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Autore: Sally90    24/08/2007    7 recensioni
Cosa faresti se sapessi che la persona che, nonostante tutto, ami ancora, ha deciso di partire per la guerra? Sfideresti il destino?
Genere: Romantico, Triste, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Candice White Andrew (Candy), Terrence Granchester
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Midsummer's Dream

 

 

Per chi non conosce Candy Candy:

“1898, Stati Uniti d’America: presso un piccolo orfanotrofio chiamato Casa di Pony, vicino alle sponde del lago Michigan, vengono abbandonate due neonate. Il loro pianto viene udito da Miss Pony e Suor Maria, le direttrice, che le accolgono amorevolmente. Le due bambine, la timida Annie e l’intraprendente Candy, crescono insieme diventando ben presto inseparabili. Nulla sembra turbare la loro felicità, ma quando compiono sei anni Annie viene adottata da una coppia molto facoltosa, il signore e la signora Brighton. Il distacco è triste e doloroso. Per un breve periodo Annie e Candy restano in contatto, ma ben presto si vedono costrette a interrompere la loro fitta corrispondenza per colpa di allora importanti questioni sociali. Proprio il giorno del loro definitivo addio, sulla collina dove è solita ritirarsi nei momenti di maggiore tristezza, Candy incontra un giovane dai capelli biondi vestito con un kilt scozzese, che la consola suonando per lei la cornamusa che porta con sé. Prova di questo incredibile incontro è per la spilla a forma di aquila con sopra una lettera "A" che il giovane, da lei soprannominato il Principe della Collina, perde prima di andarsene.

Candy ha già compiuto dodici anni quando un giorno, rientrando alla Casa di Pony, trova il maggiordomo di una ricca famiglia, i Legan, che ha presentato a Miss Pony una richiesta per assumere la bambina come dama di compagnia della figlia minore, Iriza. Candy ha sempre desiderato un papà e una mamma ed è delusa dal fatto che la vogliano solo come dama di compagnia, ma riconoscendo sulla vettura lo stemma del Principe della Collina, si decide ad abbandonare l’orfanotrofio. Suor Maria e Miss Pony non vorrebbero lasciarla andare, ma con la tristezza nel cuore devono acconsentire alla sua partenza immediata. Durante il viaggio la bambina continua a chiedersi come può essere questa Iriza, tanto bisognosa di compagnia, e si diverte ad immaginarla molto simile alla piccola Annie. Ma le cose purtroppo non stanno affatto così: Iriza, così come il fratello maggiore, Neal, è viziata e malvagia e, fin dall’inizio, non perde occasione per incolpare Candy delle sue malefatte, per umiliarla e metterla in cattiva luce di fronte ai genitori. Un giorno Candy, dopo l'ennesima cattiveria, fugge nel bosco e fa un incontro inaspettato: davanti ad un cancello ricoperto di rose rampicanti c'è un ragazzo identico al suo Principe che la consola con le stesse parole di un tempo. Quando Candy, persa nei propri ricordi, si ridesta, però, lui non c'è già più. Candy ritorna ancora a cercare il ragazzo ed così ha l’occasione di far conoscenza con due fratelli, Archie e Stear Corwell. I due invitano Candy ad una festa a casa Andrew, dove la piccola può finalmente rivedere il famoso ragazzo biondo. Egli non è altri che Anthony Brown, cugino dei suoi due nuovi amici e anch’egli membro della famiglia Andrew. Tra i due nasce subito un tenero sentimento d’amore. Tra le nuove conoscenze di Candy si aggiunge anche Albert, un giovane vagabondo amante degli animali, che più volte interviene in suo aiuto.

Ma i pestiferi fratelli Legan, non fanno altro che mettere i bastoni tra le ruote alla piccola biondina, ed arrivano a farla mandare in Messico, per immeritata punizione. Durante il viaggio, però, Candy viene "rapita" da George, l'uomo di fiducia di William Andrew, misterioso capostipite della famiglia che dietro le pressanti richieste dei suoi nipoti Anthony, Archie e Stear ha deciso di adottarla, nonostante il disappunto della vecchia zia Elroy. Per presentare Candy a tutti i componenti della grande famiglia Andrew, viene organizzata la classica caccia alla volpe. È in questa occasione che Anthony perde tragicamente la vita cadendo da cavallo. Distrutta dal dolore Candy torna alla Casa di Pony per ritrovare la serenità perduta. È lì che un emissario dello zio William la raggiunge per condurla a Londra a studiare in un esclusivo collegio dove sono stati già mandati Archie e Stear.

Imbarcata sulla nave che dall'America la conduce in Inghilterra, Candy si imbatte in un giovane misterioso e affascinante dai lunghi capelli castani, Terence, che stranamente di spalle le ricorda Anthony. Ben presto si rende conto che questi ha un temperamento nettamente differente dal suo primo amore: è maleducato ed irriverente nei suoi confronti e la prende in giro chiamandola "Signorina tutte-lentiggini". In Inghilterra, Candy ha l’occasione di conoscere Patty, una ragazza timida e problematica e rivede anche la sua cara Annie da cui, in seguito alla pubblica scoperta delle sue umili origini, ridiventa inseparabile. A Londra rincontra anche Albert. Purtroppo anche i Legan hanno mandato a studiare alla Saint Paul School i loro figli Neal e Iriza. Contro le loro angherie interviene Terence, con il quale Candy comincia a stringere una burrascosa ma sincera amicizia. Pian piano il ragazzo inizia a nutrire un sentimento sempre più forte per Candy e, deciso a farle dimenticare Anthony, prima la costringe ad una cavalcata infernale, poi, la bacia [qui l’anime si scosta dal manga originale: nel primo questa scena avviene durante le vacanze in Scozia, nel secondo durante la festa di Maggio.] Alla fine anche Candy si innamora di Terence ed i due trascorrono insieme momenti felice e spensierati. Ma Iriza, gelosa, pone subito fine al loro piccolo idillio. Con uno stratagemma riesce a far espellere Candy dal collegio. Terence decide allora di sacrificarsi per lei e abbandona l’Inghilterra per andare negli Stati Uniti dove spera di poter seguire le orme materne, diventando un attore.

Ma Candy non se la sente più di restare al collegio. Intraprende così un viaggio burrascoso e ritorna alla casa di Pony, scoprendo che Terence è stato li per vedere il luogo dove lei è cresciuta e di cui gli ha tanto parlato. Ma lei non vuole restare, capisce che la sua vera vocazione è fare l'infermiera, decide di frequentare la scuola Mary Jane e conseguire la qualifica che le consentirà di esercitare questo lavoro. Intanto scoppia la prima guerra mondiale e Archie e Stear vengono richiamati in America insieme a Annie, mentre Candy e altre allieve infermiere, per mancanza di personale, vengono mandate in un ospedale di Chicago. Lì la biondina ha l’occasione di rivedere, seppur solo per qualche istante, a causa di numerosi eventi sfortunati, l’amato Terence. Felice per quel incontro ritorna in ospedale dove la direttrice le annuncia che c'è bisogno di una volontaria che parta per soccorrere i feriti di guerra. Candy esita un attimo di troppo e al suo posto parte Flanny, sua impassibile compagna di stanza.

Un giorno in ospedale giunge Albert, ferito e senza memoria. Candy si prende cura di lui al meglio, ma quando il direttore le annuncia che ha intenzione di dimettere il ragazzo perchè ormai fisicamente ristabilito, lei decide di andare a vivere con lui in una casa tutta loro. Intanto a Terence, che è al corrente di tutto perchè lei gli scrive puntualmente, viene assegnata la parte di Romeo. Entusiasta egli la invita alla rappresentazione teatrale, felice di poterla finalmente riabbracciare. Purtroppo, però, durante le prove per lo spettacolo, Susanna, l’attrice che avrebbe dovuto interpretare Giulietta, lo salva dalla caduta di un proiettore, perdendo una gamba e spezzando la sua carriera.  Arrivata a New-York, Candy apprende la notizia dell'incidente di Susanna e decide di andare a parlare con la ragazza, per dirle che non è giusto che lei approfitti del suo gesto per legare a sé Terence condannandolo all'infelicità. Ma una volta in ospedale Candy si rende conto che Susanna è disperata: la trova sul tetto in procinto di suicidarsi.  Candy la salva, si rende conto dell'amore profondo che lega Susanna a Terence, capisce la sua disperazione e, seppur con il cuore a pezzi, decide di tirarsi indietro e farsi definitivamente da parte. L'addio in ospedale tra i due ragazzi è straziante, un abbraccio che vorrebbero durare un eternità e che segna solo l'inizio della fine di un grande amore. Candy arriva a Chicago svenuta sul treno e con la febbre alta e quando riapre gli occhi a casa Andrew apprende dai suoi amici Archie, Annie e Patty che Stear è partito volontario per la guerra.

Intanto entra in scena Neal che, dopo essere stato salvato da Candy da un pestaggio, inizia a innamorarsi di lei. La segue, la spia, scopre che vive con un uomo e ne è geloso, la invita ad un appuntamento ma Candy si rifiuta di lasciarsi corteggiare. Allora lui, offeso, fa in modo che venga bandita da tutti gli ospedali di Chicago. La ragazza decide allora di aiutare un vecchio dottore nella gestione di una piccola clinica di periferia. La sua vita, però, viene nuovamente sconvolta: Stear muore in un combattimento aereo, Patty ritorna in California per cercare di ritrovare un po’ di serenità, Albert, che nel frattempo ha segretamente ritrovato la memoria, decide di partire e Terence, come è annunciato su tutti i giornali, sopraffatto dal dolore, ha abbandonato Susanna e il teatro. Distrutta, Candy si mette alla ricerca del suo protettore e incappa per caso in un piccolo teatro ambulante in cui vede Terence recitare malamente, completamente ubriaco. Il giovane la vede, seppur creda sia un allucinazione, e capisce la tristezza e il dolore che le sta causando. Decide allora di riprendere in mano la sua vita e di tornare dall'altra donna che per lui sta terribilmente soffrendo, Susanna. Rincuorata, almeno su questo fronte, Candy apprende che la famiglia Legan sta organizzando il suo matrimonio con Neal, per volere dello Zio William. Furiosa, riesce a rintracciarlo e scopre che questi non è altro che Albert, il buon amico che l'ha sempre aiutata. I due chiariscono ogni cosa e il matrimonio viene annullato. Il finale vede una gioiosa festa alla Casa di Pony, dove tutto è cominciato ormai sedici anni prima. Candy, passeggiando per la collina che tanto ama, sente nuovamente il suono di una cornamusa. Si volta e con sorpresa rivede quel principe che non ha mai dimenticato e che altri non è che Albert.”

 

 

 

 

 

Midsummer's Act

Atto di mezz’estate

 

 

C’è un detto che circola tra gli scenari dei teatri. Una legge non scritta che sibila dietro il sipario e danza tra la polvere illuminata dai riflettori. Aleggia nelle pagine consunte e sottolineate dei copioni e raggiunge anche il retroscena, nei suoi più reconditi angoli. È una sentenza che assume quasi il carattere oscuro di maledizione e scandisce inesorabile l’esistenza degli attori che hanno l'audacia di recitare quello spettacolo, ripetendo nel silenzio teso del pubblico quelle parole. Educano il loro cuore a vibrare sotto la corda di falsi sentimenti per ottenere la fama e l’onore e non si rendono conto di sfidare lo stesso destino. Perché l’attore e l’attrice che recitano Romeo e Giulietta sono destinati a unirsi in matrimonio e a restare insieme per sempre.

A qualunque costo.

