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Autore: manicrank    04/02/2013    3 recensioni
Mi sento una falena. Io, spirito della notte, che segue la luce come un affamato seguirebbe un pezzo di pane marcio. E lui, lui il ragno nella sua tela invisibile. Che mi cattura e non mi lascia più andare, chiudendomi nelle sue spire di seta.
«Dovrai essere mio, dimostrarmi che l'umanità non è fatta di vermi, che le puttane possono essere principesse.»
Genere: Dark, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Reita, Ruki
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Arachnida








Scuoto la testa facendomi stretto contro il muro, ormai non posso più scappare da nessuna parte. Sono chiuso all'angolo. Mi sento come un gatto. Un gatto pronto ad essere divorato da un mastino.

Alzo gli occhi umidi, e devo battere le palpebre più volte per far gocciare le lacrime condensate e riuscire a vedere l'uomo che mi sovrasta. Ha un ghigno cattivo sul viso ed alza una mano per mollarmi l'ennesimo schiaffo.

Alzo le mani giunte, quasi a preghiera, e mi proteggo chinando la testa volendo nasconderla dietro le ginocchia. Mi fa male la schiena per l'innaturale posizione, ma ormai non posso più scappare.

L'uomo mi osserva e ride di gola, gettando in terra la cicca e calpestandola con la scarpa costosa.

“Puttana” mi appella, tirandomi per i capelli costringendomi a guardarlo negli occhi, fissare quei pozzi neri liquidi d'alcool. “Non osare scappare” dice, soffiandomi contro il puzzo di tabacco.

Io annuisco tossendo, piegandomi su me stesso quando lui mi lascia cadere in terra, e mi rannicchio facendomi più piccolo che posso. Poi con calma l'uomo tenta di ricomporsi, annodandosi la cravatta e voltandosi. “Non osare più ribellarti capito?”

“S-si”

“Come?”

“S-si... signore” ripeto deglutendo, cercando di coprirmi più che posso il corpo nudo. Il signor Suzuki scrolla le spalle, prendendo l'ennesima bottiglia di whisky e versandosene un bicchiere abbastanza corposo, mescolandolo a del ghiaccio. Vedo il suo contorno davanti alla luce soffusa del ricco soggiorno. Ed è solo ora che metto bene a fuoco dove sono. Mi asciugo le lacrime col dorso della mano, rabbioso, e deglutisco ancora per far sparire la sensazione di secco. Non sono in un vicolo, no, ma all'angolo di casa Suzuki, in compagnia del signor Suzuki, in attesa che rientri la signora Suzuki ed il signorino Suzuki. Striscio fino al divano, sapendo bene che anche dopo questa litigata i miei obblighi non sono di certo svaniti, e mi rialzo dietro l'uomo, posandogli le dita pallide sulle spalle. “Posso f-fare ancora qualcosa per lei?” impongo un tono serio alla mia voce, cercando di calmarmi. Succede sempre così no? L'uomo scuote la testa e mi indica la porta, e poi successivamente l'orologio. Devo andare.

Annuisco e mi vado a vestire con le mie cose, uscendo dall'appartamento facoltoso con un inchino profondo. Poi arretro ed esco. Sto per tirare un sospiro di sollievo quando sbatto contro una persona, e cado in terra massaggiandomi la schiena. Alzo lo sguardo, trovandomi di fronte una donna bella, ricca, con i capelli acconciati e delle buste di boutique tra le mani. Lei mi osserva, poi osserva la porta, e sgrana gli occhi. Come non notare i lividi? I succhiotti? I morsi? Le macchie sui jeans neri?

Si porta una mano alla bocca disgustata e terrorizzata, ed io abbasso lo sguardo alzandomi, correndo via, sbattendo contro un'altra persona dietro di lei. Mi volto, rabbrividendo.

È un ragazzo, più o meno tredici anni, dai capelli neri, che mi guarda senza capire, ma capendo benissimo perché sua madre sta piangendo. Il ragazzo fissa i suoi occhi nei miei. Due pozzi neri, senza via di fuga. Gli occhi di una persona spaventata a morte. Rassegnata. Forse fin troppo consapevole.

Non riesco a sostenere quello sguardo rancoroso, e mi fiondo giù dalle scale con solo l'eco delle urla del signor Suzuki e signora a farmi compagnia.

