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Autore: koorime    04/02/2013    3 recensioni
Stretto tra la morsa schiacciante della banca e la concorrenza spietata dell’Heaven, il Family Business rischia di chiudere. Ma Dean non sembra volersi arrendere.
Genere: Commedia, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester, Nuovo personaggio, Sam Winchester, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
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Titolo Titolo: The Family Business (open mon-sun, breakfast, lunch, dinner)
Fandom: Supernatural
Pairing/Personaggi: Dean Winchester, un po’ tutti, OC
Rating: Pg
Charapter: 1/1
Beta: Chuck neera_pendragon l'ha letta in anteprima
Words: 6438 (fiumidiparole)
Genere: commedia, fluff (?)
Warning: AU, pre-slash
Summary: Stretto tra la morsa schiacciante della banca e la concorrenza spietata dell’Heaven, il Family Business rischia di chiudere. Ma Dean non sembra volersi arrendere.
Note: scritta per la Missione 1 della Seconda Settimana del COW-T 3 di maridichallenge sul prompt “freddo” e per allonsy_sk che l'ha fortemente voluta ♥

DISCLAIMER: vorrei tanto possedere Castiel, ma no, né lui né nessun altro mi appartiene .__. Neanche Dean, no *sigh* Marshmallow però sì! èAé



Ad aprire di mattina era sempre Dean.

Il Family Business era il ristorante di famiglia, fondato da suo padre cinque anni prima. Dean si occupava dell’apertura, la mattina, e Sam di chiudere la sera, controllando che tutto fosse in ordine per il giorno dopo.

Quando John e Mary erano morti, l’anno prima, nessuno dei due aveva creduto che sarebbero riusciti a tenere aperto un altro anno ancora, nonostante le grandi difficoltà.

Eppure eccoli lì, trecentosessantacinque giorni dopo, ancora aperti, ancora pronti a dimostrare che potevano farcela.
Dean chiuse gli ultimi bottoni della casacca e si passò una mano sul petto, per stirare una piega immaginaria. Si legò il grembiule, agganciò il torcione alla cinta e indossò il cappello, uscendo dallo spogliatoio.

Gli piaceva essere il primo ad arrivare, essere l’unico nel ristorante di cui preoccuparsi, chiudere per un poco le responsabilità ed essere solo lui e le sue creazioni.

A volte, dopo aver preparato il pane e i grissini per il giorno, accendeva anche un po’ di musica, chiudeva gli occhi e preparava qualcosa di nuovo, speciale e unico. Suo padre lo chiamava l’Amuleto, perché puntualmente, diventava il dolce più richiesto del giorno.

La prima cosa che fece fu prendere il mangianastri che teneva nell’office e far partireEnter Sandman, poi mettere l’uva sultanina a bagno in acqua e marsala; lavò le mele e cominciò a pelarle, gli occhi fissi sulla striscia di buccia che pian piano si allungava tra le sue mani, mentre con il piede portava il tempo della musica che, lentamente, aumentava di volume. Le ripulì dal torsolo e le tagliò a fettine, sistemandole in una bastardella, prima di ripulirsi le mani sul torcione e sistemare una casseruola con una noce di burro sul fuoco.

Mormorò una strofa a bassa voce, guidando il burro su tutta la superficie con un cucchiaio di legno, battendo con questo sul bordo della casseruola mentre osservava gli ultimi residui sfrigolare e sciogliersi del tutto.

«Eeeexiiit liiight» cantò, riponendo le mele sul fuoco, «Eeeeenteeer niiight». Recuperò l’uva e l’aggiunse alle mele, cospargendo poi il tutto con qualche cucchiaio di marsala diluito e, infine, lo zucchero.

Lasciò il fuoco basso e si occupò di preparare i savoiardi, due a forma di piccoli dischi e i restanti della consueta forma a dita di dama, cospargendoli di zucchero a velo due volte. Li infornò e spense le mele, mentre la musica cambiava e i Metallica cominciavano a cantare Welcome home. Dean si grattò il mento, sentendolo ruvido di barba, e si decise infine per un pirottino dai bordi lisci.

La Charlotte era il dolce preferito di sua madre, uno dei primi che gli avesse mai insegnato. Doveva aver avuto quattro anni la prima volta che gliel’aveva vista fare – non che lo ricordasse, ma sua madre glielo aveva raccontato così tante volte che ormai poteva chiaramente figurarsela sorridergli mentre tagliava le fragole, le pere o qualunque altro frutto avessero scelto quella volta.

Gli sembrava giusto prepararla nel giorno dell’anniversario dell’incidente, ma di mele, perché Joanne amava le mele ed erano ormai diventato normale, per lui, renderla il fulcro di ogni suo pensiero.

Joanne aveva tre anni, una spruzzata di lentiggini sul naso a patatina, sormontato da un paio di occhi verdi made in Winchester, e l’assoluta certezza che un giorno avrebbe sposato il suo papà.

Nothing else matters cominciò e finì prima che Dean potesse sfornare i biscotti e lasciarli raffreddare, mentre lui preparava una leggera crema al limone. Gli venne da sorridere quando gli tornò in mente il visetto di sua figlia che per la prima volta, curiosa come una scimmietta, aveva assaggiato la crema. Doveva avere avuto meno di due anni ed era seduta sulla tavola della cucina, con Sam che la faceva giocare, cantandole quelle stupide canzoncine per bambini. Lui aveva poggiato la ciotola di crema accanto a loro e si era voltato un secondo per lanciare la pellicola nella pattumiera, che Sam era scoppiato a ridere. Joanne aveva infilato la mano nella crema e se l’era poi succhiata, strizzando occhi e nasino per l’asprezza del limone – eppure prendendone subito dopo una seconda ditata e infilandosi l’intero indice in bocca, sempre scuotendo la testolina per il sapore.