 

***

 

Si preannunciava una bella giornata. I raggi maliziosi di un sole intraprendente si erano gia intrufolati tra le spesse tende della camera e venivano agitare le loro punte accecanti intorno a lei. Girò la testa da un lato, poi dall’altro, le sopraciglia aggrottate e l’espressione imbronciata. Il caldo scottante di quella mattina di fine luglio cominciava a invadere la stanza. La giovane donna si raddrizzò e decise di uscire sul terrazzo alla ricerca dell’ultima freschezza mattutina. Alzandosi, posò uno sguardo teneramente triste sulla figura addormentata al suo fianco. Silenziosamente e con precauzione, attenta a posare con leggerezza a terra il piede destro, abbassò la maniglia della portafinestra e scivolò nell’apertura.

 

Una brezza leggera volteggiò attorno a lei, liberando il suo bel viso dalle lunghe ciocche aggrovigliate dalla notte. Si avvicinò al balcone e si appoggio leggermente sulla balaustra per ammirare, come a sua abitudine, il magnifico roseto esteso un po’ più in basso, nel seno del vasto giardino. Il delicato profumo delle rose dalla molteplice essenza si innalzava invitante verso di lei. Sorrise annusando quei teneri odori, di uno di quei sorrisi malinconici che talvolta apparivano sulle sue labbra piene, quando i ricordi dolorosi si facevano più presenti e venivano pizzicare il suo fragile cuore.

 

Era stato lui a volere quelle rose nel loro giardino, qualche anno addietro, dopo esserne rimasto abbagliato un giorno che, durante una gita vicino al lago Michigan, passeggiando in campagna, si erano ritrovati davanti ad un’elegante dimora estiva che doveva appartenere ad una qualche ricchissima famiglia.

Sapeva chi gli avevano ricordato.

L’aveva capito dall’improvviso bagliore addolorato che aveva attraversato il suo sguardo, impedendogli di muoversi.

 

Quanti anni erano trascorsi da quella maledetta notte innevata in cui, per un triste scherzo del destino, si erano ritrovati tutti e tre sul tetto di un ospedale di New-York? Aveva smesso di contarli, tentando di allontanare per sempre dalla sua mente quelle immagini di disperazione e di spasimo e, con loro, il profondo senso di oppressione che la stringeva in una morsa quasi letale.

Le doveva tutto, ne era cosciente, eppure non riusciva neanche a pronunciare il suo nome. Farlo avrebbe accentuato l’eco di quel volto, che ancora troppe volte le annebbiava la vista. Riccioli biondi da bambina a incorniciare un volto di donna falsamente sereno, con i muscoli contratti sotto la pelle e lo sguardo al soffitto per evitare le lacrime.

Lo stesso sguardo risoluto e fragilmente perduto che le capitava di vedere nei suoi occhi oltremare.

 

Sospirò piano, mescolando il suo respiro alla tenera aria mattutina che gia cominciava a farsi afosa, riscaldata dai raggi di quel sole sempre più vivo, e passò piano il dito attorno al cerchietto di metallo che le avvolgeva l’anulare sinistro, come a rassicurarsi. Era felice oramai, si disse, coccolata da uno sposo che adorava e circondata da una famiglia a cui, in fondo a se stessa, aveva temuto di dover rinunciare per sempre. Eppure il benessere affettivo e lussuoso che la circondava non le impediva di vivere nell’inquietudine permanente di perdere quel equilibrio che aveva cercato di costruire piano, piano, negli anni.

E che forse si stava gia incrinando.

 

Lasciò il suo sguardo vagare oltre il pacifico giardino e il muricciolo che lo delimitava, in lontananza, ignara degli occhi fermi che erano appoggiati sulla sua esile schiena, avvolta dall’azzurro pallido di una camicia da notte leggera. A torso nudo, lui se ne stava lì, con la fronte accostata al vetro appena fresco della portafinestra, protetto dalla semioscurità della grande camera da letto, l’alito che ancora tradiva i postumi di quella notte che lei pareva aver dimenticato, ma che lui sentiva come l’ennesima macchia in quella sua anima tormentata.

Di nuovo, un errore su quella scena di cui era il protagonista obbligato, rinchiuso negli abiti ingrati dell’uomo in cui si era trasformato.

Cosa penseresti di me?

Le sue mani si serrarono su se stesse in una morsa ferrea, scosse da tremiti indomabili che tradivano tutta l’irritazione che sentiva crescere dentro di sé.

 

Per un istante, si permise di richiudere gli occhi e far sparire l’esile figura che, al di là del vetro, continuava ad ammirare il giardino fiorito. Subito, il volto che aveva scorto la sera precedente sulla prima pagina di un plumbeo quotidiano lo colpì con forza, involontariamente crudele, inconsapevolmente carnefice, con il suo sorriso, del suo cuore gia ammaccato.

Di nuovo, era bastato un accenno velato, un’ombra sbiadita di lei, per fargli dare fuoco a quella serenità pacata e appena percettibile che aveva duramente conquistato.

Di nuovo, di fronte a quello sguardo scintillante di primavera non aveva potuto, voluto, tirarsi indietro e aveva permesso ai suoi occhi di scorrere con avidità le parole del trafiletto.

E queste gli avevano marcato a fuoco l’animo claudicante.

 

Si aggrappò alla tenda e respirò profondamente. Le sue gambe lo sostenevano appena e solo la presa sul tessuto corposo gli permise di non cedere. Il pensiero insostenibile che lo tormentava dalla sera precedente, il sospetto indubbiamente fondato che in qualche modo fosse proprio lui la causa di quella decisione, colpì la sua impulsività. L’immagine delicata al di là del vetro cercò, nello stesso momento in cui aprì gli occhi, di arrestare la sua caduta in quel baratro di tormento che già gli bloccava il respiro. Invano.

Furente, mandò in frantumi la finestra, strappandosi dal legame che lo vincolava a lei.

 

Susanna, sorpresa dal rumore improvviso, sussultò, lasciando scivolare dalle sue labbra un grido di spavento. La speranza che il sonno avesse calmato l’animo inquieto che poche ore prima l’aveva travolta scivolò all'istante lontano. Timorosa di incontrare di nuovo quello sguardo deformato da un qualcosa che non era riuscita a comprendere, si voltò piano, imponendosi di trattenere lo sconforto che le stringeva lo stomaco. I suoi occhi bambini incontrarono, però, soltanto il vuoto del vetro frantumato. Si strinse forte le labbra tra i denti per non lasciare scappare il singhiozzo di un presentimento intimo amico dell’evidenza e, al rumore della macchina sgommante sulla ghiaia del viale d’ingresso, si lasciò scivolare per terra.

 

Se n’era andato. Di nuovo.

 

***

 

Guardò con dolcezza il piccolo ambulatorio adagiato in uno schizzo di verde ai margini del centro città. Il sole caldo ormai quasi pronto al tramonto accarezzava le assi di legno delle pareti vivacizzandole con sfumature sempre più tendenti al vermiglio e rifletteva i suoi densi bagliori contro le esigue finestre. Un sorriso le illuminò il volto al ricordo della prima volta in cui aveva varcato quella porta, preoccupata e furente, ancora indossante la camicia da notte rosa acceso che aveva quando era stata svegliata dall’affittuario e informata dell’incidente del suo protettore.

Articolò silenziosamente una parola di saluto verso quel luogo, rifugio per la sua vocazione calpestata, e risalì sull’automobile elegante che l’aspettava con il motore acceso.

 

Il bel viso sporto dal finestrino per prolungare il contatto visivo con la semplice struttura, chiese gentilmente all’autista di portarla all’originaria destinazione, dopo quella piccola deviazione. L’aria che piacevolmente entrava nella vettura si insinuava tra i suoi riccioli dorati di miele, inscenando con loro un ballo spensierato, e rinfrescava piacevolmente il suo viso amabile e costellato di piccole lentiggini chiare che dal piccolo naso appuntito arrivavano fino agli zigomi sfumandosi gradualmente.

Se la via intrapresa la metteva in apprensione, questo non traspariva né dai suoi tratti, serenamente rilassati, né dalle iridi smeraldine che osservavano lo scorrere del paesaggio con disarmante tranquillità. Solo un leggero tremore alle mani, saldamente unite e appoggiate con falsa noncuranza alle gambe, tradiva la sua agitazione. Agitazione mescolata a quello strano misto di paura, coraggio, eccitamento e a una sensazione strana che davvero non riusciva a spiegare.

Era come se il suo destino la stesse chiamando a gran voce, per un appuntamento fissato in anticipo, gia molto tempo prima.

 

Aveva ricevuto un addestramento particolare in previsione di un simile evento, già quando non era altro che una semplice allieva pasticciona e sbadata. Era giunto il momento, lo sapeva, di metterlo in pratica.

Il ricordo di Catherine, che le aveva inconsapevolmente consentito di continuare a svolgere la sua professione, come quello del cugino divertente e fantasioso che aveva rallegrato tante sue giornate, le tornarono alla mente. Si chiese se avesse davvero la forza di abbandonare la tranquilla vita di Chicago, l’affetto e la compagnia da cui era sempre circondata, e la casa dov’era nata e dove soleva tornare per ritrovare la serenità.

 

Ad un incrocio, quando l’automobile si fermò per dare la precedenza, una giovane coppia con un bambino passò davanti a lei. La donna sembrava radiosa, la mano appoggiata fermamente sul braccio del marito che teneva in braccio suo figlio.

Non doveva avere più un paio d’anni. Aveva gli stessi capelli rossi scarmigliati del padre.

Li guardò passeggiare lungo la strada finché la macchina non ripartì, allontanandoli dalla sua vista. Sembravano così felici e così estranei al pericolo imminente che il paese avrebbe dovuto fronteggiare. Pensò allora che quella donna avesse delle buone ragioni per restare sana e salva sotto la protezione della sua madrepatria in quanto, dopotutto, aveva una famiglia sulla quale vegliare.

 

Ma lei non aveva nessuno che l’aspettava a casa, e se qualche anno prima il suo pensiero l’aveva fatta esitare adesso sentiva di aver esaurito le scuse.

Estrasse dalla tasca il ritaglio di giornale che le avevano dato qualche giorno prima, chiedendosi ancora come la notizia fosse trapelata così in fretta. Sorrise alla sua foto. Risaliva a qualche anno da allora, quando aveva ricevuto il suo diploma e viveva con leggerezza ed esuberanza nell’attesa di rivederlo. Nessuna mestizia aleggiava nel suo sorriso e non vi era traccia dell’attuale ombra del suo cuore. Era genuinamente felice, allora, a pochi passi da quelli che amava e in fitta corrispondenza epistolare con lui.

 

Sospirò leggermente, senza farsi sentire, per scacciare via con quel respiro il dolore che ancora le suscitava il suo ricordo, e per non permettere a quella scena di ripetersi nella sua mente, impedendo alle sue orecchie di sentire altro che quelle parole.

Ma lo sforzo fu vano.

 

Si rivide nel cappottino rosso.

Scendeva le scale precipitosamente, l’animo confuso e annebbiato. Per un momento aveva creduto si trattasse di uno dei suoi incubi, ma il forte battito del suo polso così dolorosamente nitido, le aveva confermato che era ben sveglia.

Aveva sentito quei passi frenetici che la seguivano.

Era lui, lo sapeva.

Scappava e al tempo stesso desiderava non arrivare mai all’ultimo gradino.

E poi, lui le aveva cinto la vita, allacciando le mani sul suo tenero ventre, tirandola piano, ma con foga, contro di sé. E lei si era ritrovata contro il suo petto, il profumo pungente di lui che le stuzzicava il piccolo naso cosparso di efelidi. Aveva sentito tremante i suoi ricci scomposti accogliere il suo volto e udito il pianto nella sua voce.

