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Autore: Eneri_Mess    26/08/2007    1 recensioni
... Il bambino sopravvissuto, invece, rimase con lo sguardo incollato al pavimento, incapace di reagire. Se avesse potuto, avrebbe riso. Riso così forte da ascoltare con le proprie orecchie la miseria in cui sguazzava. Per dirla scherzosamente, Voldemort era passato al Piano B. Al piano di riserva.
[ Dopo l’Ordine della Fenice, prima del Principe Mezzosangue ]
Ad un mese dalla fine del quinto anno, Voldemort continua a nascondersi al Mondo Magico con il chiaro intento di riuscire ad avere la profezia andata perduta e di ripristinare il suo regno di terrore. Harry, ancora scosso dalla scomparsa di Sirius, inizia il suo sesto anno con la mente ingombra di pensieri e preoccupazioni.
Nuovi personaggi, nuovi scopi. Le Stirpi Antiche minacciate quanto quelle Moderne, segreti e muri tra mondi che si sgretolano e la speranza che un sottile velo celi in realtà molto più che morte.
Genere: Generale, Malinconico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Disclaimer: Tutto ciò che è preso dai libri di Harry Potter non mi appartiene. I personaggi non estrapolati dalla saga, invece, sono di mia invenzione.


Breve nota introduttiva: per la serie, via il dente via il dolore! Buondì a tutti. Scrivo queste due righe iniziali per informarvi che questa storia era già stata pubblicata tempo fa con i primi tre capitoli (se non ricordo male). In parte l’ho rivista e ricorretta, ma il Prologo è più o meno tale e quale alla prima volta che lo scrissi. Colpa della nostalgia! Per questo tempo che risulterà piuttosto tedioso, oltre che lungo ^^’ Fatevi forza, ok? ;) Vi aspetto alla fine del capitolo! Buona lettura!

PS: il Prologo è ambientato alla fine del terzo libro!




Vi sarà sempre un Passato, un Presente e un Futuro.
Come esisterà in eterno qualcuno che vi dirà « … la vita continua ».
Perché il tempo, crudele e magnanimo, scorre inesorabile, con le sue lancette che scandiscono i nostri attimi.
« ... E dall’inizio alla fine, dalla fine all’inizio ci saranno sia lacrima che sorriso a diffondere luce e ombra, ma credo che non ci riguardi pensare a cosa è stato, cos’è e cosa sarà di noi…
Dobbiamo solo camminare, lasciando le nostre orme su questa sabbia dorata che è il nostro tempo
… »




Le Lancette del Tempo


[Prima Parte]


Prologo



… perché ogni età della vita
è pesante per chi non trova in sé qualcosa
che lo aiuti a vivere felicemente.


[Catone. De Senectute 2-4 – Cicerone]




« Il Ministero della Magia non crederà che lei abbia aiutato Sirius, vero? »
« No. Il professor Silente è riuscito a convincere Caramell che stavo cercando di salvarvi la vita. Per Severus è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Credo che la perdita dell’Ordine di Merlino sia stato un duro colpo per lui. E così questa mattina a colazione si è fatto sfuggire… ehm… per caso che sono un Lupo Mannaro ».
« Non se ne andrà per questo! »
« Domani a quest’ora, cominceranno ad arrivare i gufi spediti dai genitori… non vorranno che un Lupo Mannaro sia l’insegnante dei loro figli, Harry. E dopo ieri notte, li capisco. Avrei potuto sbranare uno di voi… non deve succedere più ».
« Lei è il miglior insegnante di Difesa Contro le Arti Oscure che abbiamo mai avuto! »



Lentamente, le proprie parole e quelle di Harry presero a sbiadire nella sua mente, sfumando via, mentre la coscienza tornava con prepotenza a reclamare il suo posto.
Erano passate appena due ore da quell’ultima conversazione e già, da come l’aveva sognata, gli sembrava un ricordo lontano e remoto. Si sistemò meglio sul sedile. Il viaggio da Hogsmeade a King’s Cross, Londra, sarebbe stato lungo, e lui aveva bisogno di dormire quanto più possibile.
Appoggiò la fronte al vetro freddo della cabina, che tremava per il treno in movimento. Gli occhi si fissarono qualche momento sul cielo a vedere le nubi condensarsi in quello che, di lì a poco, sarebbe stato un temporale coi fiocchi. Lo sguardo si abbassò poi sulla ghiaia e sui campi che si stendevano poco distanti dalle rotaie: con la velocità del treno apparivano come lunghe strisce verdi e grigie che incorniciavano la ferrovia.
Socchiuse gli occhi e protese l’udito. Se ascoltato, lo sferragliare del treno annullava ogni altro minimo rumore e gli permetteva di riflettere.
“E adesso?”
Semplici parole che davano l’idea di vuoto ed incertezza che erano state una costante nella vita dell’uomo. Perché l’esistenza di Remus J. Lupin, da quasi quattordici lunghi anni, era stata priva di quei piaceri che te la fanno assaporare, primi fra tutti gli amici che aveva perso. Se ne era capacitato, perché era un uomo razionale, e aveva capito bene che dall’oggi al domani si può perdere tutto. Ma si chiese anche, prima di lasciarsi cullare dalle vibrazioni del treno, se dopo gli ultimi avvenimenti sarebbe potuto arrivare a concedersi una sana risata.