Quando anche la crema fu pronta, ricoprì la ciotola con la pellicola e la mise a raffreddare, componendo, infine, le Charlotte nelle monodose. Ebbe appena il tempo di metterla in frigorifero che la porta della cucina si aprì.

«Buongiorno, Chef» lo salutò Jo, entrando. Il suo sorriso si tinse di tristezza quando si rese conto di che musica riempiva l’aria. Avanzò, posandogli un bacio sulla guancia, e poi tornò indietro, dirigendosi verso gli spogliatoi.

Dean spense il mangianastri e ripulì il suo tavolo da lavoro, prima di uscire dalla cucina.

Se Jo era lì significava che anche Ellen era arrivata e lui aveva bisogno di sapere quante prenotazioni avevano avuto per quella sera.

La trovò al telefono, il libro delle prenotazioni aperto e la penna tra le dita.

«Sì, certo. Arrivederci» disse, chiudendo la comunicazione.

Dean le si avvicinò con una morsa allo stomaco.

«Ti prego, dimmi che abbiamo molte prenotazioni» le disse. Ellen sospirò e fece una rapida conta dei nomi, la punta della biro che scivolava sul foglio.

«Solo una, ragazzo mio» sospirò.

Dean si accasciò sul bancone della reception con un gemito di sconforto. Si poggiò sui gomiti e si sfilò il capello, passandosi le dita tra i capelli.

«Merda» ringhiò, «Merda». Tentennò, poi si raddrizzò e si massaggiò il collo. «Vado a prendere una boccata d’aria» disse, voltandole le spalle e tornando sui suoi passi,ignorando la sensazione degli occhi di Ellen fissi sulla sua schiena.

***

 

Dean chiuse gli occhi e prese un sorso di birra ghiacciata, poggiato contro il muro del vicoletto laterale. Voltò la testa verso la strada e grugnì. Era tutta colpa dell’Heaven.

Era stato aperto l’anno prima e aveva rapidamente attirato l’attenzione di clienti e critici, vincendo un JBF Award come "Outstanding Resturant in the USA" dopo neanche sei mesi dall’inaugurazione.

Era diventato in pochissimo l’emblema dell’alta ristorazione, elegante e raffinata in ogni minimo dettaglio, dalle mattonelle alla pronuncia dei camerieri.

Fottuti damerini con la loro fottuta puzza sotto il naso.

Il Family Business valeva molto di più di quella merda che quei tipi spacciavano pernouvelle cuisine, non c’erano dubbi. Il problema era che senza un riconoscimento vero i clienti avrebbero continuato a diminuire e la banca si sarebbe presa il suo locale.

Prese un nuovo sorso di birra e stirò le labbra, lasciando che gli scivolasse in gola e gli calmasse i nervi.

Non poteva perdere il locale, non poteva neanche rischiare di perderlo. C’erano troppe vite che dipendevano dal suo andamento – e troppi ricordi legati ad esso. Senza contare che era stato il sogno di una vita per i suoi genitori e Dean non se lo sarebbe mai perdonato se l’avesse perso.

Si staccò dal muro con una piccola spinta e gettò la bottiglia ormai vuota nel cassonetto dell’immondizia, proprio nel momento in cui, dall’altro lato della strada, qualcuno usciva dalla porta laterale dell’Heaven: un tizio con i capelli più da lettoche avesse mai visto. Lo sconosciuto lo fissò, inclinando la testa di lato, e... continuò a fissarlo.

Dean aggrottò la fronte e rientrò, ignorandolo.

Incrociò Ash , intento a confabulare con Garth – a volte si pentiva di averli fatti incontrare, erano un’accoppiata pericolosa, quei due.

«Ehi, Dean!» lo richiamò quello, agitando una mano, «Chi devo sostituire, oggi?»

«Bela» rispose lui senza fermarsi, «E scriviteli i turni, dannazione!»

Il ragazzo rispose qualcosa che suonava tanto come “Li ho scritti, ma ho perso il foglio” e lui finse di non aver sentito. Non aveva tempo per avere un aneurisma.

Un basso mormorio lo avvisò che il resto del personale era arrivato – e lui si scontrò con qualcuno che usciva dallo spogliatoio.

«Woah, attenzione» sbottò, prima di vedere chi fosse. Quando si ritrovò davanti due occhi scuri e lunghe ciglia nere, si aprì in un sorriso. «Ah, Lisa, buongiorno» la salutò, le mani ancora strette attorno alle sue spalle esili. Lei sorrise, sistemandosi un ciuffetto di capelli neri sfuggitole dalla treccia.

«Buongiorno, Chef» rispose, facendo un passo indietro. Si sistemò la camicetta e indicò la porta della Sala Ristorante, «Devo andare» disse, lasciandolo con un ultimo sorriso, prima di scivolare via con grazia.

Dean restò a fissare la porta a soffietto per qualche istante.

Oh, quanto gli sarebbe piaciuto poter ballare un tango orizzontale con lei – di nuovo.

«Oh ciao Lisa» lo richiamò una voce motteggiante, che si rivelò essere quella di Jo, che spuntava per metà dalla cucina. Si portò una mano al petto e sfarfallò le ciglia, facendogli un sorriso sdolcinato. «Oh, buongiorno, Chef. Sei così bello, forte e virile» continuò, la voce di un’ottava più alta.

Dean inarcò un sopracciglio e grugnì una risata.

«Hai detto bene, ragazzina» rispose, spingendola poi a rientrare e seguendola , «ma purtroppo per te non mi avrai mai per due motivi. Punto primo, sono troppo bello per essere vero ». Jo scoppiò a ridere di gusto, testa gettata indietro e mani a tenersi lo stomaco, ma Dean la ignorò.