Quella voce così calda e scherzosa e irriverente che ancora le sembrava di sentire chiamante il suo nome, di notte.

 

Gli occhi accolsero un velo di lacrime, ma queste non ebbero il tempo di sfuggire sulle guance candide di latte, fermate in anticipo dalle sue fini dita veloci. Abbassò un attimo le palpebre, sentendo lo spegnersi del motore, per ritrovare dentro di sé la calma necessaria per quel commiato, poi, sistemandosi velocemente i capelli e stampandosi un sorriso smagliante sul volto quasi a fare il verso all’ultima luce del giorno, scese e si precipitò incontro alle due donne, le sue due madri, che l’attendevano su quella soglia tanto amata.

 

***

 

L’aveva osservata correre, allontanarsi dalla vettura, senza una parola, senza un gesto, paralizzato com’era dall’emozione che lo sommergeva. Gli era sembrata così bella, così pura, talmente diversa da tutte le giovani donne che aveva l’occasione di incontrare a teatro o alle feste mondane cui era invitato con…

Indossava un abito estivo, sulle tonalità del giallo e dell’arancio, semplice come voleva il suo carattere, con maniche corte leggermente sbuffanti e una gonna che ricadeva naturalmente fin sotto il ginocchio. I lunghi capelli ricci erano trattenuti indietro da un largo nastro coordinato. Notò con una piccola stretta al cuore che non aveva più i codini smisurati che sfoggiava nella sua più tenera giovinezza, messi da parte, nella soffitta della sua memoria, immaginava, come il restante di un passato ormai compiuto.

 

Non sapeva spiegarsi esattamente come avesse capito che l’avrebbe trovata lì, in quel luogo di cui tante volte gli aveva parlato con gli occhi brillanti di gioia; l’unico pensiero che gli vorticava in testa era che avrebbe tanto voluto parlarle e dirle che la trovava più attraente che mai e che l’amava come il giorno del loro primo incontro su quella nave che li conduceva verso Southampton, verso l’Inghilterra, verso il collegio di Londra, che aveva segnato a vita i loro due destini. Scosse il capo.

No, si disse, l’amore che provava allora non era niente paragonato a quello che gli stava schiacciando ogni razionale pensiero in quel momento.

 

Erano passati gli anni, eppure gli pareva di ritrovarla sostanzialmente come l’aveva lasciata: chiassosa, vivace, sprigionante una gioia di vivere capace di superare ogni freno. Tuttavia, non riusciva ad ignorare che, giusto un attimo prima, l’aveva scorta attraverso i vetri abbassati passare ripetutamente le dita sugli occhi e respirare profondamente prima di abbandonare il sedile, quasi a voler scacciare un malessere profondo, a tratti troppo pesante per la sua anima. Si chiese se fosse per la stessa ragione per cui lui passava tante notti insonni a errare per il giardino, se nemmeno lei, nonostante tutta la sua forza, fosse ancora riuscita a dimenticare.

Partiva per questo?

Eppure non era stata lei stessa a spronarlo ad andare avanti a testa alta verso la sua meta?

Ricordava ancora il giorno in cui gli era parso di vederla, in quel miserabile teatro dove si esibiva, il testo dimenticato, la voce tremante, le orecchie assordate dall’alcool che non riuscivano a sentire le basse parole dell’attrice che recitava con lui.

Era apparsa, in quel momento in cui lui aveva toccato il fondo, in mezzo agli schiamazzi e agli insulti che lo circondavano. Per un istante non aveva potuto muoversi né pensare a respirare e poi, all’improvviso, la sua volontà aveva preso il sopravvento e lui era stato capace di ridare valore a quel testo maltrattato. Era tornato sé stesso e il pubblico l’aveva capito. Il baccano si era fermato e la folla si era messa ad ascoltare le sue parole, senza accordare più nessuna attenzione all’indegno scenario, alla vecchia donna che era supposta essere la sua compagna o ai costumi inappropriati.

 

Non appena aveva finito di declamare la sua parte, quella platea così rozza aveva cominciato ad applaudire e lui si era chinato in un ringraziamento silenzioso.

E quando aveva alzato gli occhi per cercarla, lei, visione o realtà che fosse, era sparita.

L’effetto della sua presenza, però, era rimasto e lo aveva spronato a guardare che cos’era diventato. Un attore scadente, ma soprattutto un uomo miserabile, incapace di perseguire i propri sogni, semplice ombra di quel padre che tanto aveva criticato.

Allora, in quel momento, l’immagine dolce di Susanna, bussando appena, era entrata nel suo cuore scotendolo piano. E lui si era ricordato di come, quando l’aveva informata della sua partenza, non avesse cercato di fermarlo, ma l’avesse semplicemente seguito con gli occhi augurandogli buona fortuna. All’inizio aveva pensato che fosse un modo di suscitare la sua compassione, ma poi, poi aveva capito che non c’era niente di malevolo nel suo sguardo, niente di sbagliato. Solo una luce d’amore nuova, un po’ triste, diversa da quella che gli aveva mostrato quando ancora recitavano insieme. Più matura, cresciuta all’improvviso.

Si era accorto allora che anche lei stava soffrendo e che tutto quel dolore, forse, sarebbe stato più sopportabile se affrontato assieme.

 

Così, era tornato.

 

Lei non gli aveva fatto domande, si era limitata, come quando se n’era andato, a regalargli uno dei suoi mesti sorrisi a cui si era visto rispondere sinceramente.

La sua nuova vita era iniziata in quel momento: aveva reintegrato la compagnia teatrale Stradford, riconquistando con facilità, quasi come se la sua scomparsa fosse stata soltanto un’abile mossa pubblicitaria, pubblico e critica, e, dopo qualche mese, aveva chiesto a Susanna di sposarlo.

No, non era lei, non sarebbe mai stata lei, e mai avrebbe potuto amarla allo stesso modo, lo sapevano entrambi, ma si era instaurato tra loro un affetto tranquillo che gli aveva donato una sorta di placida serenità. Vivevano in un equilibrio fragile, ma poggiante sulle basi della considerazione e dell’onestà e non su amare illusioni.

 

Eppure era andato via di nuovo, consapevole di ferirla.

Ogniqualvolta nella loro vita entrava un frammento di lei, per quanto piccolo e insignificante, lui si chiudeva in una stanza per giorni interi, uscendo solo per andare al lavoro, e Susanna, paziente, aspettava il consueto ritorno alla normalità. Pochi giorni prima, però, aveva completamente perso la testa. Quelle poche righe lo avevano spinto a entrare nel primo bar e a bere fino a perdere anche l’ultimo barlume di ragione che gli restava.

Quello che aveva fatto dopo, preferiva non ricordarlo.

 

Delle grida di festa lo smossero dallo stato di apatia in cui era caduto. Un ghigno di simpatia gli apparve sul volto aristocratico nel vedere l’accoglienza calorosa che le stavano riservando i bambini dell’orfanotrofio, strepitando e abbracciandola come una sorella più grande, oggetto di affetto e rispetto, orgoglio e devozione. Dall’interno illuminato emersero anche due figure dall’aria famigliare, teneramente unite in un abbraccio. La più bassa delle due si lanciò verso di lei, che l’accolse a braccia aperte e la strinse con chiara tenerezza, l’altra si avvicinò con più calma e si limitò a scompigliarle gentilmente i capelli. I nomi e i volti dei due si fecero chiari nella sua mente e si ritrovò a ringraziare Dio per quegli amici preziosi che le aveva lasciato.

Si ricordava di quando lei gli aveva raccontato la travagliata storia di profonda amicizia che fin da bambina l’aveva legata proprio a quella Annie, un tempo timida e impacciata, che ora la stava trascinando all’interno.

 

Quando fu certo che fuori non fosse rimasto nessuno, uscì dal suo nascondiglio, avvicinandosi alle finestre illuminate. Voleva vederla un istante più da vicino, senza essere scorto da nessuno, senza dover nascondere nessuna delle emozioni che si disegnavano sul suo volto.

Voleva osservarla in ogni particolare, contare le lentiggini sottolineate dal sole, seguire il disegno dei suoi riccioli capricciosi.

Voleva avere un nuovo ricordo da sovrapporre a quello della loro bruciante separazione, su quelle maledette scale che non era più riuscito a percorrere senza aggrapparsi al corrimano.

 

***

 

La tavola apparecchiata e le risate sdentate dei più piccoli sembravano il riflesso dei dieci splendidi anni che aveva trascorso alla Casa di Pony. Quella dolce quotidianità che le era tanto costato abbandonare e che non era mai riuscita a trovare in nessun altro posto. Quando ancora era piccola, immaginava che la sua famiglia sarebbe stata così, aperta e accogliente, ricca dello stesso amore che le era stato trasmesso, poi, crescendo, aveva pensato di poter realizzare quel desiderio lontano accanto a lui.

Ma questo non era accaduto.

 

Scacciò quel pensiero, cercando di far propria l’ignara allegria dei bambini, tutti intenti a consumare il loro pasto e ad impedire al silenzio di riempire la stanza. La serata passò tranquillamente, scandita dai bisogni dei piccoli ospiti. Una volta terminata la cena e riordinata l’esigua stanza affollata, questi furono lavati e messi a letto.

Lei insistette un attimo per restare ad augurare loro la buonanotte.

Rimboccò i lenzuoli colorati e lasciò sulla fronte di ognuno un bacio affettuoso, poi, intimando loro bonariamente di dormire immediatamente senza chiacchiere, si richiuse la porta alle spalle. Dovette riaprirla due volte, fintamente accigliata, prima di poter tornare in sala.

 

In assenza dei bambini l’aria si era notevolmente appesantita. Cercò di ignorare i volti tesi dei presenti e gli occhi turchini di Annie gia umidi di lacrime. Non guardò nemmeno il volto torvo di Archie, in piedi vicino al camino; semplicemente si sedette su una sedia e rimase in silenzio, incapace di trovare le parole giuste per render loro più accettabile la sua decisione. Poteva comprendere la paura e la tristezza che li animava ed era cosciente che lei stessa si sarebbe comportata in quel modo, al loro posto. Non avrebbe mai potuto accettare serenamente la partenza della sua piccola Annie o di Archie verso quel continente di morte.

Ma lei, come aveva spiegato anche ad Albert, era un’infermiera. E quello era il suo dovere.

Prese un profondo respiro.

 

- Ho pensato…ho pensato a tutti gli esseri cari che ho amato e perso brutalmente, come se ogni persona, ogni cosa che avvicino dovesse essere allontanata da me. Come se la sorte non si stancasse mai di prendermi in giro in qualsiasi momento e di mettermi alla prova…

 

- Candy…

 

- No Annie, ti prego…non riuscirei a finire di parlare davanti alle tue lacrime. Una parte di me non desidera altro che stare con voi e con tutte le persone a cui voglio bene, ma l’altra…l’altra mi spinge a compiere un dovere al quale non posso sottrarmi…Come dicevo…ho perso tante persone care…se posso fare qualcosa per impedire questa sofferenza ad altra gente…

 

- Questo è un altro dei tuoi stupidi colpi di testa! Vuoi la nostra benedizione per far tacere la coscienza? Dietro al tuo buonismo c’è solo egoismo, Candy! Guarda cosa stai facendo alle persone che dici di amare! Alla nostra sofferenza non pensi?

 

- Non è un colpo di testa, come lo chiami tu…qualche anno fa, quando frequentavo ancora la scuola per diventare infermiera, ho seguito un corso speciale per prestare assistenza sanitaria sul campo di battaglia. Allora la guerra sembrava così lontana, vi ricordate? Eppure ci ha raggiunti lo stesso e si è portata via Stear.