Il fischio del treno lo destò dal fissare un punto impreciso delle campagne cupe che, pian piano, vennero sostituite dalle mura e dai cartelli della stazione dove il treno si stava fermando. Poté osservare sulla banchina alcune persone, molte delle quali accompagnatori, salutare i cari che salivano sul treno, mentre la locomotiva sbuffava nuvolette di vapore in attesa di ripartire.
Si accomodò meglio, tirando su il mantello che in quel momento fungeva da coperta. Con lentezza, per evitare di far cadere la cappa, frugò nelle tasche dei pantaloni ed estrasse un vecchio orologio da taschino che aveva qualche ammaccatura qua e là. Fissò le lancette finemente levigate: la più corta era puntata quasi sul dodici, mentre l’altra stava giusto avanzando in quel momento di qualche ticchettio verso l’undici.
I successivi cinque minuti furono piuttosto brevi e a mezzogiorno in punto qualcuno bussò al vetro opaco dello scompartimento. Remus voltò il capo in direzione del rumore e la porta si aprì. In piedi, con davanti un carrello pieno di cibarie, stava una donna con un sorriso cortese sul viso. Gentilmente, domandò all’uomo se volesse qualcosa dal carrello. Remus annuì e prese quel che gli bastava per il pranzo, ringraziando la cameriera. Lei si congedò, augurando buon viaggio al solitario passeggero, mentre, con la consueta espressione gradevole, si dirigeva nella carrozza a fianco.
L’uomo mangiò con educata voracità il panino appena comprato e il suo sguardo si perse nuovamente sulle colline buie. Il temporale era scoppiato da poco con profondi tuoni e lampi in lontananza. Il vetro era grondo di gocce d’acqua che, per l’alta velocità, tracciavano le proprie scie umide verso la direzione opposta del treno.
E con l’infuriare della pioggia, che opprimeva quasi del tutto lo sferragliare delle ruote, e lo stomaco ora pieno, Remus si abbandonò al sonno, accomodandosi alla meglio nell’angolo del sedile.

Fu un altro fischio a riportare la sua mente alla coscienza. Un po’ intontito per il sonno troppo profondo sbatté con calma le palpebre, anche se queste parvero esageratamente pesanti. Mosse con lentezza il collo un paio di volte: la posizione in cui aveva dormito non era delle migliori e i muscoli intorpiditi gli dolsero. La finestra della cabina era stranamente abbassata e l’aria nello scompartimento si era fatta più fresca, in seguito al violento acquazzone.
Il mantello era un po’ calato dalla spalla destra, inesorabilmente attaccata dall’ambiente gelido. Aveva indosso un pullover leggero, dato che quella mattina la temperatura era più mite. Fece per riassestare il mantello quando, finalmente, si accorse di non essere solo.
Sbatté un paio di volte le palpebre pesanti, mettendo meglio a fuoco chi, profondamente, dormiva dirimpetto.
Era senza alcun dubbio una donna, anche se il viso era affondato nelle braccia incrociate sul tavolino di fortuna della carrozza. I lunghi e scuri capelli ricadevano sulla lastra di legno in disordinate ciocche, appena mosse. Il respiro era regolare, tipico di chi ha un sonno tranquillo. Indossava un mantello consumato, di un verde molto scuro con rifiniture d’oro sui bordi, che la ricopriva quasi interamente.
Rimase lì a fissarla ancora un po’. Non si chiese niente, né chi fosse né cosa facesse lì – quest’ultima sarebbe stata una domanda abbastanza stupida. Semplicemente non si aspettava compagnia, se compagnia si poteva definire. Era solo una passeggera del treno che per qualche ragione – forse per l’affollamento dei vagoni – aveva trovata adeguata la sua stessa cabina... Adesso stava decisamente pensando troppo.
Non seppe dire quante volte riportò la propria attenzione su quella testa mora che, ogni tanto, veniva scossa e da cui provenivano lievi mugugni sconnessi, prima di tornare a fissare il suo doppio nel vetro appannato.