Aspettò che si calmasse abbastanza perché riuscisse a guardarlo in faccia – e a vedere il suo sopracciglio inarcato da “Finito?” – e gli chiedesse, tra un singulto ilare e l’altro: «E il secondo?»

Dean si risistemò il cappello in testa e s’impettì, un sorrisetto a increspargli le labbra, «Sono solo del mio piccolo Marshmallow».

***

 

Svegliarsi la mattina presto era uno sforzo enorme per lui, ma ne valeva la pena se gli permetteva di tornare a casa nel pomeriggio.

Avevano una ruotine consolidata, lui e Sam – perché vivevano insieme, sì, ma solo per comodità – che prevedeva uno scambio di turni sia a casa che a lavoro.

Dean si svegliava ogni mattina alle sei, si faceva un caffè, dava un bacio a Joanne, che ancora dormiva tranquilla nel suo lettino, e saltava in macchina per andare ad aprire il ristorante. Si occupava delle colazioni e dei pranzi, dirigeva e sovrintendeva ogni azione – e flirtava con qualche cliente durante le pause.

Poi, quando anche l'ultimo cliente se n'era andato, si cambiava, montava nella sua Impala e correva da sua figlia.

«Papà è a casa» annunciò, aprendo la porta. Ebbe appena il tempo di lasciar andare la sacca con la divisa sporca, che una vocetta urlò:

«Papà!»

L’attimo dopo aveva le braccia piene e un musetto che si strusciava felice nel suo collo.

«Eccolo qui il mio Marshmallow» la salutò, «hai fatto la brava con lo zio Sam?»

La bambina annuì con convinzione. «Sì» disse, stringendosi meglio al suo collo. Sam, sulla cornice della porta alzò una mano in saluto, sorridendo. Si scambiarono un’occhiata – la solita, per essere certi, l’un l’altro, che tutto fosse andato per il meglio, sia a casa che a lavoro – e poi Dean tornò a prestare tutta la sua attenzione a sua figlia.

«Sì? Ma che brava bambina che sei» disse. «Adesso dammi un bacio» aggiunse, sistemandosela meglio tra le braccia, e lei ubbidì, scoccandogli un bacio sulla guancia con forza, mentre lui passava le chiavi a suo fratello. Sam scombinò i capelli della nipotina, che rise e si coprì la testa con le mani, e li salutò, superandoli.

Dean aspettò di vedere la porta di casa richiudersi, poi guardò sua figlia.

«Hai fatto merenda?» Joanne scosse la testa, un sorrisetto goloso già a spuntargli tra la labbra. Dean cercò di mantenere una faccia neutra mentre avanzava in cucina, sistemandola sulla sedia e controllando poi le condizioni della dispensa. «Richieste particolari?» chiese, voltandosi a guardarla. Joanne, seduta sulla punta della sedia, con i piedini che dondolavano, alzò le braccia e urlò: «Mashmello!»

Dean rise e tornò a guardare l'interno della dispensa.

«Uhm» disse, pensieroso, tornando con gli occhi sulla bambina, le braccia incrociate al petto, «Ti metto davanti a una scelta difficile, lo so, ma ascoltami bene». La bambina annuì e fece quella che chiamava la faccia seria, facendo scappare a lui un sorriso divertito. «Allora, scegli: marshmallow» riprese, alzando un dito come opzione numero uno e alzandone poi un secondo per l'opzione numero due, «o torta?»

Joanne ci pensò davvero, ci pensò seriamente, e Dean dovette farsi forza per non scoppiare a ridere nel guardarla arrovellarsi sulla scelta più difficile delle sua giovanissima vita. Non riuscì a trattenersi oltre, però, quando lei si aprì in un sorriso soddisfatto e fiero di sé e disse: «Torta di mashmello!»

«Vuoi una torta di marshmallow, eh?» rise lui, afferrando la busta di caramelle gommose e poggiandola sul tavolo. «Okay, vediamo cosa si può fare» acconsentì, riprendendola in braccio «mi aiuti?»

Joanne annuì di nuovo e si sistemò per bene tra le braccia del suo papà.

«Allora, cosa ci serve?» la interrogò, spostandosi già verso la credenza.

«Farina» trillò lei, aprendo le braccia quando Dean le passò la busta richiesta.

«Okay, poi?»

«Mmmh... burro! E... acqua!» elencò. Dean sorrise e prese tutto l’occorrente – compreso il sale, una bastardella e un uovo, sistemando tutto sul tavolo di marmo.

Joanne si sistemò sulla sedia, con il suo bel grembiulino da signorina – come lo chiamavano loro due – e le maniche della maglietta raccolte sui gomiti, pronta a impiastricciarsi come da regola. Era assurdo come, ogni volta, nonostante fosse lui quello che impastava, fosse poi lei quella nelle condizioni da necessitare un bagno.

Quella volta non fu da meno, e quando la torta fu pronta – dopo che avevano disposto per bene i marshmallow nella forma, li avevano spolverati di cannella e avevano aggiunto le scaglie di cioccolato fondente perché «Non ti sembra un po’ poco?» «Sì!» – e fu infornata, Dean guardò sua figlia e rise.

«Se ti vedesse lo zio avrebbe un infarto» disse; Joanne sorrise, le guance piene di marshmallow e i codini biondi sporchi di farina e uovo. «Okay, è l’ora del bagno» decretò, caricandosela sotto il braccio, con suo sommo divertimento.

Dopo averla ripulita – faticando più per farla uscire dalla vasca che per farcela entrare – e averle asciugato i capelli, andò a sfornare la torta, lasciandola a vestirsi da sola («Sono grande, papà» ripeteva sempre lei, cacciandolo, «da sola! Da sola!»). Si occupò poi della cena, preparando degli hamburger veloci alla piastra e condendoli con insalata, pomodoro e ketchup, per far sì che Joanne mangiasse la sua verdura – perché Sam aveva dannatamente ragione quando diceva che non avrebbero mai potuto avere dubbi sulla sua paternità, visto ciò che mangiava.