 

- Ma è proprio per questo! Abbiamo gia perso lui…

 

- Sai forse chi avrebbe potuto salvarlo, Archie? Un’infermiera.

 

- Può partire qualcun’altra, non servi tu.

 

- Non potrei mai sacrificare nessuno per la mia serenità! Come puoi anche solo pensare che riuscirei a vivere sapendo di aver condannato un’altra persona a…

 

- A cosa? Morire? E questo che vai a fare, in Europa ?

 

No, non andava a morire, si disse.

Andava a cercare di recuperare almeno in parte il controllo perduto della sua esistenza. Andava, perché sperava di poter ritrovare se stessa tra quelle desolanti macerie.

Andava per offrire al maggior numero di uomini la vita, non perché il suo nome fosse aggiunto a quello dei deceduti sul campo. Sentiva di dover cercare una nuova strada da percorrere, come molti anni prima, a Londra, quando aveva abbandonato il mondo delle signorine per bene che non faceva per lei. Sospirò, raschiando con le unghie il fondo della sua calma, per evitare che il nervosismo accumulato nelle ultime settimane prendesse il sopravvento.

 

- Tornerò sana e salva, ve lo prometto. Datemi la vostra fiducia, ancora una volta, vi prego.

 

- Oh bambina mia, pregheremo perchè Dio ti accompagni fino in Europa e ti protegga nelle prove che ti aspettano. Il nostro cuore di mamme si stringe all’idea di saperti in pericolo, ma sappi che siamo orgogliose di te.

 

- Suor Maria ha ragione. E ricordati, Candy, di non perdere mai le qualità che porti nel cuore, perchè una donna infermiera cosciente, istruita e pietosa è doppiamente donna.

 

- Ve lo prometto, Miss Pony. Io…sapevo di poter contare sul vostro appoggio. Vi ringrazio per essere sempre state così buone e gentili con me e credetemi, so che la mia partenza vi causerà molte preoccupazioni, semplicemente sento che è una scelta giusta.

 

Abbracciò le due donne, permettendosi di restare un lungo attimo stretta tra le loro braccia morbide e confortanti, coccolata dai battiti tranquilli dei loro cuori debordanti d’amore.

Si staccò solo quando sentì un singhiozzo trattenuto scappare dalle labbra di Annie. La sua amica d’infanzia, seduta sul divano, si muoveva avanti e indietro, stringendo la gonna dell’elegante vestito tra le mani. Grosse lacrime le segnavano le guance pallide prima di andare a morire sui suoi piccoli pugni serrati. Sembrava tornata la sua sorellina di un tempo, sempre bisognosa di protezione, spaventata da ogni cosa, cercante riparo presso di lei.

Le si sedette accanto, dondolandola piano in un abbraccio gentile.

 

- Annie, devi essere forte, mi senti? Qui c’è bisogno di te, ora che io vado via. Non piangere, Annie. Nessuno ci può separare, ricordi? Ci siamo sempre ritrovate, nonostante tutto. Sarà così anche sta volta. Andiamo, hai tutti gli occhi rossi, asciugati un po’ quelle lacrime. Quando torno voglio una data, hai capito?

 

- Una…data?

 

- Per il vostro matrimonio, no? Ovviamente sarò la damigella d’onore, non è vero?

 

- Oh, Candy…ma certo, certo che lo sarai!

 

Scoppiarono a ridere insieme, tenendosi ancora le mani.

Le asciugò le lacrime con il suo fazzoletto e fece per rimetterselo in tasca, quando, all’improvviso cambiò idea e glielo poggiò in grembo. Annie sorrise ancora stordita da quel pianto inarrestabile, guardando le sue iniziali di un tenero color pastello, ricamate sul pezzetto di stoffa. Estrasse a sua volta una pezzuola bianca dal vestito e gliela tese, quasi a risaldare quel antico legame.

Abbassò gli occhi un istante per asciugarsi le ultime lacrime, chiedendosi se avrebbe fatto la sua stessa scelta, qualora, molti anni prima, i Brighton non avessero adottato lei.

Non ebbe il tempo di darsi una risposta, perchè lei aveva gia ripreso a parlare.

 

- Archie…sai che non potrei mai volere la vostra sofferenza. Ti ricordi quel giorno passato nella piccola casetta sull’albero? Dicesti che se un giorno l’America fosse entrata in guerra anche tu saresti andato a combattere, per difendere il nostro paese e per riportare la pace. Bhe è quello che voglio fare anche io…solo non con le armi, ma con cure e medicine…

 

Se Archie avesse risposto, lei non lo avrebbe sentito perchè quando alzò gli occhi perse ogni capacità.

 

- Terence…

 

Si coprì il volto con le mani.

Gli altri, preoccupati, si alzarono e le si avvicinarono, ma lei inizialmente non se ne accorse e poi, liberato il bel viso e chiusi e riaperti gli occhi più volte, li respinse e corse fuori, travolgendo una sedia e spalancando la porta senza curarsi del rumore che faceva.

Gli corse incontro, senza riuscire a pensare a nulla e si gettò tra le sue braccia aperte. Lui la strinse con tale slancio da sollevarla da terra e farla girare in aria, come era successo solo nei suoi sogni. Le lacrime che qualche ora prima era riuscita a trattenere, si ribellarono in un singhiozzo disperato, mentre affondava il volto nel suo petto, dopo essere stata nuovamente appoggiata a terra.

Lui premette quel corpo, minuto come ricordava, contro il suo, travolto da un’emozione che lo obbligò a chiudere gli occhi. Sentiva il suo pianto contro il suo cuore e non poteva fare altro che continuare a stringerla in quel abbraccio che aveva il gusto piacevole della libertà. Mormorò il suo nome contro il suo orecchio, abbassando il volto fino a respirare tra i suoi capelli. Il suo profumo di rose lo invase, più pungente ancora di quello che lo avvolgeva quando camminava nel suo roseto, ravvivandogli la memoria. Dovette trattenersi per non andare a cercare le sue labbra, frementi contro la stessa camicia di seta cui si stringevano le sue piccole mani.

Una lacrima apparve sul suo volto, incerta. Per un istante vacillò accanto alla sua palpebra abbassata, poi spiccò un salto, scivolando sulla guancia, oltre la cortina delle sue ciocche ribelli, tracciando un solco bagnato fino al collo. Alla prima se ne unì un’altra, illuminata dalla luce di quella notte stellata, che accennò un tratto leggero simile al previo, ugualmente muto, ma sulla gota opposta.

 

Dopo un istante dall’ineffabile durata, lei si staccò piano, tremante ancora, senza osare alzare lo sguardo.

Volle fare qualche passo indietro, per mettere un po’ di distanza tra loro, ma non appena il contatto con le sue braccia venne meno, la sua testa cominciò a girare ed ebbe bisogno del pronto sostegno delle sue mani, per non cadere rovinosamente sull’erba bagnata dall’umidità della sera.

Cercò di riprendere fiato e di riorganizzare i pensieri, ma il suo tocco all’altezza della vita, continuava ad annebbiarle la mente. Sentì le sue dita sollevarle il mento con delicatezza insolitamente impacciata e si accorse del suo tentativo di sorridere sardonicamente, quasi a volerla prendere in giro per quella sua debolezza, in modo da alleggerire l’atmosfera.

Poi, le loro iridi turbate si incontrarono, smeraldi negli abissi del mare, incatenandosi, e né l’uno, né l’altra, seppe più distinguere le proprie emozioni da quelle che leggeva nello sguardo altrui.

 

Li osservavano in silenzio, sulla soglia, dolorosamente inteneriti da quel incontro così inaspettato. Le due donne più anziane, tanto quanto Annie, non poterono nascondere la sofferenza così esplicitamente dipinta sui loro volti. La disperazione della stretta e dello sguardo di cui si erano viste inappropriate testimoni, l’avevano capito subito, non era altro che il riflesso di quello che quei due cuori erranti portavano nascosto dentro di loro.

L’allegria di Candy in tutti quegli anni era stata dunque solo una maschera costruita con impensabile maestria, per non causare la loro preoccupazione?

Un barlume di comprensione li attraversò, ripensando alla decisione che ancora avevano difficoltà ad accettare, e che sarebbe dovuta essere l’unica preoccupazione della serata. Era evidente che ormai ce n’era una molto più importante.

 

***

 

Miss Pony e Suor Maria avevano insistito perché tutti andassero immediatamente a riposare, rimandando qualsiasi conversazione all’indomani, e lo avevano pregato di fermarsi lì per la notte, assicurandogli che non recava loro alcun fastidio. Malgrado non fosse per niente incline a dormire e piuttosto ripugnante all’idea di separarsi da lei, seppur per poche ore, si era visto costretto a piegare il capo di fronte all’irremovibile autorità delle due donne. Aveva notato che lei non gli aveva più concesso uno sguardo da quando si erano divisi per rientrare e sentiva la necessità di portarla in un luogo isolato in cui avrebbero potuto parlare. Era per questo che, dopo una notte insonne, non appena aveva percepito le prime luci dell’alba entrare nella grande camerata che condivideva con Archie e i bambini, si era alzato e, avendo cura di non svegliare nessuno, si era diretto verso la sua stanza, che sapeva essere quella in fondo allo stretto corridoio.

 

Aperta la porta, gli bastò un’occhiata per notare che c’era solo Annie a dormire nel piccolo letto. La parte destra, infatti, era vuota e solo il cuscino lievemente sformato testimoniava che era stata occupata durante la notte appena trascorsa. Accigliato, richiuse silenziosamente la porta, tenendo sott’occhio fino alla fine il sonno placido della ragazza bruna. Girandosi, sussultò trovandosela davanti, gia vestita di un essenziale abito bianco di cotone leggero. Le sorrise e si lasciò scappare uno sbuffo esasperato davanti alla sua aria accusatrice.

Uscirono nell’aria fresca del mattino e si fermarono un attimo a contemplare i raggi ancora assonnati del sole, sfocati nella nebbiolina tipica dell’aurora, appoggiati allo steccato. Davanti a loro il sentiero sterrato e, spostata lateralmente, la collina gemella a quella che li aveva ospitati ai tempi di Londra. La stessa collina che quel lontano inverno li aveva accolti entrambi, piegandosi silenziosamente innanzi ai loro solitari pensieri.

 

- Passavo di qui e mi sono chiesto come stavi.

 

- Avrei potuto non esserci.

 

- Lo so.

 

- Ma sei venuto lo stesso.

 

- Si, sono venuto lo stesso.

 

Lasciò parlare qualche minuto di silenzio, completamente riempita dalla sua presenza. Il sangue che scorreva bruciante lungo le vene andò ad arrossirle le guance nivee.

 

- Ti va di venire in un posto con me? Mi piacerebbe fartelo vedere.

 

Verrei ovunque con te. – Certo.

 

Gli disse di aspettarla un attimo e corse in casa. Si sentiva d’un tratto euforica come quel giorno che aveva organizzato il pic-nic di compleanno con Annie. Preso un cestino, lo riempì velocemente con una tovaglia e i tramezzini che stava preparando quando aveva sentito che si era svegliato. Aggiunse la torta di pesche che la sera precedente non erano riusciti a terminare, immaginando con divertimento il volto contrariato di Archie, e la bottiglia di vino segreta che Miss Pony custodiva sempre allo stesso posto. Poi scarabocchiò velocemente due righe tranquillizzanti, per evitare di preoccupare qualcuno a causa della sua, loro, assenza.