Si fermarono ad un’altra stazione. Qualcuno scese e qualcuno salì. Il tempo andava migliorando ad ogni fermata e ciò non poteva essere che buono: almeno la strada dalla stazione al Paiolo Magico non sarebbe stata “un salta qui salta là” per evitare le pozzanghere, sotto un torrente in piena.
Il sole stava scendendo e il cielo diventava via via sempre più aranciato. Iniziò a scorgere i famigliari campi e colline che si vedevano a circa un’ora di partenza dal binario 9 e ¾ di King’s Cross. Aveva compiuto quel viaggio un’infinità di volte e, per l’ennesima, stava tornando.
Si era quasi dimenticato della donna che sonnecchiava davanti a lui. Riposò lo sguardo sui disordinati capelli color dell’ebano che in quel momento si mossero, mentre la sconosciuta alzava leggermente il capo. Ciocche scure le ombravano gran parte del viso, impedendo all’altro di vederlo.
La brunetta rimase qualche istante a fissare un punto davanti a lei, che corrispondeva più o meno al ginocchio destro dell’ex insegnante.
Remus, silenzioso, pensò che stesse facendo mente locale su dove si trovasse, perché aveva un atteggiamento un po’ spaesato. Un piccolo sorriso gli nacque sulle labbra.
Lei levò una mano e si scostò i capelli dal viso, riassestandoseli alla meglio dietro un orecchio, mentre un ciuffo ribelle le ricadeva buffamente in avanti.
Il mannaro si sorprese un poco del suo gesto successivo: invece di vedere, come si era aspettato, a chi appartenesse il ginocchio che poco prima osservava intensamente, la donna guardò fuori, corrugando leggermente la fronte.
Fissava con attenzione le colline, al di là delle quali moriva il sole. Il suo sguardo parve studiare i dettagli di quel paesaggio, che però sparivano velocemente dietro le ultime curve che portavano alla stazione. Un flebile sospiro scappò dalle sue labbra, mentre le sopracciglia si increspavano in un’espressione cupamente interrogativa.
« Fra circa mezz’ora saremo a King’s Cross » la informò Remus con voce gentile e disponibile. Rimase a fissarla, attendendo un accenno da parte sua. Senza riflettere, aveva risposto a quella domanda silenziosa sul volto della sconosciuta che aveva interpretato come un “Dove sono?”. Semplice cortesia.
Lei si girò verso l’uomo e per un istante si fissarono negli occhi. Gli ambrati di lui e la rara ametista di lei, che, accennando un ringraziamento con il capo, distolse subito lo sguardo. Si voltò nuovamente verso il finestrino senza più proferire parola. Remus, dopo un’ultima occhiata, iniziò a sistemare la propria roba.

Pochi minuti dopo, il treno si fermò al binario 9 e ¾ in perfetto orario e fu possibile iniziare a scaricare i bagagli.
Erano in fila nel corridoio non troppo largo del treno, aspettando di scendere. Un’anziana strega aveva rovesciato per sbaglio il proprio baule, il cui contenuto si era riversato dappertutto. Alcuni maghi, dietro Remus, sbuffavano guardando i propri orologi. Non era possibile smontare dalla seconda entrata, perché altri pesanti bagagli ingombravano il resto del corridoio. Davanti a lui, invece, c’era la donna con la quale aveva passato un po’ del viaggio; appoggiata alla parete del treno, guardava fuori col suo sguardo attento la gente che stava abbracciando i cari e chi, a breve, sarebbe salito sul treno diretto a Nord.
Remus, la schiena poggiata alla parete opposta e nulla da fare se non pazientare, le lanciava a tratti qualche sguardo, per poi riportare il proprio interesse sull’anziana che a colpi di bacchetta rispediva con cura le proprie cose nel baule. Pochi minuti dopo, la vecchia strega era riuscita a sgombrare il passaggio e si poté scendere, fra spintoni e non, dal vagone. L’aria era fresca, ma impregnata degli odori acri tipici di una stazione.
Con passo svelto e sicuro, Remus si diresse verso la barriera di pietra e la oltrepassò, arrivando alla King’s Cross Babbana.
C’era davvero un numero sorprendere di gente che correva a prendere gli ultimi treni, si affrettava verso le uscite o si fermava per chiacchierare. E questi, così impegnati, non scorsero minimamente l’uomo appena sbucato dal muro, che portava una logora valigia e un mantello rattoppato sulle spalle.
Si incamminò, stando ben distante dai Babbani in corsa per non essere urtato. Udì lo stridio di un treno in partenza, il fischio del capostazione e vide qualcuno caracollare senza fiato verso l’ultima carrozza, tenendo in malo modo sottobraccio un paio di valigie.
Per un attimo si fermò a fissare i convogli: molti erano ancora fermi, qualcuno era appena partito…
Distolse lo sguardo e si avviò verso la biglietteria, dove una mezza dozzina di persone facevano la fila dividendosi in un paio di sportelli. Lui si accostò a un vecchio signore alto e snello che rivolgeva qualche sguardo impaziente alla donna dinanzi a lui, la quale parlava col bigliettaio, tenendo in braccio un figlio e un altro per mano.
Mise a terra la consumata valigia da viaggio e iniziò ad aspettare anche lui il proprio turno.
Dopo una decina di minuti abbondanti, la donna finì e lasciò la fila, tentando di calmare il figlio più piccolo scoppiato a piangere. L’anziano si fece avanti e con tono rigido chiese l’orario del successivo treno per Glasgow, pagando poi il biglietto e lasciando il posto a Remus.
« Buonasera, desidera? » domandò distrattamente il ragazzo della biglietteria, riponendo i soldi appena ricevuti in un cassetto e prestando poca attenzione al cliente, con un sorriso tradito dallo sguardo annoiato.
« Vorrei sapere quali sono i treni in partenza domattina » chiese.
Il ragazzo lo fissò qualche istante, poi roteò sulla sedia girevole e digitò qualcosa al computer.
« Treni diretti dove? »
Sullo schermo apparve una lunga schermata di quelli che aveva appena richiesto per la mattina seguente.
« Mi può dare la lista completa? » e sorrise al mezzo sospiro dell’impiegato, mentre questo procedeva con la stampa.