Quando mise i panini nei piatti, Joanne ciabatto in cucina, nel suo pigiamino rosa con le pecorelle nere e i capelli che le cadevano spettinati sul viso. Cenarono con Joanne che raccontava fin nei minimi dettagli quello che avevano fatto lei e lo zio Sam tutto il giorno, mostrò a Dean com’era brava a contare fino a venti e com’era bella la sua versione rock della Canzone dell’Alfabeto che lo zio Sam le aveva insegnato.

Dean ne fu così fiero che le diede una fetta doppia di torta, come dolce.

***

 

Dean lo sapeva – lo sapeva lo sapeva lo sapeva – che prima o poi si sarebbe pentito di averli presentati. Davvero, era così ovvio che non poteva che darsi dello coglione e dirsi che ora se la meritava quella gatta da pelare.

«Voi avete fatto cosa?» domandò, guardando alternativamente Ash e Garth. I due non sembrarono per nulla intimoriti – o pentiti o preoccupati per le loro vite – e voltarono il portatile verso di lui.

«Non devi ringraziarci, amico, dopotutto, il ristorante è come una seconda casa per noi»

«Sì, siamo una famiglia. Mi casa es tu casa»

Dean si pinzò la radice del naso e contò fino a dieci. Poi contò fino a venti.

«Andate fuori, prima che vi getti nel pentolone come delle aragoste» sibilò. Questa volta i due parvero intuire la precarietà delle loro vite e filarono via senza una parola. Tutto ciò che Dean sentì, al di sopra del rombo feroce del suo sangue nelle orecchie, fu la porta a soffietto che lentamente si fermava.

Quei due idioti.

Quei due cretini avevano davvero fatto una cosa del genere? Convinti di fargli un piacere? Ed erano anche tornati fuori l’orario di lavoro per dirglielo?

Li avrebbe spellati vivi e serviti ai clienti come tartare.

Okay, poteva capire cosa li avesse spinti, dopotutto lavoravano con lui da anni ed era ovvio che non volessero che il ristorante fallisse – nessuno di loro lo voleva, no? Ma inviare una richiesta di critica a Lucifer e Gabriel?

Questo era suicidio bello e buono, cazzo.

Se avesse voluto mandare in malora il lavoro di una vita avrebbe messo Becky ai fornelli.

Missouri entrò in quel momento, legandosi il grembiule sotto il seno prosperoso.

«Raggio di sole, cosa ci fai ancora qui?» gli domandò. Si adombrò subito dopo, facendo un passo verso di lui, preoccupata. «Sam sta bene? Joanne?» chiese, perché lo sapevano tutti che Dean non avrebbe mai preferito il lavoro alla possibilità di mettere a letto sua figlia. Non quando c’era suo fratello a occuparsi del ristorante.

«Cosa? Sì, sì, tutto bene. Sono rimasto per delle scartoffie, adesso me ne vado» spiegò, levandosi il cappello. Probabilmente non riuscì però a mascherare la sua preoccupazione, perché la donna inarcò un sopracciglio scettica.

«Beh, a meno che tra quelle scartoffie non ci fosse la clausola con cui hai venduto la tua anima al diavolo per quel bel faccino, ragazzo mio, c’è decisamente qualcosa che non va».

Dean si concesse una risata amara.

«Credimi ora come ora un patto col diavolo lo farei per salvare questo posto» ammise. Missouri aggrottò la fronte, facendosi più vicino.

«Siamo così rovinati?»

«No, ma presto lo saremo. Ash e Garth... quei due cretini hanno invitato Lucifer e Gabriel per una cena. Qui» spiegò, lasciandosi andare a un gemito di dolore. Già la vedeva la recensione che li avrebbe condannati al fallimento, condita di tutti quel termini pomposi da snob del cazzo.

«Davvero?»

«Già» sospirò lui, spalle ricurve e stomaco sotto i piedi.

«Beh, non vedo quale sia il problema, dolcezza» disse invece lei. Dean si voltò a fissarla, incredulo.

«Ti sei per caso rincitrullita? Quei due sono degli squali, ci faranno a fette!» sbottò, allargando le braccia, «ci distruggeranno e faranno scappare anche gli ultimi clienti che abbiamo!»

Di tutta risposta Missouri gli rifilò uno schiaffo sulla nuca.

«Dammi ancora della rincitrullita e giuro sul buon Gesù che ti metto sulle mie ginocchia e ti do tante di quelle sculacciate che non potrai sederti per un mese, chissene frega che hai trent’anni» cominciò, puntandogli contro un dito minaccioso e Dean arretrò di riflesso – se le ricordava più che bene le sue sculacciate, dannazione. «In secondo luogo: quei due saranno anche degli stronzetti con l’arroganza che gli esce dal culo, ma sono bravi in ciò che fanno, e sanno riconoscere un talento quando lo incontrano. E modestia a parte, noi siamo più che talentuosi. Siamo i migliori» sorrise e Dean non riuscì a impedirsi di risponderle nello stesso modo, anche se con poca convinzione.

Sospirò, strofinandosi il viso tra le mani.

«Credi davvero che potremmo farcela?»

«Mi ci gioco la casa» rispose lei, mettendogli una mano sulla spalla, facendolo ridacchiare. «No, davvero, ho acceso un mutuo per aiutare mia figlia. Se perdo il lavoro la banca si prenderà la casa» aggiunse e lui questa volta rise forte, scuotendo la testa. Missouri lo guardò male e gli mollò un altro schiaffo, che però lo fece solo ridere di più. «Che diavolo hai da ridere così?»