 

 

 

L'aria è gelida, sono fuori dall'ennesimo appartamento. In tasca ho i miei soldi, poco più che cinquemila yen. Abbastanza pochi per i miei simili. Ma a me vanno più che bene. Tiro fuori dalla tasca una sigaretta e me la caccio in bocca, accendendola. Non ricordo quante ne ho fumate, ma ricordo benissimo da quando ho iniziato. È stato il signor Suzuki, vecchio cliente fisso, a farmi iniziare. Lui aveva quel vizio e mi costringeva a condividere con lui il fatidico momento della sigaretta post-amplesso. Io odiavo fumare, mi faceva male alla gola, ma ero costretto. Mi dava mille yen in più. Così fumavo. Dapprima con odio. Poi sempre con maggior piacere.

Ora se non ho la morbida consistenza del pacchetto di Marlboro contro la coscia non mi sento me.

Entro nel primo bagno pubblico che trovo per vomitare, ripulendomi il viso e le mani, cercando di strapparmi la pelle insieme alle cose che faccio. Poi alzo lo sguardo nello specchio. Ho sempre avuto paura a faro. Sempre. Perché ho il timore di rivederlo. Rivedere quegli occhi maledetti.

Neri, due pozzi d'ossidiana, fondi come l'inferno. Colmi di rancore, di rabbia.

Stringo i pugni cancellando quell'immagine dalla mia mente, sentendomi ancora braccato. Il gatto non ha mai lasciato il suo angolo, il mastino lo sovrasta ancora. Ma non si tratta più dell'uomo che mi picchiava, no, ma di suoi figlio. Dei suoi occhi. È lui che ovunque io sia mi raggiunge. Ovunque mi giri ci sono quegli occhi che mi fanno impazzire.

Vorrei incontrarlo solo per cavarglieli, strapparli, e non vederli mai più.

Mi sento una falena. Io, spirito della notte, che segue la luce come un affamato seguirebbe un pezzo di pane marcio. E lui, lui il ragno nella sua tela invisibile. Che mi cattura e non mi lascia più andare, chiudendomi nelle sue spire di seta.

Sospiro, lavandomi ancora il viso e girandomi, uscendo dal bagno e salutando l'alba di Tokyo con un cenno del capo. Un'altra sigaretta in bocca. Stanno per finire, devo ricomprarle.

Vedo altri come me, lasciare le case ricche di questo quartiere. Ci scambiamo lunghe occhiate noi tutti, poi annuiamo, complici dello stesso destino, delle stesse immagini che ci perseguitano la notte, ci alzano le coperte e stringono le caviglie per non farci dormire.

Noi, le anime del crepuscolo. I rinnegati.

Chi rinnegato dalla famiglia, chi orfano, chi rinnegato dalla vita. Tutti fuggiamo da qualcosa. Tutti inseguiamo un sogno impossibile. Io ho le mie sigarette in tasca ed un buco di appartamento in una zona squallida della periferia, cerco di cavarmela così.

 

 

 

 

Mi schiarisco piano la voce, sono le nove di sera del sei settembre duemiladodici. Mi piace dirlo per intero, diventa meno strano come numero, più familiare. Entro in questo malfamato locale, sedendomi su di uno sgabello. Sono a caccia. Cerco clienti, girandomi intorno e cercando la giusta preda con la quale approcciarmi. Bastano due parole, un piccolo conforto, gli offri un tiro dalla tua sigaretta e loro ci cascano come conigli nella tagliola. Mi piace cacciare, uscire di sera vestito bene, truccato e con i miei modi sensuali pronti all'attacco. Mi fa sentire di controllare davvero la mia vita. Di tenere in mano le redini del gioco. Per una volta.

Il barman asciuga un bicchiere, mentre aspetta che io scelga qualcosa, e decido che in base agli yen che ho in tasca, un bicchiere di rum posso permettermelo, così ordino quello.

Appena il cristallo mi arriva tra le dita lo prendo, rigirandomelo piano davanti agli occhi, osservando come la luce giochi tra i graffi, poi piano sorseggio il liquido ambrato. Ancora fisso ogni potenziale cliente. C'è di tutto, vecchi, uomini che aspettano qualcosa, ubriaconi, ragazzi.

Tutto.