« Per l’ultima volta, le ripeto che non c’è nessuna locanda con un nome del genere! »
Il tono irritato di un uomo in divisa arrivò perfettamente alle orecchie di Remus, mentre attendeva la lista dei treni e qualche altra informazione.
« Non può dirmi che non c’è! » ribatté un’altra persona, con voce un po’ più bassa mista a ostinazione e a una punta di smarrimento. Ed era senza ombra di dubbio un timbro femminile.
Il capostazione la squadrò attentamente prima di parlare di nuovo:
« Senta, le avranno dettato un nome sbagliato, perché sono sicuro che non esista alcun Paiolo Magico qui, a Londra » perseverò, come se si stesse rivolgendo a uno che non vuole capire di sbagliare. Inspirò profondamente, per sottolineare che la discussione era finita, ma la donna stava per riaprir bocca e lui la precedette.
« Guardi, laggiù » esasperato, indicò un punto oltre una folla di turisti. « C’è un banco informazioni. Chieda lì se ha bisogno » e si allontanò prima di sentir altro.
Remus si era voltato ed aveva assistito a quell’ultima battuta. Il suo sguardo ricadde quasi subito sulla donna e un sorriso divertito gli stirò le labbra: era la stessa del treno.
Non biasimava l’uomo in divisa per averle parlato così, anzi, era più che naturale un tono del genere con una che agli occhi Babbani appariva bizzarra. Il mantello verde scuro le arrivava poco sopra le caviglie, lasciando intravedere un paio di vecchi stivaletti di pelle scura sgualciti in più punti. I capelli erano disordinati e in uno stato abbastanza pietoso. Ai suoi piedi c’era una valigia marrone scuro con i bordi e le decorazioni in un argento opaco e ammaccato.
« Ehi… mi scusi, la lista » l’insistente richiamo del bigliettaio lo fece voltare nuovamente e si trovò sul banco il foglio che aveva richiesto.
« Sì, grazie. E mi può dire i prezzi dei biglietti? » chiese, riportando lo sguardo sul ragazzo, girato verso il computer. Questi prese una penna e colpì alla cieca un punto sul banco, vicino al foglio stampato.
« E’ tutto qui. Altro? » tornò con gli occhi sull’uomo e un’espressione che non smentiva per nulla i suoi pensieri seccati gli si dipinse in faccia.
« No, grazie. Arrivederci » si mise in tasca il foglietto ripiegato, riprese il bagaglio e si diresse verso la donna bruna, ancora immobile in mezzo alla gente, nella stessa posizione in cui era stata lasciata dal capostazione.
Era pallida, davvero molto, e adesso che si avvicinava vedeva anche un paio di occhiaie che prima gli erano sfuggite.
Lei non parve accorgersi del suo arrivo. Aveva lo sguardo basso e fissava qualcosa che aveva in mano: un bigliettino strappato e ingiallito con sopra scarabocchiato “Locanda Il Paiolo Magico – Londra”.

« Ha bisogno d’aiuto? »
Remus, avvicinatosi, parlò con voce pacata e con un sorriso gentile sulle labbra. La donna sussultò appena, puntando gli occhi su chi le stava di fronte. Presa alla sprovvista aprì la bocca, ma non uscì alcun suono e la richiuse, corrugando la fronte e spostando di nuovo l’attenzione sul foglietto. Era incerta. Si chiese se davvero le avessero dato le giuste informazioni per la locanda. Rialzò il viso.
« Esiste un locale chiamato Il Paiolo Magico qui a Londra? »
Non fece niente per nascondere la sua insicurezza a quello sconosciuto che si era mostrato gentile con lei; per di più era un mago e quindi, molto probabilmente, sapeva di che cosa stesse parlando.
Il suo sguardo, però, prese a vagare. Se l’indirizzo fosse stato davvero sbagliato non avrebbe saputo cosa fare: era già tanto se aveva dei soldi, ma erano soldi dei maghi…
Tuttavia non fece in tempo a deglutire.
« Sì, non è molto lontano da qui » rispose Lupin, sorridendo.
La brunetta inspirò profondamente, incrociando i suoi occhi e facendo un cenno di assenso, stirando le labbra in un flebile sorriso di ringraziamento. Era, come dire… salva, ma forse quella parola era esagerata. Accartocciò il foglietto e lo infilò in una tasca interna del mantello, dove qualche moneta tintinnò.