«È che» disse lui, mantenendosi il fianco dolorante, «se va tutto a puttane la banca si prenderà casa tua e il ristorante». Gli ultimi singulti di risate presero una nota amara, spegnendosi nel silenzio ammutolito dell’altra. Dean prese un respiro profondo e confessò finalmente a qualcuno quello che lui e Sam avevano fatto l’anno prima: «Abbiamo chiesto un prestito. Il locale stava andando male, ma la banca l’ha accettato comunque come garanzia» Guardò dritto davanti a sé, tra i tavoli da lavoro di quella cucina che i suoi genitori avevano tanto sognato. «Non posso perderlo, Missouri, non posso deluderli così».

La donna sospirò, poggiandogli una mano sulla testa – e lui ebbe uno scatto nervoso, temendo di ricevere un nuovo schiaffo, ma ciò che ebbe, invece, fu una carezza materna. «Ragazzo mio, non deluderesti i tuoi genitori neanche se te ne andassi in giro nudo ballando il Can Can».

Dean rise, un suono breve e quieto, completamente diverso da quello che lo aveva preceduto.

«Certo che no, sono un maledettissimo adone!» rispose. Quando questa volta lo schiaffo arrivò, non poté certo dire di non esserselo aspettato.

***

 

Okay, quindi cosa? Aveva uno stalker?

Dean si grattò il mento ruvido di barba e guardò il tizio alto e moro dall’altra parte del parco.

Era domenica mattina e aveva approfittato della bella giornata per portare Joanne al parco. Di solito il fine settimana lui e Sam preferivano essere entrambi presenti a lavoro, cosicché avessero la cucina sottocontrollo, mentre Bobby si occupava della sala; ma dato che nell’ultimo periodo anche i clienti del weekend erano diminuiti, avevano deciso di dividersi anche quei turni. Dean si occupava delle sera di sabato e domenica, mentre Sam delle mattine – liberando anche Ellen dell’onere di tenergli Joanne, come aveva fatto nei fine settimana degli ultimi tre anni.

Comunque, visto quel pallido sole di febbraio e l’assenza di neve, aveva infilato cappottino, sciarpa e cappellino a Joanne ed erano andati a piedi al parco vicino casa. Ed era stato lì che lo aveva visto.

Si era seduto su una delle panchine che circondavano l’aria giochi e aveva lasciato che il suo piccolo marshmallow giocasse con gli altri bambini presenti. Ci erano voluti circa dieci minuti prima che si rendesse conto che quel tizio li fissava – e non un tizio qualsiasi, ma bensì lo stesso che avevano incontrato tre giorni prima al supermercato. Lo stesso che, si era reso conto, vedeva ogni volta che si prendeva una pausa al ristorante.

Lo chef dell’Heaven con i capelli da letto.

Aggrottò la fronte e, dopo una rapida occhiata a sua figlia, si alzò.

«Ehi, Marshmallow, resta dove possa vederti» le disse, ricevendo un «Sì» squillante in risposta, e dirigendosi poi verso quel tizio. Ora che lo vedeva meglio con quel completo e quel trench sgualcito sembrava più un contabile sfigato che uno stalker, ma ehi, di gente fuori di testa ce n’era anche troppa in giro e spesso non lo davano a vedere.

«Amico, ti serve qualcosa?» domandò, sedendosi sulla panchina accanto alla sua, gli occhi sempre fissi su sua figlia. Il tipo inclinò la testa, confuso – e a Dean ricordò uno di quei cuccioletti che ti fissano e scodinzolano solo perché gli parli.

«Non capisco» disse, sbattendo le palpebre in rapida successione.

Dean sorrise a mezza bocca, un braccio sullo schienale della panchina, alzandolo poi in saluto quando vide sua figlia fargli ciao-ciao prima di seguire un’amichetta sullo scivolo.

«Beh, ultimamente dovunque mi giro ti vedo, quindi o è davvero una strana coincidenza o vuoi qualcosa e, te lo giuro sulla mia famiglia, se ti avvicini al mio marshmallow ti strappo le palle a mani nude e te le faccio ingoiare» lo minacciò, sentendosi fiero di quanto fosse suonato da duro. Nessuno doveva toccare la sua bambina.

«Marshmallow?» domandò invece quello, con l’espressione più confusa di prima. Dean sentì tutta l’atmosfera faticosamente costruita fare puff e lo odiò un po’.

«Mia figlia» spiegò, indicandola. La salutò di nuovo, quando lei saltellò sul posto per farsi notare, scappando poi di nuovo a giocare. Dean rise e poi si rese conto che il tizio – lo stalker – lo stava ancora fissando in quel modo confuso; si agitò appena, innervosito. «Che c’è? Quando è nata era tonda e molliccia, come altro avrei dovuto chiamarla?» domando sulla difensiva.

E a quel punto, il tizio sorrise. Si aprì in un sorriso sincero,tutto labbra piene, denti bianchi e rughette attorno agli occhi.

«È una bambina bellissima» disse, con una nota morbida nella voce. Dean tornò sulla difensiva.

«Sì, lo è, e se provi a farle del male ti uccido» riprese, ma quello scosse la testa prima ancora che lui finisse la frase.

«Non ne ho alcuna intenzione, Dean» rispose e lui s’irrigidì, fissandolo guardingo, perché quando diavolo si erano presentati? L’uomo sorrise, notandolo e chinò la testa, le mani raccolte sulle gambe, come se non sapesse che farsene.

«Chi sei?»

«Uno chef dell’Heaven».

«Sì, grazie, l’avevo capito. Come ti chiami, perché mi segui?» abbaiò, sempre più innervosito dalla pacatezza dell’altro.

«Castiel» rispose quello semplicemente, piantandogli gli occhi nei suoi – e cazzo se erano blu. «E non ti sto seguendo» sorrise, «è solo una buffa coincidenza».