 

Quando tornò fuori aveva sul viso l’aria furba e spensierata di una bambina. A lui si strinse il cuore pensando che quella felicità appena ritrovata sarebbe durata troppo poco per entrambi, breve fuoco d’artificio in una notte buia, ma riuscì a mascherare i suoi sentimenti in tempo, in modo da non farle sospettare nulla. La seguì divertendosi a guardarla ammirare il paesaggio come se non ne conoscesse perfettamente a memoria ogni particolare. Camminarono per un po’, in assenza di rumori che non fossero lo scricchiolio dei sassolini sotto le loro scarpe, lungo il sentiero, poi lei gli fece cenno di girare ed immergersi nel bosco.

Più andavano avanti, più gli alberi si facevano numerosi; lui iniziò ad avere qualche difficoltà a seguirla in mezzo a quel intrigo di rami e fronde, ma decise di non dire nulla. La guardava muoversi con la stessa abilità di sempre, incurante del vestito piuttosto delicato. Quando si fermò d’un tratto, rischiò di sbattere contro la sua schiena. Appoggiò le mani sulle sue spalle, raddrizzandosi e rimase senza fiato.

Erano sulla cima di una bassa collinetta che degradava dolcemente verso valle, dove si stendeva un arcobaleno di fiori che arrivava quasi fino alla sponda del lago Michigan che si allargava a perdita d’occhio, coperta da una finissima sabbiolina bianca. Il sole, ormai quasi del tutto sorto, esaltava i colori delle corolle e faceva letteralmente risplendere le acque placide tenuemente colorate d’azzurro, riflesso di un cielo immacolato.

 

- Guarda Candy, è il più antico colore della terra, la tonalità del cielo e dell’acqua…

 

La brezza dolce passando mi ha riportato il tranquillo mormorio di Terence, poi è scomparsa. Siamo rimasti a guardare per un lungo momento nella stessa direzione senza osare poggiare gli occhi l’uno sull’altra. Forse non ha pronunciato alcuna parola. Eppure le sue lemme sono venute in sogno alle mie orecchie, come la musica della sua voce serena.

 

Guarda Candy, è il più antico colore della terra, la tonalità del cielo e dell’acqua…(*)

 

La vide assorta pensare a ciò che le aveva detto. Non era stato più che un bisbiglio, ma sapeva che lei l’avrebbe sentito.

Riportò la sua attenzione sul paesaggio; l’unica volta che aveva visto qualcosa di vagamente simile era un’estate, in Scozia, sempre con lei.

Sembrava quasi che la natura, in sua presenza, desse il meglio di sé.

 

Lo guardò di sottecchi, beandosi di quel attimo di intimità che stavano condividendo e fu sinceramente compiaciuta dalla meraviglia che leggeva nei suoi occhi scuri, ma non poté trattenere oltre la sua vivace allegria.

 

- Ci tieni ai tuoi pantaloni?

 

- Cosa?

 

Senza rispondergli, si sedette sul bordo del pendio, assicurò il vestito tra le gambe ed il cestino sulle ginocchia, poi, guardandolo furbescamente, si lasciò scivolare giù gridando e sparì in mezzo ai fiori, sollevando un po’ di petali profumati. Lui si sporse un poco cercando di capire dove sarebbe riemersa. Aspettò, ma il manto sbocciato rimase immobile. Lungi da farsi spaventare, osservò con più attenzione il prato fino a scorgere delle corolle scosse da un leggero tremore. Era certo che lei là sotto stesse cercando di trattenere una risata. Imitandola, si lasciò scivolare giù in modo da ritrovarsi a pochi passi da lei e, trovatola, le si gettò addossò, catturandola tra le sue braccia. Lei finalmente scoppiò a ridere, divincolandosi e, uscita allo scoperto, gettando la testa all’indietro, illuminata dalla luce del sole. I suoi capelli sciolti le ricoprivano la schiena e parevano preziosi gioielli aurei. Troppo turbato da quella visione ancor più bella del paesaggio circostante, l’attirò a se, ricadendo all’indietro tra gli steli. Lei smise di ridere e si sollevò sulle braccia per poterlo guardare negli occhi.

Le ci volle tutta la forza di cui disponeva per allontanarsi da lui, tentata com’era dalle sue labbra.

Si raddrizzarono entrambi.

 

-Avevo conservato di questi luoghi addormentati sotto la neve, un ricordo di riposo e serenità, e li ritrovo, al risveglio di questo lungo sonno, splendenti di luci e di colori singolari, unici e armoniosi, come un dipinto incantatore. Capisco oramai l’insaziabile bisogno che hai di venire a rigenerarti qui. Avete così tanto in comune tu e questo paesaggio…

 

- Durante tutta la nostra vita, abbiamo cercato di condividere ciò che avevamo di più prezioso, ma ci siamo sempre mancati, come quel pomeriggio quando ho corso fino a perdere il fiato verso la collina di Pony, trovandovi solo le orme dei tuoi passi, gia sbiadite dal vento e dalla neve. Ho gridato, ti ho chiamato per diversi minuti, ma mi ha risposto solo l’eco della mia voce, soffocato dalle raffiche sempre più violente. La tazza di the che avevi bevuto era ancora tiepida. Qualche secondo, qualche minuto sarebbe bastato per…per…è per questo che ti ho voluto portare qui oggi. Era un’occasione che non poteva essere sprecata.

 

- Lo so. Te l’ho gia detto una volta, ma è un pensiero così ricorrente quando sono con te: vorrei che il tempo rimanesse sospeso in eterno proprio a quest’istante.

 

Lei non disse niente, ma da come lo guardò lui capì che condivideva lo stesso desiderio. Lo amava ancora, dunque? Nonostante tutti gli anni che erano passati? Eppure prima si era scostata da lui… Per cosa aveva deciso di sacrificarsi? Sentì il bisogno di porle quella domanda che lo angosciava da giorni. Tremante, estrasse dalla tasca un pezzo di carta in cui spiccava la sua foto in bianco e nero. Quando notò la curiosità sul suo volto glielo tese, rigido. La vide strabuzzare gli occhi dalla sorpresa, poi abbassare il capo.

- Come l’hai avuto?

 

- Ci sono i giornali anche a New-York. Perché vuoi partire?

 

- È per questo che sei qui? Per farmi cambiare idea?

 

- No. Si.

 

- Perchè sei venuto, allora? Che cosa ci fai qui?

 

- Mi ci hai portato tu. Perché vuoi partire?

 

- Sai cosa intendo.

 

- Perché vuoi partire?

 

Si girò a guardarlo, colpita dal tono disperatamente serio che aveva usato. La leggera vena ironica dietro alla quale si era schermato fino a quel momento aveva ceduto, rivelando nella sua voce timore e tormento. Osservò la sua fronte aggrottata e il volto contratto. Dietro l’aria cupa, le parve di scorgere il bambino angosciato e spaventato che era stato anni prima, ai tempi della riconciliazione con la madre. Gli prese la mano stringendogliela piano con l’intenzione di rasserenarlo, ma lui non rilassò un muscolo. Sospirò e gli si avvicinò con lentezza, senza alzarsi, fino ad appoggiare la guancia sulla sua spalla.

Lui scivolò dalle sue dita per circondarla con un braccio e stringerla contro di sé.

 

- Sono un’infermiera. È il mio dovere partire, lo sai.

 

- Non parti per questo.

 

- Si, invece. Sarei dovuta andare già quattro anni fa, quando è scoppiata la guerra, ma mi hanno preceduta. Ho esitato un attimo di troppo… Avevo appena rivisto te.

 

- Saresti potuta partire in qualsiasi momento dopo, ma non lo hai fatto. Non solo, non ne hai mai fatto parola con nessuno. Perché vuoi partire adesso?

 

- Non capisco dove sia il problema, sai? Me l’anno proposto e ho accettato. L’avrei fatto anche l’anno scorso se ne avessi avuta l’occasione, o l’anno prima, ma sta di fatto che me lo hanno proposto adesso.

 

- Eppure non avevi nessuna intenzione di farlo quando sei venuta da me, a Brodway.

 

- Cosa vuoi insinuare?! Certo che non ne avevo l’intenzione, pensavo che sarei rimasta con te.

 

- Io non insinuo niente, faccio accuse precise. Tu stai scappando. Imponi tanto agli altri di affrontare il loro destino e poi sei la prima a tirarti indietro!

 

- Non ti permetto di parlarmi in questo modo! Non puoi ritornare, così, all’improvviso, e pretendere di decidere della mia vita! Nessuno, mi hai capita?, nessuno ha questo diritto!

 

Si era alzata, scostandolo brutalmente e ora lo guardava dall’alto, i piccoli pugni serrati di rabbia. Nonostante la profonda collera che animava anche lui, non poté trattenersi dal provare un moto d’orgoglio di fronte alla sua tempra e alla sua determinazione. Era diventata la donna fiera e ribelle, che aveva immaginato, si disse. Si era quasi dimenticato di come potessero essere gradevoli le dispute con lei. Era pungente e sapeva colpire profondamente, certo, ma era sempre stata l’unica con cui poteva bisticciare, apprezzando il sentimento che questo procurava.

Si calmò un poco.

 

- D’accordo, d’accordo…eppure ieri stavi piangendo quando sei arrivata alla Casa di Pony…

 

Lei si arrestò, come se lui l’avesse colpita. L’aveva vista mentre cercava di trattenere quelle lacrime tanto amare che il suo ricordo faceva sempre sorgere.

 

L’aveva vista.

Era già lì, vicino a lei.

E non se n’era accorta.              

 

Avrebbe potuto passare con lui qualche istante di più e invece non si era manifestato.

Avrebbe potuto tornare indietro e stroncare quel incontro prima che potesse avvenire. Non sapeva più cosa pensare. Rivederlo, sapere che l’aveva osservata per ore di nascosto, litigare con lui, quando pensava che i loro cammini non si sarebbero mai più incrociati era davvero troppo per lei. Sentiva che i suoi pensieri si erano gia allontanati troppo dalla coerenza.

Si mise a gridare, ignorando quanto le aveva detto.

 

- Perché sei venuto qui, perché?

 

- Non si risponde ad una domanda con un’altra domanda.

 

- Perché sei venuto qui?!

 

- Come puoi chiedermelo? Pensavo fosse chiaro…

 

- Come potrebbe essere chiaro?! Sei sposato, pensi che non lo sappia! Sei sposato e sei tenuto a stare con lei. Hai giurato il tuo amore per lei davanti a Dio e davanti agli uomini! I giornali non hanno parlato d’altro per giorni! In prima pagina c’eravate tu e questa maledetta guerra. E non so cosa facesse più male.

 

-Sei tu che te ne sei andata da New-York! Ti sei tirata indietro e te ne sei andata e mi hai detto di occuparmi di lei! E quando l’ho lasciata sei venuta in quel teatro ambulante a spronarmi a fare il mio dovere! E io l’ho fatto, maledizione! Ti ho ascoltata! Pensi che non abbia sofferto ogni giorno della mia miserabile vita? Ma non ho mai smesso di preoccuparmi per te, hai capito? Non ho mai smesso ed è per questo che sono venuto. Per questo e perché ti amo come allora.

 

- Non hai alcuna ragione di preoccuparti.

 

La sua voce si era ammorbidita davanti alla sua confessione appassionata e sofferta. Non si era adirata per le accuse che le aveva malignamente rivolto. Nello stesso momento in cui lui si era girato di schiena respirando affannosamente, come se parlare gli fosse costato troppo, lei aveva spazzato via la collera.

Soffriva più di lei, si disse, ed era la seconda volta che se ne rendeva conto in quegli anni.

Soffriva più di lei, quando lei non voleva altro che la sua felicità. Era per quello che se n’era andata.

Si sentì improvvisamente colpevole.