● • . · ˙۰ . . · ˙ ۰

L’aria serale era molto più fredda e i due si strinsero adeguatamente nei mantelli, allungando il passo meglio che poterono senza sbatacchiare troppo i bagagli. La gente a passeggio sembrava accorgersi di loro, diversamente da quella troppo occupata della stazione. Molti li additavano sussurrando, vedendoli così buffi e strani coperti da quei mantelli vecchi e inusuali.
La donna si sentì piuttosto imbarazzata con tutti quegli occhi puntati addosso. Strinse la presa sulla maniglia della valigia e abbassò lo sguardo sulla strada, evitando un paio di pozzanghere, mentre il suo accompagnatore, poco più avanti, faceva altrettanto per non bagnarsi le scarpe. Stavano percorrendo la strada insieme, visto che entrambi avrebbero alloggiato al Paiolo Magico.
Con la mano libera chiuse il collo della cappa, evitando l’esposizione della gola. Si sentiva stanca al termine di quella giornata. Era stata un’eterna corsa, un chiedi informazioni qua e là e per un soffio era riuscita ad evitare di perdere il treno. Dopo tutto quello che le era successo di mattina doveva avere un aspetto orrendo, cosa a cui, alla fine, si era abituata.
Saltò un'altra pozzanghera e si scansò in tempo prima di sbattere contro la schiena della sua guida, che si era appena fermata. Alzò gli occhi sulla palazzina che li sovrastava: appesa alla parete malridotta c’era una grande insegna con su scritto a lettere scorticate Il Paiolo Magico. Sospirò tra sé, stendendo le labbra in un sorriso contento ma stanco.
Remus fece strada, aprendo la porta incrostata. Lei ebbe appena il tempo di dare un’ultima occhiata fuori, notando che tutte le paia di occhi che prima la fissavano ora non si accorgevano nemmeno di dov’era entrata.
Il locale era pieno. A prima vista appariva simile ad una vecchia taverna un po’ trascurata, con luci soffuse ed una clientela che spaziava da vecchie fattucchiere dall’aria malaticcia, a maghi che parlottavano tra loro davanti un bicchiere di brandy e a un paio di goblin che rumoreggiavano in un angolo. Nell’ambiente aleggiava un profumino di cibo niente male che fece appena brontolare lo stomaco della brunetta. Per fortuna, nessuno lo sentì.
Si avvicinò sempre dietro all’uomo al bancone, dove arrivò di fretta il barman stempiato, basso e con un vecchio grembiule macchiato addosso. Questi inciampò, ma riuscì ad evitare la caduta.
« Oh, scusate, scusate » bofonchiò tentando di ricomporsi. « Volete? » domandò, osservando prima l’uomo dall’aria stanca e poi la donna poco distante. Remus si voltò e incrociò lo sguardo di lei, che lo fissò dubbiosa.
« Vorrei una stanza per questa notte » disse, rivolgendosi al proprietario.
« Doppia? » domandò quest’ultimo, spostando l’attenzione dall’uno all’altro cliente e sbattendo più volte le palpebre.
Il licantropo sorrise con una punta di divertimento. La donna, dietro di lui, stava fissando entrambi con le sopracciglia appena inarcate.
« Non siamo insieme » rispose l’ex insegnante, posando a terra la valigia.
« Ah, scusatemi, ho frainteso » balbettò imbarazzato il barman, porgendo il registro all’uomo e voltandosi verso un pannello dove, appese a molti gancetti arrugginiti, fremevano circa una decina di chiavi, piccole e grandi. Guardò attentamente le targhette di ognuna, prima di sceglierne una minuscola, di un oro opaco.
« Ecco » disse porgendo la chiave a Lupin. « Camera sette, in fondo al corridoio del primo piano » continuò, indicando le scale che portavano alle stanze.
« Grazie ».
L’uomo posò la penna e prese la propria valigia, facendo un cenno di saluto col capo alla brunetta, e si incamminò verso le scale con passo lento.
Lei ricambiò e si girò a guardare il barman, avanzando.
« Anche a lei una stanza singola? » domandò, porgendole la penna.
La donna annuì, intinse il pennino e abbassò lo sguardo sul registro.
“Remus J. Lupin…” lesse, per curiosità, nella riga sopra la sua. Firmò velocemente con una calligrafia allenata e si fece dare la chiave della sua stanza. Riprese il bagaglio e anche lei si congedò su per le scale, fissando la targhetta che recava il numero dodici, secondo piano.