Dean lo scrutò ancora, guardingo più che mani, ma non riuscì a trovare una sola ombra sul suo viso – a parte quella della ricrescita della barba, ma che diavolo, anche lui non se l’era fatta quel giorno, no?

«Davvero?»

Castiel, in risposta, allargò solo il suo sorriso, voltando poi lo sguardo sul Joanne, che stava correndo verso di loro.

«Papà, papà, guarda!» trillò la bambina, tendendogli un sassolino. Dean lo accettò in automatico e se lo rigirò tra le mani.

«È bellissimo, Marshmallow» le disse, facendola ridere felice e soddisfatta. L’attimo dopo era già scappata di nuovo a giocare. Dean guardò un’ultima volta il sassolino – grigio, se non per un singolo ricciolo rosa al centro – e se lo infilò in tasta.

«Créme Caramel» mormorò Castiel, attirando di nuovo la sua attenzione.

«Come?» chiese, preso in contropiede. Castiel si alzò in piedi, le braccia ferme ai lati del corpo, inermi.

«Gabriel ha un debole per la Créme Caramel» ripeté, rivolgendogli un piccolo sorriso. «Spero che riesca a risollevarti, Dean Winchester. Io sono... un grande fan del tuo lavoro» aggiunse, prima di fargli un discreto cenno con la testa e andarsene.

Dean rimase fermo su quella panchina, voltato per metà nella direzione in cui era sparito l’altro uomo, incurante della cacofonia di chiacchiere e risate che riempiva il parco giochi, a porsi una delle domande più spinose della sua esistenza.

Aveva uno spasimante?

***

 

Due settimane dopo, Dean arrivò in ritardo al turno del giovedì mattina.

«Ehi, ragazzino» lo accolse Ellen, vedendolo entrare dalla porta di servizio sbadigliando, «hai fatto le ore piccole?»

«Sì, non ho dormito granché. Marshmallow ha la febbre» spiegò, asciugandosi gli occhi dopo un nuovo sbadiglio.

«Mi dispiace. Se serve aiuto, dimmelo» si interessò lei e lui sorrise grato.

«Lo so, grazie. Ash?» domandò poi, scuotendo la testa per svegliarti.

«È dentro. Ha preparato grissini, croissant e tutto il resto in tempo. Anzi, gli ultimi clienti della colazione stanno finendo, ormai» spiegò con un sorriso orgoglioso. Non era un mistero che Ellen reputasse quel pazzo di uno chef suo figlio, dopotutto se l’era cresciuto ed era stata sempre lei a presentarlo ai suoi genitori – e Dean non poteva che ringraziarla mentalmente ogni volta, davvero, perché poteva anche essere un idiota che lo metteva nel guai, ma era un maledetto genio ai fornelli. Per questo l’avevano scelto come chef rotante, perché poteva addormentarsi in piedi – davvero, una volta lo avevano trovato a dormire poggiato al muro – ma non c’era una tecnica o pietanza che non sapesse fare alla perfezione. Un maledetto genio.

«Bene, gli darò un aumento» disse, strofinandosi gli occhi. «Dio, mi prepari un caffè?» la supplicò.

«Solo per questa volta» accettò lei, raggiungendo l’area di sosta dei camerieri, lì dov’era stata messa una macchina per il caffè espresso accanto a quella tipica americana. Ellen verso la posa di caffè e l’acqua bollente nel boiler e richiuse, voltandosi intanto verso Dean, poggiato al muro e intento più che mai nel tentativo di svegliarsi. «Comunque» riprese, «io aspetterei a dargli un aumento».

Dean la scrutò interrogativo tra le dita e poi abortì un nuovo sbadiglio. «Perché?» chiese, scuotendo la testa per scacciare quella patina di sonno che non voleva decidersi ad abbandonarlo.

«Perché ancora non ti ho detto una cosa». Ellen prese la caraffa ormai piena di caffè e gliene verso una tazza colma, passandogliela, «Indovina chi ha prenotato per stasera un tavolo per due?»

Dean accettò con gratitudine e ciondolò con la testa. «Il Presidente Obama?» scherzò, prendendo poi un sorso bollente. Quasi si strozzò quando lei, sorridendo innocentemente, lo corresse:

«No. Mister Satan».

Chiuse gli occhi e prese un respiro profondo, le labbra premute contro le nocche per evitare fuoriuscite di liquido e la gola che gli pizzicava per il pericolo scampato.

«Bene» gracchiò, «vado a uccidere lui e Garth prima di suicidarmi».

Ellen rise e gli urlò dietro di non sporcare troppo o nessuno avrebbe pulito. Dean alzò una mano verso di lei per dirle che aveva capito e sparì oltre la porta.

La cucina era già in fermento e Dean si sorprese di vedere che perfino Benny era già lì, in divisa e intento a studiarsi un ricettario. Quando alzò gli occhi dalle pagine e lo vide, sorrise attorno allo stuzzicadenti.

«Ehilà, fratello, sembri un morto che cammina» gli disse.

«Mai più morto di Garth e Ash» rispose lui, guardandosi attorno, «dove sono?»

Benny gli indicò la porta di servizio con lo stuzzicadenti, prima di infilarselo nuovamente in bocca. «È per Santan?» domandò comunque, tornando a sfogliare il libro. Lui annuì.

«Non è per lo stesso motivo che hai quello in mano?» ribatté lui, indicando il raccoglitore. Benny sorrise e annuì.

«Beh, mi conosci troppo bene, fratello. Non dico mai di no al lasciare senza parole un paio di stronzetti farciti» disse, facendolo ridere. «Tu? Con cosa li farai piangere?» si interessò poi. Dean si aprì in un ghigno da monello e prese un lungo sorso di caffè.

«Stavo pensando alla Créme Caramel».

***

 

Quella sera il Family Business sembrava in fermento.

