volta che le sembrava di averne troppi, ne faceva scivolare un po’ nelle tasche di qualche giacchetto più logoro e consumato del suo. Se qualcuno se ne accorse, lei non lo seppe mai, e le andava bene così.
 
Le stagioni passavano, le onde del mare andavano e venivano, e anche le lancette degli orologi correvano avanti senza fermarsi. Le madri di Inés invecchiarono e poi morirono, lasciando spazio a ragazze più giovani che spesso e volentieri sembravano le loro reincarnazioni: la maggiore di due sorelle spagnole era il ritratto di Dia Sanchez, mentre una colombiana con sangue di mille discendenze nelle sue vene aveva gli stessi occhi verdi penetranti di Mama Grande. Erano tutte più giovani di Inés, ma la conoscevano e la rispettavano come se fosse lei, e non Adela, l’ultima sopravvissuta, a mandare avanti il locale. Il tempo era passato anche per Inés, come dimostravano i ricci ormai bianchi e le rughe sul suo volto da sessantenne, ma i suoi occhi dorati e il suo spirito indomabile erano gli stessi della bambina che scivolava lungo il corrimano delle scale e della ragazza che aveva insegnato a Daniel Arrera l’arte del letto. Continuava a mandare avanti quello che chiamava semplicemente ‘il fondo’ e aveva ancora la sua stanza al bordello, dove rientrava ogni sera prima che la confusione notturna la assalisse e la stordisse. Non era mai uscita dalla città e non si era mai sposata, nonostante le tante storie finite male per lei o per qualcun altro, ma si riteneva soddisfatta della sua vita. L’unico rimpianto che aveva, forse, era aver perso di vista Daniel, ma non gliene faceva una colpa: anche lui aveva una vita e un lavoro, e probabilmente doveva aver avuto anche qualche bambino a cui badare. Ogni tanto si ritrovava a pensare a lui innocentemente con la nostalgia riservata ai fantasmi, ma niente di più.
Una mattina di inizio estate, mentre il resto della città dormiva ancora, Inés si recò come sempre di buon’ora al fondo per iniziare una nuova giornata di lavoro. Di solito i primi clienti arrivavano dopo un’ora o due, e rimase stranita quando vide che davanti al fondo c’era già un uomo in piedi che aspettava davanti alla porta chiusa. Osservò lo sconosciuto mentre si avvicinava e decise che non riconosceva quel cappotto di pelle marrone, i pantaloni scuri e i diradati capelli bianchi; forse era un forestiero, arrivato lì per caso o indirizzato da qualcuno dei suoi clienti abituali. Quando fu a pochi passi di distanza, lui si voltò di scatto e, non appena l’ebbe riconosciuta, sorrise con la bocca e con i due occhi castani che Inés aveva visto così tante volte nei suoi sogni e nella realtà. Sobbalzò, spaventata, ma si costrinse a fare un passo avanti e a prenderlo per mano, come se volesse accertarsi che fosse reale. “Sei tu?” mormorò flebilmente.
Daniel annuì continuando a sorridere, poi si gettarono l’una nelle braccia dell’altro e si abbracciarono come se volessero cancellare tutti gli anni di lontananza con quel semplice gesto. Quando si furono staccati, Inés lo osservò meglio: anche il suo volto erano pieno di rughe e il suo fisico non era più quello di un tempo, ma i suoi occhi non erano cambiati di una virgola. “Luisa?” fu la prima cosa che gli chiese.
Il suo sguardo si intristì. “Un tumore. Ha lottato per due anni, poi è entrata in coma e non si è più svegliata.” Scrollò le spalle e le accarezzò i capelli per consolarla. “È successo cinque anni fa. Non potevi saperlo.”
“Perché sei tornato?” Non c’era rabbia nel suo tono, solo semplice curiosità.
“Una mese fa mio zio Fernando è morto e ha lasciato tutto a me nel suo testamento, anche la sua casa. Sono venuto a sistemare qualche faccenda con gli avvocati, ma sto pensando di rimanere qui per il resto della mia vita. Ora che Luisa non c’è più e non abbiamo mai avuto figli…” Lasciò cadere la frase, poi puntò il suo sguardo in quello di Inés. “E tu? Ti sei sposata?”
Lei lo guardò con aria scettica, e lui per tutta risposta rise. “Già, hai ragione, è una domanda stupida. Non riesco ad immaginarti sposata.” Arrossì di colpo e iniziò a mormorare: “Allora, visto che siamo da soli tutti e due, potresti… potresti venire ad abitare con me nella casa di mio zio.” Fece un respiro profondo. “Non voglio passare i miei ultimi anni da solo, e mi sento in colpa per non averti più scritto per tutto questo tempo. Potremmo prenderla come un’occasione per rimetterci in pari con il passato, se ti va.”
Inés lo guardò stupita, pronta a replicare con parole che gli avrebbero spezzato il cuore, poi vide la luce nei suoi occhi e capì: nemmeno lui l’amava, era ancora fedele a Luisa dopo tutto quel tempo e oltre la morte. Però sì, sarebbe stato bello vivere insieme e stare sdraiati sullo stesso letto alla luce del giorno, senza bisogno di fughe notturne. Aprì bocca per accettare, ma Daniel la interruppe e indicò la porta chiusa davanti a sé. “È il tuo negozio, questo?”
“Sì e no,” rispose con un sorriso furbo. “È solo un posto dove le persone vengono a sfogarsi e a parlare con me di tutto quello che vogliono. Di solito arrivano tra un’ora o due, quindi penso che avrai tutto il tempo per raccontarmi cos’hai fatto in tutti questi anni.”
Rise. “Potrebbe essere una storia molto lunga.”
Continuò a sorridere e scrollò le spalle. “Posso anche prendermi un giorno di ferie. Ce la faranno a restare per un pò senza di me.”
Daniel sorrise di rimando e lasciò che Inés aprisse la porta, poi entrò con lei dentro il fondo e si sedette su una delle due sedie. Guardò per un’ultima volta negli occhi dorati dell’amica, poi prese un respiro profondo e iniziò a raccontare trentacinque anni di ricordi, persone e disegni, mentre la donna lo ascoltava con aria rapita nella penombra e le onde si infrangevano in lontananza contro il molo.















Il racconto più lungo che abbia mai scritto, devo ammetterlo D: È solo un piccolo omaggio ad una delle mie scrittrici preferite, non cercateci niente di profondo o complicato.
Se siete arrivati fino in fondo... bè, complimenti!

xoxo
Eva 

  
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