La stanza non era molto grande, ma questo non importava: doveva passarci solo una notte. Dalle pareti si stava progressivamente staccando la carta da parati color ocra e il letto era un po’ più ampio del normale, avvolto in delle discutibili lenzuola blu con pois gialli.
Remus mise sul letto la valigia e si spostò verso la finestra, aprendola. Questa dava su una stradina Babbana e l’aria fuori era gelida. Si spostò, dirigendosi verso il bagno: una stanzetta angusta con un odore pungente di detersivo, che gli pizzicò il naso. Avvicinatosi al lavandino aprì l’acqua e vi passò sotto le mani, sentendola fredda. Si sciacquò il viso, rinfrescandosi dal lungo viaggio. Per qualche minuto restò a fissare il flusso d’acqua; alcune goccioline colavano dal suo viso sino alla punta del naso, per poi lasciarsi cadere in quel moto continuo sottostante. Preferì evitare di guardarsi nello specchio, chiudendo il rubinetto e uscendo.
Aprì l’armadio, dando le spalle alla finestra. E in quel momento un frullo d’ali particolarmente vicino lo fece voltare. Appollaiato sul davanzale, c’era un gufo dal piumaggio scuro. Gli si avvicinò perplesso e questi tese la zampa, a cui era legata una lettera che, senz’altro, aveva passato tempi migliori. La prese e il rapace spiccò subito un balzo, volando via.
Remus voltò la lettera, domandandosi chi avesse avuto bisogno di scrivergli, e vide soltanto il nome del destinatario, lui. La grafia era però famigliare. Aprì la busta e trovò un foglio di pergamena sgualcita, piegato di fretta. Lo tirò fuori, dispiegandolo, e iniziò a leggere.

Caro Moony,
Sono libero. Libero ma in fuga, e non so se rallegrarmene o meno.


L’uomo incurvò appena le labbra.
“Sirius”.

Non sono riuscito a mettere le mani su quel maledetto di Peter, ma non mi sono arreso. So di dover scappare dai Dissennatori, e ho progettato di farmi vedere in qualche posto lontano, così che ad Hogwarts possa essere rimossa la sorveglianza, però sono tuttora sulle tracce di Wormtail, anche se sembra essersi volatilizzato nel nulla… Fa bene a nascondersi, perché appena lo prenderò sarà morto.

Il licantropo sospirò. Sirius era sempre stato un tipo avventato e sembrava che il pensiero delle conseguenze relative alle sue azioni non lo sfiorasse minimamente. Se avesse ucciso Wormtail si sarebbe messo dalla parte del torto e scagionarlo sarebbe stato più arduo.

Tolto tutto questo, volevo dirti che sono stato davvero felice di rivedere te e Harry. E’ cresciuto tantissimo e somiglia sorprendentemente a James, non trovi?
Credi sia possibile incontrarci? Ho bisogno di chiacchierare con qualcuno, sono dodici anni che lo faccio con me stesso… e non prendermi per pazzo!


Questa volta il suo sorriso fu più ampio.

Dimmi un posto che reputi sicuro e vedrò di esserci… e ti ricordo che con me c’è Fierobecco, fa’ in modo che sia un luogo isolato.
Credo sia tutto.
Stammi bene,
Pads


Si allontanò dalla finestra con la lettera in mano, riflettendo, con l’umore improvvisamente più rilassato.
“Un posto abbastanza isolato e sicuro…”. Rimuginò su qualche luogo lì a Londra, ma niente era abbastanza appetibile; e poi incontrarsi col Ministero a due passi non era conveniente, anche se, conoscendo Sirius, sapeva che non avrebbe obiettato per quel tipo di pericolo: farla sotto il naso delle autorità sarebbe risultata una sfida troppo gustosa per lui.
Ripiegò la pergamena e la mise in tasca dove avvertì un altro pezzo di carta; lo estrasse, spiegandolo. Erano gli orari e i prezzi dei treni che si era fatto dare dal bigliettaio di King’s Cross.
Dimentico della lettera, si sedette sul letto, iniziando a leggere la lista. Sembrava avere l’imbarazzo della scelta, ma non aveva la più pallida idea di dove andare: alla fine un posto valeva l’altro. Doveva solo trovare un luogo buono per lavorare, tutto qui. Scese con gli occhi, stimando i prezzi e le partenze.
Dopo averli valutati tutti ne erano rimasti due buoni: uno per Brighton che partiva verso le nove di mattina e uno per Bournemouth, previsto per le otto e un quarto circa. Entrambi abbastanza economici.
Rimase qualche attimo a fissare le due righe senza decidersi. Sospirò e, rimettendosi in tasca la lista, si alzò. Ci avrebbe pensato davanti a qualcosa di buono da mangiare, così uscì dalla stanza e percorse tutto il corridoio fino a sbucare nella sala del Paiolo Magico.