Non era chiaro come fosse successo, ma sembrava che la voce dell’incontro si fosse sparsa e avesse attirato un numero impressionante di clienti – come non se ne vedevano dai tempi d’oro.

Dean, nascosto dietro le porte a soffietto, si sfregò nervosamente le mani, cercando di sbirciare all’interno della sala. Quasi si beccò un’anta sulla faccia quando questa si aprì, spinta da Lisa.

«Cosa... Dean, tutto okay?» si interessò lei. Lui ignorò la domanda e tornò semplicemente a sbirciare.

«Come sta andando?» si interessò, spostandosi questa volta in tempo quando a entrare fu Kevin. Il ragazzo li guardò per un istante, poi li superò e raggiunse il pass, sparendo infine di nuovo in Sala con le nuove ordinazioni.

Lisa sospirò fintamente esasperata e lo tirò lontano dalla porta.

«Sta andando tutto alla meraviglia, Chef, quindi perché adesso non te ne torni nel tuo regno e lasci a noi il nostro?»

Ecco, era esattamente per questo suo modo assolutamente sovrannaturale di calmarlo che Dean aveva pensato, più volte in passato, che sarebbe stata la madre perfetta per il suo Marshmallow. Per quello e perché Ben, il figlio di Lisa, sarebbe stato la perfetta guardia del corpo per la sua bambina. Oltre al fatto che lei fosse uno schianto, ovviamente.

Ed era anche il motivo per cui l’aveva pregata di fare quel doppio turno, così da poterle dare il compito di essere la cameriera personale delle loro due celebrità.

«No, non posso» scosse la testa lui, facendola sbuffare esasperata. Proprio in quel momento, Sam si affacciò dal bancone.

«Oh mio Dio, Dean! Torna subito qui, hai visto quanta gente c’è? Lascia stare Lisa e vieni a darci una mano» sbraitò, da brava sorellina mestruata qual era. Dean alzò gli occhi al cielo e gli fece il verso, facendo ridere Lisa. Sam pensò bene di lanciargli il torcione in faccia.

«Questa me la paghi, Samantha!» sbottò lui, tirandoglielo a sua volta. Lisa rise ancora e fece un passo indietro, scuotendo la testa.

«Okay, vi lascio ai vostri maturi scambi di opinione e vado a vedere se va tutto bene al tavolo» si congedò, senza aspettare risposta. Dean non aspettò neanche che fosse sparita completamente oltre l’ondeggiare delle porte, prima di accostarcisi di nuovo per spiare.

La seguì per la Sala, guardandola scivolare con eleganza tra i tavoli e raggiungere quello che stava facendo tanto scalpore, dove due uomini stavano gustando i piatti migliori che Dean avesse mai visto uscire da quella cucina. Non era mai stato tanto orgoglioso della sua squadra, davvero, perché non andavano sempre d’accordo e ogni tanto gli davano dei grattacapi non indifferenti, ma quando ce n’era bisogno, erano capaci di lavorare perfettamente insieme, come degli ingranaggi bel oleati. Aveva addirittura visto Missouri e Benny collaborare – cosa che per un attimo gli aveva fatto credere che fosse scoppiata l’Apocalisse e avrebbe cominciato a piovere rane. Lo aveva anche detto e si era beccato una mestolata in testa da Missouri.

Vide Lisa avvicinarsi al tavolo e Gabriel sorriderle ammiccante, chiedendole qualcosa che si perse nelle chiacchiere che riempivano il ristorante. Poi un paio di enormi braccia lo circondarono e lo sollevarono, allontanandolo dalla sua postazione-spia.

«Cosa... Sam! Che diavolo stai facendo! Mettimi giù!» sbraitò, scalciando. Suo fratello ignorò la richiesta e lo trascinò di peso in cucina, lasciandolo andare solo una volta che furono davanti al suo tavolo da lavoro.

«Senti, lo sono che sei nervoso, okay? Lo sono anche io, davvero, ma il locale è strapieno e c’è ancora da fare qui, quindi ti prego, dammi una mano» lo supplicò Sam. Dean sbuffò, ma annuì, raddrizzandosi il capello.

«Va bene, basta che la smetti questa scena da casalinga disperata» concesse, beccandosi un’occhiataccia. Lui fece la faccia più innocente del repertorio – ghignando poi in segreto, quando Sam gli voltò le spalle – e si guardò attorno. Era strano vedere la cucina così piena, con i cuochi dei vari turni che lavoravano perfettamente insieme, urlandosi tempi di cottura e consigli. Prese un respiro profondo, sentendosi molto più tranquillo di pochi minuti prima, e si mise a lavoro.

Aveva ancora dieci minuti prima che venissero portati fuori i dolci, quindi era tempo, per lui, di organizzarsi. Chiamò Jessica, la pasticciera del turno serale – e ragazza di Sam, quindi assolutamente off-limits, purtroppo –, e le chiese di montare la panna per la guarnizione del dessert all’albicocca, mentre lui si occupava della Crema Chantilly. Recuperò il recipiente dal frigorifero, incorporò lo zucchero vanigliato e poi la infilò nella sac à poche, con cui preparò le coppe, guarnendole con polvere di cacao e biscotti ricoperti di cioccolato fondente.

Nel frattempo, Jess aveva decorato il plum-cake con ciuffetti di panna, tagliato le porzioni e sistemato le fette nei piatti con spicchi di albicocche candite. E dannazione, se era brava. Aveva voglia di corteggiare uno di quei piatti, invitarlo a cena e poi passarci insieme una notte di sesso bollente.

Okay, forse la mancanza di sonno cominciava a sentirsi.

Si poggiò con il sedere al tavolo e si strofinò gli occhi, sentendo, l’istante dopo, qualcuno raggiungerlo.

«Allora» gli sorrise Benny, «che ne pensi? Ce la siamo giocata bene?»