Devo solo trovare quello più carino e con più soldi in tasca, almeno per una volta godrò anche io. Almeno una soddisfazione. Mi fisso su di un ragazzo, le spalle curve, una camicia bianca che lo fascia. I capelli sono biondi, tirati su in una cresta un po' alta. Ma ha l'aria sfatta. Di chi è stato appena mollato dalla ragazza. Mi alzo con lentezza ed a passi fluidi mi dirigo al suo tavolo, poi mi siedo di fronte a lui e guardo una riga del legno.

“Ti capisco sa... non deve essere stato facile” butto li. Qualsiasi cosa gli sia successa nella vita, io la scoprirò. Bisogna tenersi sul generico prima. A tutti, nessuno escluso, è successa una cosa non facile.

“Mh, chi sei?” gracchia quello, mentre lo vedo con la coda dell'occhio alzare un po' troppo il gomito con una bottiglia di vodka.

“Non è importante. Ora... vorrei solo sapessi che a me puoi dire ogni cosa”

“Sei una puttana?”

“Diciamo di si”

“Mi dispiace, non parlo con le puttane”

“E perché mai?”

“Mi hanno rovinato la vita, le puttane”.

Termina la vodka e con una smorfia si mette a giocare con un tovagliolo di carta. Sto per ribattere, quando inizia a parlare di sua spontanea volontà.

“Sai ero felice una volta, la mia famiglia era perfetta. Poi una puttana è arrivata ed ha rovinato ogni cosa. Io e mia madre abbiamo dovuto cavarcela da soli”

“E perché sei qui ad ubriacarti?”

“Perché lo preferisco, alla realtà. Alla mia realtà”

“Cosa succede?” chiedo addolcendo un po' il tono, passandogli la mano sul braccio. Lui si ritrae, chiudendo gli occhi con un sospiro lento.

“Madre diventata violenta, alla fine ci rimetto io” dice.

È una storia sentita e risentita, un po' un cliché. Gli uomini sono davvero tutti uguali, tutti vermi schifosi pronti a strisciare a farsi camminare sopra, cercando solo di sfuggire alla pioggia. Tutti lo sono, chi per un motivo e chi per un altro.

Io no. Io non una falena braccata.

 

 

 

Mi passo le mani dietro la testa, scompigliandomi un po' i capelli biondi appena fatti. Sorrido soddisfatto specchiandomi in una vetrina. Sono riusciti proprio bene.

Qualcuno mi batte la mano sulla spalla ed io mi volto sorridendo al mio migliore amico. Ha gli occhi caldi, color cioccolato. Sono dolci.

“Stai benissimo così Takanori-kun” mi dice, tirandomi una ciocca mentre un largo sorriso si apre sul suo viso. “Grazie” rispondo, felice.

Facciamo un piccolo viaggio in macchina, poi scendiamo.

Entriamo in un locale.

 

È stata sua l'idea, appuntamento al buio mi ha detto. È la prima volta che cerco seriamente qualcuno per restarci accanto. Ho trovato un lavoro, al ristorante di Yutaka, non mi serve più fare la puttana. Sorrido amaro ripensando al nostro primo incontro. Era un mio cliente, ma era diverso, ci siamo avvicinati, abbiamo avuto una specie di avventura amorosa, poi ci siamo accorti che era solo una forte amicizia. Da li, la mia vita da falena ha avuto un cambio drastico. Ora sono una falena che ambisce ad essere farfalla.

Entriamo in una delle sale e ci mettiamo seduti in ginocchio al tavolino, aspettando arrivino i nostri partner. Yutaka mi tiene la mano, io nervoso cerco di regolarizzare il respiro. Poi la porta si apre.

Ci alziamo e ci inchiniamo, e tutti e quattro ci risediamo.

Il ragazzo di Yutaka, alto, capelli neri, abbastanza bello, ed il mio. Non ho il coraggio ad osservarlo. Poi alzo lo sguardo, fissandolo nei suoi occhi. Ho sempre cercato gli occhi in una persona. Sempre.

Sono quelli che ti dicono di più.

Ed i miei, di occhi, li sgrano.

Neri, due pozzi d'ossidiana, fondi come l'inferno. Colmi di rancore, di rabbia.

Ecco cosa ho davanti.

Stringo i pugni incapace di smettere di guardarlo, ed in pochi attimi anche lui sgrana gli occhi, alzandosi di scatto. Lo vedo, ha il pugno chiuso e teso, e trema.