A prima vista c’era molta meno gente di prima e da un grammofono vicino al bancone si diffondeva una melodia senza parole che allietava la clientela. Scese i pochi gradini e si sedette al primo tavolo vuoto. Diede una rapida occhiata in giro e vide le vecchie fattucchiere di prima, che adesso sorseggiavano sherry con le gote arrossate, un mago mingherlino che leggeva La Gazzetta del Profeta e, poco più in là, la donna del treno, col mantello verde ancora drappeggiato sulle spalle e una scodella davanti.
Riprese il foglio stampato e riportò la propria attenzione su di esso. Doveva decidere il treno per l’indomani…
« Scusi » bofonchiò qualcuno alle sue spalle. Si girò.
« Vuole qualcosa per cena? » domandò il barman, mentre si asciugava le mani sul grembiule. Remus appoggiò il foglietto sul tavolo.
« Cosa c’è? »
« Del brodo di carne le va bene? »
Remus annuì e il locandiere se ne andò verso il bancone, cambiando la musica al giradischi e ordinando in cucina la brodaglia.
Intanto l’ex insegnante tornò a riflettere. Sia Brighton che Bournemouth erano sul mare e ciò non gli dispiaceva, visto che era tanto che non ci andava. Insomma, era una scelta tanto banale, ma non riusciva a prediligere una delle due destinazioni.
L’oste ritornò portando un vassoio con la scodella di brodo, del pane, una brocca d’acqua e un bicchiere che gli appoggiò davanti, augurandogli un « Buon appetito ».
Prese a girare il cucchiaio nella ciotola, pregustando il pasto.
“Brighton. Solo perché parte alle nove”.
Aveva deciso, anche se l’orario della partenza era irrilevante. Sorrise tra sé, ingurgitando il liquido caldo.

Il letto era così confortevole dopo le lunghe ore di viaggio – in una posizione oltremodo scomoda – che non riusciva a trovare la voglia di alzarsi e rispondere alla lettera di Sirius… anche se due righe doveva scrivergliele.
Malvolentieri si issò a sedere sul materasso morbido, afferrò la valigia e fece scattare le chiusure metalliche. Frugò all’interno, tirando fuori la piuma malconcia e il calamaio mezzo vuoto, ma non trovò una pergamena nuova. Sospirò appena, prendendo la lettera di Sirius. Trasse a sé il tavolino sbilenco e vi appoggiò il tutto. Intinse il pennino nell’inchiostro e iniziò a scrivere sul retro della lettera.

Caro Padfoot,
E’ troppo chiederti di non fare azioni avventate? Ti ricordo che se ammazzi Wormtail la tua innocenza se ne va con lui. Non ti chiedo di trattarlo coi guanti, ma fallo arrivare vivo in un’aula d’udienza.
Riguardo al nostro incontro, domani partirò per Brighton e ti farò sapere.
Non cacciarti nei guai,
Moony


Rilesse con occhi assonnati le poche righe, giudicandole buone. Intinse nuovamente la piuma e aggiunse un post scriptum:

Ps: ho finito le pergamene.

Forse ci sarebbero state decisamente molte più cose da scrivere. Dodici anni erano pressoché un’eternità, ma Remus sapeva che quelle poche parole sarebbero bastate.
Ripiegò la lettera e cercò nelle tasche la busta. Con un colpo di bacchetta cancellò il proprio nome e scrisse quello di Sirius.
Si erse e andò alla finestra, di nuovo aperta, dove una piccola civetta, richiesta all’oste, scrutava la notte, impaziente di partire. Quando vide l’uomo avvicinarsi arruffò le piume, per poi tendere la zampa. Legata la lettera, spiccò il volo con un frullo d’ali e sparì.
Remus rimase qualche istante a fissare il cielo coperto di nuvole. Si strinse nelle spalle rabbrividendo e sbadigliando. Richiuse la finestra e tornò verso il letto; sistemo calamaio e pennino e appoggiò la valigia vicino all’armadio. Un altro sbadiglio gli portò la mano davanti alla bocca, mentre si stendeva sul letto, portandosi un braccio sugli occhi chiusi.
Essendo esausto, il sonno non tardò ad avvolgerlo.