Chuck e Pamela passarono loro accanto parlando di fondi e cotture – liberi, per una volta, di potersi scambiare opinioni.

«Più che bene» ammise lui. «Dannazione, se non ci danno il massimo non capiscono un cazzo» sbottò, facendo ridere l’altro.

«Sì, lo credo anche io».

Restarono in silenzio, guardando i camerieri fare avanti e indietro con i dessert, finché anche l’ultimo non fu portato a tavola e la cucina fu finalmente chiusa. A quel punto, Dean si diede una piccola spinta e recuperò il suo Amuleto Speciale dal frigorifero. Prese un piatto completamente bianco, semplice se non fosse per la forma a foglia, e ci sbriciolò al centro un paio di amaretti; dopodiché ci capovolse sopra la Créme Caramel e alzò delicatamente la forma. La prima goccia di caramello che colò di lato fu una poesia per gli occhi.

«Lisa, per piacere, porta questo al tavolo» chiese alla donna, che lo guardò sorpresa per un attimo, prima di accettare l’incarico e tornare in Sala con un sorriso.

Dean non resiste più e superò il pass, tornando accanto alla porta per poter osservare la scena – solo che questa volta non fu l’unico e Sam, Jessica e Jo si sporsero dalle sue spalle.

Quando il piatto fu depositato tra i due critici, questi si scambiarono un sorrisetto saputo e chiesero a Lisa qualcosa – probabilmente a cosa fosse dovuto e cosa fosse. Sentirono Lisa rispondere «l’Amuleto del giorno» e poi videro Lucifer intaccare con il cucchiaino la crema e portarsela alla bocca. Poi fu il turno di Gabriel e Dean si impose di respirare se non avesse voluto svenire come una mammoletta. Quando anche sulle sue labbra affiorò un sorriso divertito ed entrambi ne presero un secondo assaggio, Dean sentì le sue gambe cedergli per il sollievo e suo fratello lasciarsi andare a un gemito esausto.

«Non ho mai avuto così tanta paura» confessò, guadagnandosi un bacio da Jessica.

«Questo perché sei una ragazzina» lo prese in giro lui, lamentandosi poi ampiamente per il blando pugno ricevuto da Jo – e dicendole che l’avrebbe perdonata solo se gli avesse dato un bacio.

 Ovviamente tutto ciò che ricevette fu una sonora risata.

***

 

Un mese dopo, il Family Business stava lentamente risalendo la china, grazie alla fantastica recensione – condita di una marea di paroloni di cui Dean dubitava l’esistenza – fattagli da Gabriel e Lucifer.

“Piatti di alta cucina in un ambiente che ha il sapore di casa” era, probabilmente, la sua frase preferita – oltre che l’unica che avesse senso compiuto per lui.

Comunque, gli affari andavano alla grande e né Dean né Sam potevano lamentarsi di questo.

Addirittura, era capitato che Gabriel tornasse a più riprese e ogni volta Dean gli offriva un dolce nuovo e fatto solo per lui, neanche fosse una sfida tra loro – anche se lo era. Almeno un po’, ecco.

«Papà?»

Dean si voltò, sorridendo a sua figlia che, ferma sulla cornice della porta, dondolava sui talloni.

«Ehi, Marshmallow, che c’è?»

«Posso avere la cioccolata calda?» domandò lamentosa, sporgendo il labbro inferiore. Dean maledisse la capacità che aveva di farlo sentire in colpa prima ancora che le dicesse di no – cosa che succedeva molto molto raramente.

«Certamente» sospirò, rassegnato ad essere governato da un angioletto malefico come sua figlia. «Vai a giocare in camera, te la porto appena pronta» disse, alzandosi dal divano e spegnendo la tv. La bambina scappò via, arrivò alle scale, tornò indietro e gli tirò il polsino della camicia finché lui non si accucciò davanti a lei. A quel punto si alzò sulle punte e gli schioccò un bacio sulla guancia, prima di scappare di nuovo via ridendo.

Dean si rialzò, ridacchiando, e scosse la testa, dirigendosi in cucina e mettendosi all’opera per la sua signora e padrona.
Preparò la cioccolata fischiettando e battendo il piede a tempo, versandola infine nelle tazze. Fu mentre si allungava a prendere qualche marshmallow da affogarci dentro che notò qualcuno di conosciuto passare in strada.

«Marshmallow, sono fuori al vialetto, non ti muovere» urlò, prima di infilare la porta di casa e correre, incurante del freddo e del fatto che avesse dimenticato il giaccone. Quando lo raggiunse, Castiel lo guardò sorpreso, un piccolo tic alle mani, sempre inermi ai lati del corpo.

«Ehi» lo salutò con un sorriso, piegato in due per riprendere fiato.

«Ciao, Dean» rispose quello, «non hai freddo?»

Lui rise e prese due respiri profondi, raddrizzandosi.

«Sì. Sì, Cas, ho freddo» ammise, guardando l’altro inclinare la testa in quel modo strano che ormai lo caratterizzava, «Ma... volevo ringraziarti per la dritta e... insomma, mi sembrava il minimo da fare».

«Non ce n’è bisogno, non è stato nulla»cominciò quello, ma Dean lo interruppe.

«Ce n’è bisogno eccome, invece! Anzi, perché... senti, ti va di entrare a bere una cioccolata calda?» offrì, dandosi poi dell’idiota quando lo vide tentennare e rettificò: «o della birra?»

A quel punto Castiel sorrise in quel suo modo genuino e annuì.

«Una cioccolata calda sarebbe l’ideale con questo freddo» rispose, facendolo sorridere.

«Bene» disse Dean, facendogli strada verso casa sua con una piacevole morsa di nervosismo allo stomaco.

Sperò solo di non essersi beccato l’influenza.

Fine.

   
 
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