“Tu...” dice, solo. Ed io abbasso la testa. Mi inchino, poggio la fronte sul tavolo, alzando di nuovo le mani a preghiera.

“Non posso crederci. Sei tu vero? Eri tu quel giorno?” dice. Ma il suo tono mi appare calmo. Provo a rialzare lo sguardo, lui si è di nuovo seduto, tranquillo. Sono stupito dalla sua reazione, è stata la più inaspettata. Il ragno è arrivato.

“Si, ero io” dico, riesumando quel pomeriggio di sette anni fa. Mi sembrano mille.

“Voglio tu sappia che hai distrutto la nostra famiglia” mi spiega, tacitamente, sotto lo sguardo sorpreso del suo amico e di Yutaka. Io annuisco.

“Lo so. Non è stata la prima volta, né l'ultima”

“Quindi... era il tuo lavoro?”

“Lo era”.

Segue un lungo silenzio, poi è lo stesso Suzuki che lo spezza.

“Per anni ho covato rancore. Ho visto la mia realtà sgretolarsi per colpa di una puttana, di te.” mi indica. “Ed ho sognato di incontrarti per ucciderti. Farti pagare le sofferenze che hai inflitto a me e mia madre, e mia sorella cresciuta senza un padre” continua a spiegare. Io vorrei morire, qui ed ora.

“Però è buffo, ora che ti ho davanti sento solo comprensione.”

“Non credo di capire” dico io.

“Era il tuo lavoro, venivi pagato per farlo. Non vedevi in faccia nessuno, eseguivi. Giusto?”
“Giusto”

“Quindi l'unico colpevole è mio padre.”

Io lo guardo confuso.

“Se lui non ti avesse chiamato di sua volontà non sarebbe accaduto nulla, quindi non sei stato tu a combinare un casino, ma mio padre. È lui che evidentemente aveva bisogno di scappare dal matrimonio, quindi, tu non hai colpe. Se non quella di aver lavorato, nella tua strana onestà.”

lo guardo al limite tra lo sconvolto ed il terrorizzato. Suzuki è una persona strana. Sembra quasi avere tante personalità. Come un ragno con tanti occhi. Ma è brillante nel suo strano concetto di vedere la vita.

“Io... non so cosa dire”.

“Non dire nulla, è meglio. Comunque, io avrei fame. Ordiniamo qualcosa?”

 

 

 

 

Mi disse quello, Suzuki. L'appuntamento filò liscio. Non tornammo mai più sulla questione se non in rare occasioni, ma lui difendeva sempre me. Successivamente scoprii che nemmeno ero l'unico per Suzuki Senior, e che Suzuki Junior si era arreso ormai alla consapevolezza che il padre fosse un verme come gli altri. È strano, non essere stato odiato.

I suoi occhi non mi hanno abbandonato mai, ancora mi seguono ovunque. Sono la tela invisibile che ho cucita intorno ormai. Io sono la falena, la creatura crepuscolare. Troppo sporca per fare la farfalla, ma perfetta per volare di notte. Inseguendo la luce sporca.

 

“Ancora ci pensi?” mi chiede, Suzuki, avvolgendo le braccia nude attorno al mio petto. Io sono abbandonato davanti allo specchio. Incapace di scappare dai miei peccati che vedo quasi marchiati a fuoco nella mia memoria e sul mio corpo.

Ma il ragno è pur sempre un cacciatore. Quella sera, dopo l'appuntamento al buio, mi propose un patto. Dovrai essere mio, dimostrarmi che l'umanità non è fatta di vermi, che le puttane possono essere principesse. Mi disse, con lo sguardo più gelido ed al contempo dolce che abbia mai visto in vita mia. Suzuki, bipolare, ecco cos'era. Ecco quei due pozzi neri di cosa erano colmi. Non avevo letto la speranza dietro il rancore.

“Ci penso” dico con tono piatto, abbandonandomi contro il suo petto.

“Sbagli, è passato”

“È difficile”

“Non ho mai detto fosse facile, ed ora muoviti, che sta per iniziare Titanic”.

Mi trascina da un polso, portandomi via.

 

Una falena impigliata per sempre in una tela che voleva evitare ad ogni costo. 
















































__**

Girovagavo su Tumblr e vedo l'immagine di una tarantola. Boom. Ispirazione. 

Beh che ve ne pare?

Io non mi esprimo, fatemi sentire la vostra voce! 

   
 
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