● • . · ˙۰ . . · ˙ ۰

Alla fine, quella notte, non dormì troppo bene per una ragione che non si spiegava. Al risveglio era pallido e gli pareva di aver passato buona parte del tempo in dormiveglia. Per concludere la lieta nottata, era in ritardo: aveva i minuti contati per arrivare in stazione, prendere il biglietto e trovare il treno.
Assicurandosi il mantello sulle spalle, lasciando la camera. Arrivò al bancone della reception dove il locandiere stava trascrivendo alcune cose su un registro. Consegnò la chiave e pagò la stanza e il pasto, per poi uscire dal Paiolo Magico.
Ripercorse al contrario la strada della sera precedente, mentre in lontananza sentì il rombo di un tuono. Affrettò il passo.
Erano appena le nove meno dieci e King’s Cross era affollatissima, tutti parevano in ritardo. Si fece largo nella calca ed entrò in stazione, dirigendosi a passo svelto verso la biglietteria. Riuscì a trovare un banco quasi vuoto e si mise in fila, guardando l’orologio da taschino con impazienza, seppur composta. La signora raffreddata davanti a lui terminò con un eccì e gli lasciò il posto. Al contrario del giorno precedente, a riceverlo c’era una donna avanti con gli anni, seduta rigidamente sulla sedia e con gli occhi chiari che lo fissavano da dietro delle spesse lenti.
Quanto più velocemente possibile – l’anziana non sembrava avere molta famigliarità con quell’aggeggio chiamato computer – si fece dare il biglietto per il treno in partenza dal binario sei. Ringraziò e riprese l’andatura rapida di poco prima, imboccando l’entrata di una carrozza appena in tempo.
E così il Sud lo aspettava, si fermò a pensare un attimo, prima di scrollare la testa e mettersi alla ricerca di una cabina.
Il corridoio era piuttosto ingombro di gente che cercava, come lui, un posto. Girò un paio di carrozze, andando verso la fine del treno. Nessuna era abbastanza libera e così continuò fino ad arrivare all’ultimo vagone. Finalmente, dal vetro opaco dello scompartimento notò una sola persona, così bussò. Da dentro si sentì un flebile « Avanti ».
Dopo aver aperto la porta, il licantropo catalogò quel momento con un’espressione stupita, seguita da un sorriso incredulo e allegro al contempo. Lo stesso fece l’altro passeggero.
« Il signor Lupin, se non erro ».
« Ci conosciamo? » domandò scettico l’uomo rimanendo sulla porta, colto alla sprovvista.
« Mi scuserà, ma ieri sera ho letto il suo nome sul registro del Paiolo Magico… » e la donna arrossì appena. « Prego… » continuò, accennandogli i sedili.
Remus entrò, richiudendo la porta dietro di sé. Sistemò la valigia sulla retina e prese posto sul sedile opposto. Il suo sguardo si perse un attimo a guardarla: rispetto al giorno prima aveva un aspetto migliore. Doveva essersi fatta una doccia perché i capelli ora erano di un ebano lucente, ripresi in due trecce da ragazzina che creavano un lieve contrasto con i suoi lineamenti non più infantili. Il viso aveva recuperato un po’ del suo colore e le occhiaie erano sparite.
Per non sembrare scortese, allungò cordialmente la mano verso la brunetta.
« Remus Lupin, anche se mi conosce già » disse, con un sorriso di buon umore sul volto. Lei fissò qualche istante la mano, come a valutarla. Poi tese la propria, stringendo quella dell’uomo.
« Ryahn Cooper, piacere ».

To be continued?



Prodi lettori.
Ho riletto il Prologo proprio ieri sera ed ero quasi decisa a buttarlo giù e riscriverlo… ma poi ho pensato a quando l’ho composto ormai più di due anni fa e ho lasciato perdere. Mi dispiaceva. Devo aggiungere però che ai fini della storia non è così importante… ma tutto è nato da qui, non me la sentivo di disfarmene :)
Dubito ci sia qualcuno che abbia già letto la prima versione della storia, anche se si trattava dei primi tre capitoli. In caso, ho rivoluzionato tutto l’inizio. Quasi niente della first version (a parte il Capitolo I) è rimasto.
Quando iniziai a pensare alle Lancette del Tempo era uscito da poco il quinto libro, Harry Potter e l’Ordine della Fenice e per questo non tengo conto degli avvenimenti del Sesto e del Settimo, anche se ci sono dei riferimenti al Principe Mezzosangue (come il personaggio di Fenrir Greyback).

Il Prologo, come dicevo all’inizio, si svolge alla fine del Terzo Anno. Non ho note rilevanti a riguardo, a parte la pronuncia del nome Ryahn: è un nome totalmente inventato, non si riferisce a “Ryan” e si legge “Riahn” (come riso) e non “Raian”.
Inoltre, ho deciso di adottare i nome originali dei Malandrini (Prongs/Ramoso, Moony/Lunastorta, Padfoot/Felpato, Wormtail/Codaliscia) solo perché Lunastorta proprio non mi va giù XD

Non ho altro da dire. Ci tengo solo a ringraziare le persone che hanno avuto modo di aiutarmi con questa storia, cominciando con i vecchi ringraziamenti della prima versione a Trinity, Isil, Selina e mia madre, per concludere con Haro, che sta seguendo ogni lavoro io sforni, e con Squall, che continua a sopportarmi, anche se ora abbiamo litigato.

Postero a brevissimo il Capitolo I.
Un bacione a tutti,
~Ene.
   
 
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