 

- Nessuna ragione, eh? Figuriamoci. Vai solo a fare la crocerossina. Vai solo in guerra!

 

Il suo tono era rimasto sarcastico e provocatorio. Non era mai stato capace di calmarsi con la sua stessa rapidità. Cercò con cura le parole da usare nella sua risposta, attenta a non farlo di nuovo arrabbiare. Uno stormo di uccelli, non avrebbe saputo dire di quale specie, planò sfiorando la superficie del lago.

Prese un gran respiro.

 

- Vedi quegli uccelli? Fra qualche mese, anche meno, torneranno a sud, da dove sono venuti. E tu farai la stessa cosa, sai benissimo che è così. È la tua vita, il tuo destino. Tornerai da lei. Avrai una famiglia di cui occuparti. Ma io…cerca di capire, ti prego! Io non avrò mai niente di tutto questo…

 

- Potresti crearti una famiglia anche tu, Candy…anche se vederti con un altro mi ucciderebbe.

 

Rabbrividì sentendo il suo nome uscire dalle sue labbra, per la prima volta dalla sera precedente. Poche volte da quando si conoscevano si era rivolto a lei in quel modo, divertito com’era a crearle numerosi nomignoli. Lo guardò e soccombé.

La verità le scappò dalle labbra prima che potesse accorgersene.

 

- Credi davvero che potrei sposare qualcun altro?

 

Lui si rigirò a guardarla, il cuore in gola. Scosso da quella rivelazione inaspettata, trapelante disarmante rassegnazione, non poté fare altro che maledire quel destino che si era sempre accanito contro di loro. Stringendo i denti d’amarezza, la voce gli uscì incerta.

 

- Se tu sapessi quanto mi dispiace, Candy. Avrei desiderato così tanto che le cose fossero andate diversamente tra di noi. Se l’avessi saputo, quand’eravamo ancora in Inghilterra, ti avrei portata via dal collegio. Saremmo potuti partire insieme! Se fossi stato meno stupido!

 

- Eravamo così giovani allora…dei bambini, protetti da mura invalicabili che chiudevano fuori il resto del mondo. Se fossi venuta via con te…chi può dire come sarebbero andate le cose? Magari non saresti riuscito a diventare attore…lo avresti rimpianto tutta la vita…

 

- Credi sia meglio rimpiangere te? Niente, mi senti?, niente, nemmeno il teatro, può superare in intensità quello che provo per te. Non puoi capire quanto mi sei preziosa! Quando sono sul palco, è per te che recito; le mie parole sono destinate a te, anche se non le puoi sentire. Oh mio Dio…non ho fatto altro che commettere errori e scaricare le colpe agli altri! Sui miei genitori, su…Susanna, sono arrivato ad accusare te!

 

- Non parlare così. Ti stai torturando per niente, in nome di un passato contro il quale non possiamo fare nulla…

 

- No, mi sto torturando in nome di un sentimento più grande di me. Mi sto torturando perché quando ti guardo, Candy, quando ti guardo vedo ciò che ho sempre desiderato e che non potrò mai avere.

 

Le accarezzò piano la guancia, portando via le lacrime dai suoi begli occhi color smeraldo arrossiti da un pieno troppo grande di sofferenza. Con l’altro braccio, le cinse la vita e la accostò a sé, cullandola piano. I suoi singhiozzi diminuirono poco a poco, lasciando spazio ai battiti del suo cuore, che la ferivano quasi, rimbalzando contro il suo petto e mescolandosi a quelli rapidi di lui, le cui labbra avevano deviato dalla fronte alla nuca, sfiorandola con la stessa leggerezza adottata dallo stormo, poco prima, sulla superficie dell’acqua. Si allontanò animosamente, respingendolo nuovamente un poco, e cercando di leggere i pensieri che attraversavano quel viso dai tratti raffinati, in parte coperto dalle sue ribelli ciocche color cioccolato.

 

- Candy…

 

La richiamò teneramente, facendole chiudere gli occhi e accorciando la distanza che aveva posto tra loro. Non pensò più a respingerlo, lasciò che l’immagine di Susanna che l’aveva tormentata scivolasse via e che una felicità intensa l’invadesse. Il contatto dolce, appena accennato delle labbra di Terence sulle sue risvegliò in lei una sensazione meravigliosamente piacevole, che credeva aver dimenticato e che si manifestava con sempre più trasporto. Sentiva il suo profumo rosato solleticarlo e le sue mani che tiravano la camicia color panna. Le sue labbra quasi troppo sottili rincorrevano le sue, ben troppo lente a tirarsi indietro, in un bacio umido di naturalezza, lento e leggero. Era un toccarsi intimo di due anime nascoste, un calore che si propagava ovunque, fino alle guance e alla nuca, bruciando qualsiasi pensiero. Si staccarono un istante, respirando con urgenza, e si osservarono, cercando negli occhi dell’altro un solo motivo per fermarsi, ma, annebbiati da quel amore così a lungo celato, non furono capaci di trovarne nessuno.

 

Le loro labbra si unirono di nuovo, instaurando un dialogo muto in una lingua che era nota solo a loro. Le sue braccia gli circondarono il collo, permettendo alle dita di giocare con le lunghe ciocche brune, e lui si sentì libero di attirarla a sé con ancora più vigore. Era un gioco nuovo che da lieve diventava preda di un desiderio sempre più intenso e acquisiva vivacità. Nuovi singhiozzi nacquero sulle sue labbra, streganti e voluttuosi, ben diversi dal pianto e assai meno controllabili. I loro gesti, a seguito, divennero più audaci ed esigenti, richiamanti un possesso verso il quale i loro corpi e le loro anime si abbandonarono, cedendo alla quasi legittima tentazione. Sentiva la pelle infiammarsi contro colui che amava, sciogliendosi al piacere e alle sensazioni provocanti che la stavano attirando verso la voragine di una comunione fisica contro la quale il poco controllo che le restava soccombeva lentamente.

 

Dovette racimolare tutta la forza che le restava e inalvearla in uno sforzo sovraumano, incosciente gesto di salvezza per la sua anima, per riuscire a respingerlo, ancora una volta. Le mani di lui lasciarono sfuggire il fiocco bianco che le cingeva la vita, colte alla sprovvista da quel gesto acerbo. La fissò intensamente, colpevole e dispiaciuto, respirando con affanno, poi si arrese e abbassò il volto, indietreggiando.

 

- Perdonami. L’hai mai…?

 

- Non ce n’è bisogno. Avrei voluto…sarebbe piaciuto anche a me… No.

 

Rialzò il capo e le indirizzò un sorriso triste ma complice, che solo lei poteva capire e che gli rinviò, identico, messaggio di quel amore di cui entrambi conoscevano l’impossibilità.

Lei si risedette tra i fiori che avevano ospitato le loro parole e i loro gesti, a osservare il lago.

Lui, come era solito fare in Scozia, le si lasciò cadere accanto e, a sua grande sorpresa, tirò fuori dalla tasca una vecchia armonica grigia. Portatasela alle labbra, incominciò a suonare l’unico motivetto che avesse mai imparato.

Non si guardarono, mentre la musica invadeva le loro orecchie, facendo tacere ogni altro suono.

Non si guardarono, ma seppero di stare piangendo entrambi, invasi ancora e ancora da ricordi sempre più celeri.

Rimasero così per ore, la pelle baciata dal sole arrossata, l’uno accanto all’altra. Le lacrime, inesauribili, continuavano a percorrere loro le gote, morendo ora tra le labbra, ora sul collo o rischiando in un salto fino a terra, accompagnate da quella melodia. Sentivano di morire lentamente dentro, nonostante la gioia della prossimità e furono obbligati, dovettero, lacerare quel momento con qualche parola.

Qualsiasi parola.

A costo di litigare di nuovo.

Perché sapevano di poter fronteggiare la rabbia ma non…non…il resto.

 

- Permettimi di partire.

 

- Hai gia deciso, no?

 

- Non voglio che tu ti tormenti per questo… Capiscimi, Terence, ti prego…Morirò se resterò qui.

 

- Io… metti a repentaglio la tua vita, maledizione!

 

- Lo so, ma ne potrò salvare tante altre.

 

- Potresti morire ancor prima di aver preso in mano una benda.

 

- È un rischio che sono disposta a correre.

 

- Ma io no! Io non sono pronto a…a vivere sapendo che non ci sei più.

 

- Oh Terence…dicevo così per dire! Resterò viva.

 

- Come se potessi decidere tu!

 

- Resterò viva per te. Te lo prometto. Mi salverò per te.

 

Davanti alla sua aria risoluta lui non poté far altro che abbassare il capo, sconfitto. Lei sorrise a quel gesto, il cuore riempito dalla tenera preoccupazione che le aveva riservato e si premurò di scacciare lontano da lui l’amarezza che, lo sapeva, l’aveva vestito, ancora turbata dall’estrema tribolazione che continuava a trasudare.

Esibì il suo miglior sorriso, arricciando il naso lentigginoso.

 

- Che ne diresti di un certo paté in crosta alla zucca?

 

Lui la guardò, sorpreso dal brusco cambiamento di tono. Poi vide il suo sorriso esagerato che lo supplicava di non farsi vincere dallo sconforto e si riassestò. L’irresistibile attrazione di una presa in girò gli distese i lineamenti. Inarcò le sopraciglia con fare scettico, memore del contenuto della gerla che lei gli aveva rapidamente mostrato per strada.

 

- Paté in crosta alla zucca? Ma se in quel cestino c’è appena qualche tramezzino dall’aspetto bislacco e un resto di crostata di pesche!

 

Lei gonfiò le guance soffiando, l’aria ridicolamente imbronciata, e lui non poté trattenersi dal premerle per sgonfiarle nuovamente.(**) Di nuovo la risata argentina e fresca di lei si unì a quella vibrante di lui, avvolta da quella quotidianità splendidamente ripetitiva che entrambi avevano sognato poter condividere per tutta la vita. Non avevano neppure finito di sistemare i piatti sulla tovaglia a quadretti che lei aveva steso sull’erba, che il cielo cominciò ad annuvolarsi, guastando il tempo splendido di cui avevano approfittato fino a quel momento.

Il vento si alzò, segno inequivocabile di un temporale estivo, allungando con forza gli steli dei fiori fino al suolo. Rimasero un istante a guardare quei gambi, nei rari intervalli in cui le raffiche li liberavano dalla loro ferrea torchiatura, rialzarsi delicatamente e tornare alla loro posizione immaginaria, seppur orfani di qualche petalo. Le acque del lago iniziarono ad ingrossarsi, colpendo con sempre più asprezza la fine sabbia bianca del litorale. Le gocce di pioggia li sorpresero ancora intendi a piegare velocemente la tovaglia, per poterla riporre nella piccola gerla. Si guardarono intorno, alla ricerca di un luogo ove potersi riparare, ma i loro occhi non incontrarono altro, oltre la distesa sterminata di fiori, che alberi ed arbusti. Un lampo squarciò il cielo, ormai interamente annerito, richiamando dopo di se il brontolio di un tuono che parve dare il via all’acquazzone.

Non ebbero il tempo di raggiungere la macchia che si ritrovarono gia completamente grondanti.

I suoi riccioli biondi si erano scuriti assumendo una tonalità simile allo zucchero bruciato e si erano sciolti in onde più morbide e docili appiccicate alla sua schiena e il fiocco si era afflosciato facendo il verso al vestito leggero che le ricadeva mollemente addosso, reso trasparente dall’acqua. Non portava nessun corpetto, se ne accorse stupefatto, ma solo una leggera sottoveste che, bianca anch’essa, non opponeva nessuna resistenza allo sguardo. Lui l’ammirò a metà tra l’incantato e il divertito. Incrociò le braccia davanti al petto, sempre alla merce della pioggia, appena schermata dalle fronde, e tremò all’intensità che leggeva nei suoi occhi. Anche lui era completamente bagnato. I capelli sembravano più scuri contro la sua camicia di seta pallida. I lineamenti del suo corpo le parvero più adulti, ora che li poteva scorgere attraverso il tessuto.

Una mano sottile andò a sfiorargli piano con le dita affusolate il petto e le spalle, quasi ammaliata.

 

- Quando cesserà di piovere ripartirai…

 

C’era una nota nuova nella sua voce, che raramente aveva avuto modo di ascoltare in passato. Era il suono basso dello smarrimento, impastato ad un pianto interiore che riusciva solo ad immaginare.

 

- Non capisco se la tua è una domanda o un’affermazione.

 

- Fa qualche differenza?

 

- No.

 

Le gocce continuavano ad infrangersi contro la loro pelle calda e assolata, facendoli intirizzire. Lei si strinse più forte con le braccia, cercando di intiepidirsi almeno un poco. Sentì lui che gli posava la larga tovaglia sulle spalle, come fosse un mantello, e la circondava con le sue braccia, in un gesto spontaneamente premuroso. Era come il riflesso delle piccole attenzioni che le aveva sempre riservato fin dal principio, quando lei ancora piangeva lacrime di lutto.

Per Anthony.

Quel lontano primo amore bambino, da fiaba, che l’aveva fatto tremendamente ingelosire. Che l’aveva spinto a trascinarla in quella corsa infernale.

Era riuscito a dissolverlo alla fine. Ma a quale prezzo?

Un fantasma era il nulla in confronto alla vivida, reale presenza che si era insinuata tra loro, troppo fragile e troppo innamorata per essere combattuta.

 

- La ami?

 

Fu colto così alla sprovvista che non ebbe il tempo di mascherare il suo disorientamento. Abbassò il volto per incontrare i suoi occhi. Il suo mento grazioso era alzato e gli sfiorava il petto.

 

- Come si ama una sorella…

 

Annuì rimanendo in silenzio. Una domanda aliena le fece capolino nella testa. Lui se ne accorse e la incalzò con lo sguardo, ma lei scosse la testa con veemenza, rifiutando l’invito.

 

-Non servirebbe a niente. Qualunque risposta farebbe male.

 

-Non te l’ho mai potuto dire!

 

La voce gli uscì come uno spasmo angoscioso e tremendamente amaro, amalgamata a impulsi contradditori. Alla rabbia. All’amarezza. All’affetto. Al tormento. Ancora una volta lei venne a placare il suo animo.

Entrambi ignorarono l’incurante affermazione che per un momento non aveva precluso una possibilità inesistente.

 

-Me lo hai sempre dimostrato. L’ho sempre saputo.

 

Lui passò le dita tra i suoi capelli, tirandoli piano e allontanandoli dal bel viso schizzato di lentiggini. Le sue labbra si abbassarono a baciarle una a una, per poi risalire a sfiorarle gli occhi e la fronte.

La tovaglia, ormai completamente bagnata, scivolò ai loro piedi, macchiandosi di fango.

La pioggia non sembrava voler diminuire.

Lei sorrise sotto il suo tocco. Gli si avvicinò, falsamente maliziosa, ma prima che potesse sfiorarlo agitò il naso e starnutì. Lui non poté trattenere una risata.

-Sarà meglio rientrare…prenderai un accidenti…

 

Alzò gli occhi verso di lui, smarrita. Aveva pronunciato la frase con semplicità, quasi come se avesse dimenticato che “rientrare” significava “dirsi addio”. Abbassò gli occhi e raccolse il drappo, appoggiandolo sopra il cestino; poi s’incamminò verso il piccolo pendio. Lei lo rincorse e intrecciò le sue dita con le sue.

Si aiutarono nella salita, resa meno agevole dal terreno scivoloso, senza dire una parola. Quando arrivarono sul sentiero, il silenzio era diventato teso e grave. Si voltarono uno verso l’altra senza avere il coraggio di cercarsi con gli occhi, di nuovo incuranti di essere completamente bagnati. Lui allungò l’altra mano, facendole fare un passo indietro.

 

- È meglio che vada…

 

- Ti accompagno…

 

- No…non ne vale la pena, la stazione è a due passi…

 

- Forse è l’ultima volta che ci vediamo…

 

Lei annuì, un groppo in gola troppo serrato per articolare alcuna parola.

 

- Ma volevo dirti…volevo dirti che l’amore più bello è quello che risveglia l’anima. Questo è quello che tu mi hai dato e che io avrei voluto darti per sempre.(***)

 

- Il destino aveva in serbo altri progetti per te. Torna da lei. Lo sai che Romeo e Giulietta devono stare insieme per sempre…

 

- …finché morte non li separi, lo so. Questa maledizione mi perseguita. Ma voglio che tu ti ricordi sempre una cosa: la mia Giulietta è quella che ha ballato con me sulla collinetta sperduta nel parco del Collegio S. Paul di Londra. E così sarà per tutta la vita.

 

- Terence…

 

- Non dimenticare la promessa che mi hai fatto, Candy. Salvati da questa maledetta guerra. Non potrei mai vivere in un mondo privo di te.

 

Lo disse con dolcezza, poi, seppur malvolentieri, si distanziò da lei, stringendo un’ultima volta la sua mano minuta e fragile, come se volesse conservarne per sempre l’impronta. Si girò e si allontanò sotto la pioggia.

E lei si senti perduta.

Gli concesse un’ultima occhiata, poi, coraggiosamente, circondata solo dal vuoto dell’assenza e dalla pioggia amara, si apprestò a rientrare alla Casa di Pony. Camminava piano, facendo fatica a mettere un piede dopo l’altro, il capo chino. Il cestino si era fatto pesante e dovette fermarsi un istante per riprendere fiato e scacciare le lacrime che le annebbiavano la vista.

Fu in quel momento che un fulmine squarciò il cielo, illuminando spettrale il paesaggio, e si abbatté con violenza su un tronco massiccio.

L’albero rimase immobile per il lasso di un battito di ciglia, avvolto dal rumore della pioggia. E all’improvviso il suono sinistro di legno spezzato. Lui alzò lo sguardo e vide la chioma agitarsi ancora un momento, in stallo, e poi piegarsi verso di lui.

Ebbe appena il tempo di muovere un passo, gli occhi incollati all’albero, prima di essere travolto dalla caduta. Fu spinto a terra dalla forza immane della pianta e strinse i denti al doloroso impatto con il terreno ghiaioso del sentiero. Sentì i sassolini conficcarsi nella carne bagnata e la camicia strapparsi. Poi, solo un peso opprimente che gli scurì la vista.

 

Quando lei si girò, preoccupata dal fragore che aveva udito, rimase agghiacciata. Non poté muovere un passo scorgendo il suo corpo imprigionato sotto il fusto. Sembrò che il mondo intero, i prati, il viottolo, le montagne lontane, si stesse disfacendo attorno a lei. Il cestino cadde a terra, aprendosi. La bottiglia di vino, imbevuta, rotolò fuori, rompendosi.

Il pietrame si tinse di rosso.

 

- Terence!

 

Si mosse con passi incerti, ma sempre più rapidi verso di lui. Cadde, inciampando in una radice, ma non si curò dei pezzettini di legno che avevano graffiato le sue ginocchia. Lo raggiunse, gettandoglisi accanto e chiamandolo ripetutamente, sempre più disperata. Lo vide aprire piano gli occhi.

L’oceano delle sue iridi incontrò le sue lacrime.

 

-Candy…

 

-Shh…Non parlare…non affaticarti.

 

-Candy…

 

Respirava a fatica, boccheggiando, oppresso dal peso insostenibile che lo schiacciava. Vide il suo torace che faticava a contrastarlo. Il suo viso si contraeva in smorfie di dolore ogni volta che cercava un po’ di aria ed era sempre più esangue.

 

- Vado a cercare aiuto!

 

- No!

 

La voce gli uscì chiara e forte. Dove aveva trovato la forza per gridare? Una smorfia più marcata le fece comprendere quanto gli era costato pronunciare quel monosillabo.

 

- No…ti prego…

 

- Devo andare a cercare aiuto, capisci? Bisogna spostare questo maledetto tronco.

 

Parlava in modo concitato, preda di un’agitazione crescente. Alzatasi cercò di spingere via la pianta. Ma la sua forza era ben esigua. Piangendo si lasciò cadere nuovamente a terra. Dio ti prego, non mi importa se morrò di solitudine, se dovrò passare tutta la vita lontana da lui! Salvalo, ti supplico, salvalo e non ti chiederò nient’altro!

 

- Sei un’infermiera…sai che non servirebbe a niente.

 

- Terence…ti supplico…

 

- Vieni più vicina…voglio vedere solo te…

 

Consapevole della sua impotenza, gli si avvicinò proteggendolo dalla pioggia. I riccioli bagnati caddero su di lui, disordinatamente, ancora vagamente impregnati del suo profumo.

Di nuovo i loro occhi si incatenarono. Senza parlare lasciarono scorrere in quel oceano di primavera gli attimi che avevano condiviso e che erano stati loro cari quanto crudeli in quegli anni. I loro ricordi.

 

- Chi siete? Cosa volete?

- Scusate volevo parlarvi…ma avevate l’aria così triste…

- Triste? Io, triste? Dove l’avete visto, signorina? Questa è proprio buona!

- Cosa c’è di così divertente?

- Perché siete qui fuori quando c’è un ballo nel salone?

- Non mi piacciono molto le feste ecco tutto…

- Scommetto che non riuscite a trovare un cavaliere.

- Non è vero!

- Non arrabbiatevi, signorina Tuttelentiggini!

- Spiacente, ma mi piacciono molto le mie lentiggini. Mi sto anche chiedendo come fare per averne di più. Sono sicura che siete solo geloso perché non ne avete, ecco!

- Allora dovrei anche essere geloso del vostro naso!

- Che cos’ha il mio naso?!

 

Gli strinse la mano tra le sue, appoggiandola sul cotone sgualcito del suo vestito.

 

- Perché mi guardi così? Mi vuoi fare una dichiarazione d’amore signorina Tuttelentiggini? Se vuoi possiamo andare alle scuderie! Lì non ci disturberà nessuno!

- Ma sei impazzito?

- Mi rassicuri…non mi piacciono le ragazze con le lentiggini! Ci vediamo!

 

Le sue dita tremanti scesero a sentirgli il polso. Il suo cuore batteva così lentamente. Sembrava sussurrasse.

 

- Cosa ci fai qui?

- Sono scappata dalla cella di meditazione.

- Ti ci avevano rinchiusa?

- Ho detto alla Madre Superiora che è una testa di legno.

- Testa di legno?! Neanche io sarei arrivato a tanto!

 

Lui la richiamò. Lei riapri gli occhi. La pioggia si mischiava alle sue lacrime, mentre lo guardava, ferita nell’anima quanto lui nel corpo.

 

- Oh, oh, Tarzan si trasforma in Giulietta!

- Terence! Terence mi hai guardata mentre mi cambiavo?!

- Ti ho vista, ma vedere non vuol dire guardare.

- …

- È una bellissima musica…permette, signorina?

 

Racimolando tutta la sua forza, mosse la mano facendola scivolare dalle sue dita e le sfiorò le guance, accarezzando di nuovo le sue efelidi. Poi si perse tra i suoi capelli, attorcigliandoli attorno alle dita. Il suo respiro era tanto lieve da passare inosservato.

 

- Ferma il cavallo, Terence!

- Non devi far altro che gridare! Che piangere! Forse Anthony ritornerà!

- Ti prego, ferma questo cavallo!

- Chiama Anthony! Chiamalo quanto vuoi…è morto, non ritornerà più! Non può tornare. Dimentica! Devi Dimenticarlo! Apri gli occhi, Candy, aprili e guardati intorno!

 

Continuò verso la fronte, gli occhi, il piccolo naso. Le accarezzò le labbra e il mento. Stava per riabbassare il braccio, stremato, ma lei glielo sorresse e appoggiò la gota sul suo palmo. La sua mano era ancora tiepida.

 

- Sanguini!

- Oh, non è niente…

- Tieni, prendi questo…

 

Lo sentì contrarsi e rantolare. Si chinò a sfiorare le sue labbra e respirò piano dentro di lui. Gli scappò un piccolo faticoso sorriso.

 

- È commovente. Vedo che pensi a me anche quando sei da sola. Non sapevo che il tuo cuore fosse gia pieno di me!

- Dimmi, Terence...

- Cosa?

- Non ti starai facendo delle strane idee perché mi hai vista pronunciare il tuo nome? Sai avrei potuto pronunciarlo per stregarti.

- Stregarmi…capisco…vuoi stregarmi perché mi innamori di te!

 

Si stava per ritrarre, ma i suoi occhi la trattennero. Si chinò di nuovo su di lui, lasciandosi fuggire un singhiozzo.

 

- Non sapevo ti piacesse il teatro, non l’avrei mai detto…

- Ti spiego…quando sarai vecchia sarai sempre Candy…

- Si, certo, e allora?

- E io quando avrò i capelli bianchi sarò sempre Terence Grandchester.

- Si, ma continuo a non capire…

- Nella vita non puoi essere altro che quello che sei…ma a teatro…lì puoi essere chi vuoi, capisci?

 

Il suo cuore batteva forte, quasi a voler dar coraggio a quello sempre più timido di lui. Si chinò piano a baciargli la parte sinistra del petto, l’unica libera dal tronco.

 

- Mi hai fatto paura…

- Anche tu…non sapevo ci fossero delle scimmie in questa foresta…

 

Un altro lampo straziò il cielo. Alla sua luce lui apparve come uno spettro.

 

- Sei soltanto un delinquente!

- Non permetto a nessuno di parlarmi così, hai capito?

- Nemmeno io!

- Se ti ho baciata è perché nutro per te dei sentimenti sinceri!

- Non ti credo! Non si sa mai come bisogna comportarsi con te!

 

Mosse le labbra per parlare. Non uscì altro che un suono rauco, appena udibile. Lei scosse la testa, rassicurante. La immaginò con i suoi malati. Non poté trattenere un moto di orgoglio.

 

- Terence?

- Sono qui…

- Perché mi hai dato appuntamento così tardi?

- Ma sei tu che mi hai chiesto di venire qua!

 

Gli pose un dito sulle labbra, impedendogli di aprir bocca. Vedeva il blu dei suoi occhi cedere ad una pena troppo grande. Si sforzò di abbozzargli un sorriso. Non ebbe bisogno di parlare per ringraziarla.

 

“Ho deciso di lasciare la scuola…ovunque andrò pregherò perché tu sia felice.”.

 

Chiuse gli occhi un istante per racimolare le poche forze che gli erano rimaste. Lei tremò, preoccupata.

 

“ …mi sto preparando. Se otterrò la parte ti inviterò a Brodway. Allora arrangiati per essere libera quel giorno. A te mio angelo dalla divisa bianca. Terence”

 

Prese un penoso respiro e sollevo piano la testa. Lei andò rapidamente a sostenergli la nuca.

 

- Sei diventato un uomo adesso. Vedo che sei un po’ cambiato…

- E tu…

- Si, lo so, non sono cresciuta affatto…

- Non serve usare quel tono…!

- È che con te devo sempre essere sulla difensiva…

- …

- Avevo così voglia di rivederti…

- Anch’io…

 

Le sue labbra articolarono piano un debole sussurro contro il suo orecchio. Le sue iridi brillarono facendo il verso alle sue parole. Ti amo.

 

- Ho cancellato il nome di Susanna e ho messo il mio…sul manifesto posso benissimo fare la parte di Giulietta!

 

Il capo ritornò pesantemente a terra, producendo un piccolo schizzo. Le sue palpebre traballarono, mentre lottava per tenerle sollevate. Gli accarezzò la guancia. Anch’io.

 

- Ti prego…promettimi che ti sforzerai di essere felice…

- Promettimelo anche tu…

 

Lo vide sospirare, il viso un po’ più sereno. La guardò ancora una volta intensamente, poi lasciò che le palpebre si chiudessero come un sipario sulla sua vista. Lei lo scosse, ma lui non riuscì a concederle ancora un saluto.

Nessun applauso fece il verso alla sua uscita di scena.

Un gemito acuto le uscì dalle labbra. I singhiozzi si fecero violenti e le scossero tutto l’esile corpo. I suoi occhi rossi furono nuovamente accecati dalle lacrime. Lanciò un grido di disperazione, grave e riempito di dolore e si abbatté con rabbia contro il suolo, i piccoli pugni che colpivano il sentiero. Ma dopo un istante si sentì semplicemente svuotata e sfinita. Continuando a piangere seppellì il volto nell’incavo del suo collo e rimase lì, con lui, avvolta dal diluvio incessante e dal nulla.

 

***

 

Si preannunciava ancora un pomeriggio rovente e afoso. Delle nuvole bianche erano apparse a imbrigliare i raggi allegri del sole, ma l’aria non si era affatto alleggerita, anzi, il manto che copriva il cielo pareva opprimere ancora di più. Nessun vento muoveva le foglie dei grandi alberi secolari che ornavano la proprietà. Lei, comodamente seduta su una poltroncina di vimini, il bastone appoggiato accanto a sé, si passò sulla fronte un fazzoletto ricamato, senza staccare gli occhi dal volume che stava leggendo. Era la sua opera teatrale preferita, nonostante tutto. Romeo e Giulietta. Artefice della sua rovina e della sua felicità, contemporaneamente. L’aveva privata dei sogni, delle passioni, quasi della vita, ma le aveva dato lui. Una volta scherzando gli aveva detto che se un giorno avessero avuto una figlia l’avrebbe chiamata proprio come quel personaggio che tanto sentiva vicino.

Preferì non ricordare l’espressione che gli si era dipinta sul viso, allora.

 

Sospirò, facendo trasparire tutta la sua preoccupata tristezza e tutto il suo dispiacere. Ogni volta che sentiva la porta aprirsi sobbalzava attendendosi di incontrare i suoi occhi oltremare, ma lui non era ancora tornato. Sperava vivamente che il suo animo si fosse placato dopo il fuoco che l’aveva arso poche sere prima.

Aveva avuto sue notizie, ne era certa. Solo lei avrebbe potuto animare fino a quel punto il suo cuore. Lei, che ricordava ancora con l’abito strappato e la scarpa in mano, il piede scalzo graffiato dall’asfalto. Lei che aveva avuto il coraggio di salutarla e andarsene, senza voltarsi indietro.

Se fosse stata come lei, si disse, avrebbe avuto la forza di lasciarlo libero.

Sentì l’andatura particolare della cameriera avvicinarsi e, all’improvviso, fu colta da una fitta al petto, all’altezza del cuore, forte da mozzarle il respiro. Chiuse gli occhi piegandosi su sé stessa. Il libro cadde a terra, aperto, mentre lei premeva con forza le mani sul punto dolente.

 

Quando la donna arrivò, preoccupata dal rumore che aveva sentito; e si premurò ad aiutarla, tutto era gia passato. Restava solo un disagio fastidioso a scorrerle nelle vene.

 

- Signora, si sente bene?

 

Sorrise per non causare ulteriori allarmismi e annuì, riappoggiandosi allo schienale. Respirò profondamente un paio di volte, recuperando il fiato.

 

- Vuole che chiami qualcuno?

 

Scosse il capo, ringraziandola. La donna le servì il the e raccolse il testo da terra appoggiandolo sul basso tavolino. Sembrò riflettere un momento, fermandosi, poi estrasse qualcosa dalla tasca e glielo porse, incerta.

 

- Signora, questa mattina facendo le pulizie hanno trovato questo nella vostra stanza…

 

Susanna si voltò a guardare l’oggetto che brillava sul palmo grinzoso della mano. Era un cerchietto di oro giallo, semplice e lineare, abbastanza largo. Tremante, lo prese tra le dita e lesse con sgomento il proprio nome inciso all’interno, vicino alla data della sua più grande felicità.

Si sentì nuovamente mancare.

Aveva tolto la fede, il simbolo del loro fragile legame. Aveva tolto la fede che lei gli aveva messo al dito, giurandogli amore e fedeltà. Gli occhi turchini le si macchiarono di lacrime, sotto lo sguardo stupito della cameriera. Si coprì il volto tra le mani, piangendo sempre più sonoramente e chiedendo di essere lasciata sola.

Se qualcuno fosse passato in quel momento, non avrebbe visto altro che un esile corpo scosso dal dolore, sull’orlo di un vasto giardino, avvolto dal forte profumo di una miriade di rose.

 

***

 

C’è un detto che circola tra gli scenari dei teatri. Una legge non scritta che sibila dietro il sipario e danza tra la polvere illuminata dai riflettori. Aleggia nelle pagine consunte e sottolineate dei copioni e raggiunge anche il retroscena, nei suoi più reconditi angoli. È una sentenza che assume quasi il carattere oscuro di maledizione e scandisce inesorabile l’esistenza degli attori che osano recitare quello spettacolo, ripetendo nel silenzio teso del pubblico quelle parole. Educano il loro cuore a vibrare sotto la corda di falsi sentimenti per ottenere la fama e l’onore e non si rendono conto di sfidare lo stesso destino. Perché l’attore e l’attrice che recitano Romeo e Giulietta sono destinati a unirsi in matrimonio e a restare insieme per sempre. Finché morte non li separi.

 

Dopo, non è più tempo di maledizioni.

 

 

 

 

***

 

 

Come Romeo e Giulietta, insieme fino a che morte non li separi. E' un'ottima storia; più che per la trama, per l'evidente sentimento che ha caratterizzato la sua stesura, sentimento che è possibile leggere in ogni aggettivo, nelle frasi non dette ma scritte, nella trama tragica ma così adatta alla storia a cui si ispira. Storia pregna delle atmosfere delle storie d'amore d'un tempo, dove il dovere veniva prima dell'amore, dove rinunciare ad essere personalmente, egoisticamente e meravigliosamente felici era una scelta concepibile. Erika

 

NdA. Credits:

I personaggi di “Candy Candy” appartengono a © Toei Animation | © Kyoko Mizuki e Yumiko Igarashi - 1978

(*) Libera traduzione del poema n. 1 di Kyoko Mizuki.

(**) Libera traduzione di una parte del poema n. 5 di Kyoko Mizuki.

(***) Battuta tratta dal film “The Notebook” ispirato al romanzo di Nicholas Sparks.

I dialoghi in italico della penultima scena, rimanendo simili a quelli originali, sono stati liberamente modificati.

 

Ringraziamenti:

Ringrazio la mia beta, che non è altri che la mia sorella maggiore, Eli, per l’appoggio e i consigli.

Un grazie speciale anche a feliesan che mi ha permesso di rivedere tutti gli episodi dell’anime nella lingua in cui li amo di più: il francese.

Ringraziamenti sinceri anche ai miei che mi hanno dato una brillante ispirazione, senza saperlo!

Un grazie a Erika per avermi premiata con il secondo posto.

 

© ChiaraF.//Sally90 - 2007                                

  
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