Come avevo scritto nelle note del capitolo 8 della storia Here without you, mi frullava nella mente questa one shot sul primo incontro tra i due protagonisti e non ho potuto fare a meno di pubblicarla.
Il tutto è narrato dal punto di vista di Seung Hyun -quindi il pov è diverso da quello della long- e penso che, in un certo senso, possa aiutare a capire chi segue l'altra mia storia cosa pensa, più o meno, il nostro adorato protagonista di Le Le.
Ovviamente nelle note c'è OOC perchè TOP è un personaggio che realmente esiste e sicuramente il carattere con cui l'ho delineato non è il suo, ma credo che non ci sia nemmeno bisogno di dirvelo =)
La fanfiction, comunque, può essere letta da se, anche se, probabilmente, resterebbe a chi ha letto solo questa come un comune incontro e niente più.
Beh, che dire, se questa storia vi incuriosisce, fate un salto qui e, magari, lasciatemi un commentino, anche se negativo =)
Un bacione a todos
La vostra sognatrice LeLe_Sun
Non
ero mai stato un tipo particolarmente legato agli eventi, ne tantomeno
uno che
crede nelle cose assurde, tipo il destino, forse perché non ne avevo
mai avuto
modo o, come mi diceva sempre la mia mamma, non avevo ancora avuto atto
di
assistere a qualcosa del genere con i miei occhi.
Erano
state tante le volte in cui lei aveva speso del tempo, raccontandomi
per filo e
per segno come lei e mio padre si fossero conosciuti e come, il loro,
fosse
stato amore a prima vista, un riconoscersi a vicenda nel medesimo
istante in
cui i loro sguardi si erano incrociati. Quando ne parlava, non mi
passava
inosservata quella scintilla nei suoi occhi, probabilmente la stessa
che teneva
ancora acceso il loro amore, come se fosse il primo giorno; eppure,
quella perpetua
storia non era mai riuscita a convincermi del tutto e continuavo a
credere che
il destino fosse solamente una stupidaggine, una specie di misero
appellativo
che la gente aveva inventato per indicare le coincidenze e le
casualità, giusto
per dare un po’ di suspance e un non so che di mistico al tutto.
A
quanto pareva, le persone avevano la credenza di appellarsi a questo
“destino”
per qualunque cosa, non solo per quanto riguardava l’amore, come, ad
esempio,
arrivare primi in un negozio il giorno dei saldi, vincere alla
lotteria, ottenere
una promozione al lavoro, prendere un bel voto a scuola o incontrare
qualcuno
di speciale. Insomma, sembrava che lo facessero per abitudine più che
per una
fede vera e propria.
Per
tutti questi motivi, quindi, me ne infischiavo altamente del pensiero
comune e
vivevo la mia vita nella più tranquilla spensieratezza, badando poco o
niente a
quello che succedeva intorno a me o, perlomeno, escludendo a priori
tutte le
scemenze del credo popolare.
Ma,
quando sei sicuro che la strada che stai percorrendo sia quella giusta,
arrivato quasi alla fine del percorso troverai qualcosa che ti farà
cambiare
idea, sbattendoti davanti agli occhi quell’evidenza talmente palpabile
e
concreta, molto simile ad una scritta fluorescente ad intermittenza, da
farti
ripercorrere tutta la filosofia su cui avevi basato la tua vita e
facendoti
capire quanto questa sia stata, in realtà, lontana dalla verità.
Ed
è proprio questo che è capitato a me, quel giorno in cui ho capito, per
la
prima volta, quanto mi fossi sempre sbagliato, quanto fossi stato
stupido a voler
andare controcorrente, nonostante ci fossero milioni di testimoni a
sostenere
il contrario del mio pensiero.
Era
una mattina di marzo e pioveva a dirotto, lo scrosciare della pioggia
insisteva
a battere sui tetti delle case con violenza e gli animali erano tutti
rintanati
chissà dove, lontani dall’umidità che l’acqua aveva portato con se.
Stretto
nella mia felpa, zaino sulle spalle e ipod nelle orecchie, senza un
ombrello mi
stavo dirigendo verso la scuola, controvoglia come al solito. Non che
studiare
mi facesse schifo, per carità; me la cavavo anche piuttosto bene, avevo
più
della sufficienza in tutte le materie e non mi lamentavo, almeno da
quel punto
di vista.
Il
mio problema più grosso era la vita sociale, un qualcosa in cui mi
sentivo
negato per natura e un qualcosa che facevo solo quando ero proprio
obbligato.
Ero un tipo abbastanza unico nel suo genere, forse uno dei pochi che
odiava
fare amicizia o condividere con qualcuno dei momenti importanti.
La
verità, che se ne stava celata dietro a quell’odio per i rapporti con
le
persone, riguardava il mio aspetto. Ero un semplice ragazzino delle
medie, non
vestivo alla moda ma, poiché amavo il rap, mi piaceva imitare quegli
americani
che vedevo nei film, rinchiudendomi in felpe pesanti e jeans
larghissimi, di
qualche taglia più grande. Nessuno, comunque, aveva mai avuto da ridire
sul mio
abbigliamento.
Il
vero problema era il mio aspetto: negli ultimi tempi avevo preso
parecchio peso
e venivo più volte preso di mira dalle stupide battute di qualche
ragazzino che
mi additava per strada oppure venivo fissato come se avessi la lebbra,
visto
che in Corea la maggior parte delle persone poteva vantare di avere un
peso
invidiabile in molte parti del mondo.
Tutti
quelli che avevo conosciuto mi avevano sempre giudicato per il mio
aspetto
esteriore; molti si rifiutavano di farsi vedere in giro in mia
compagnia per
evitare di essere derisi anche loro o giudicati in qualche modo.
Nessuno si era
mai interessato a me, dimostrandomi che, nel mondo, almeno una persona
con un
cuore esisteva davvero.
Per
cui, dopo aver ricevuto numerose batoste e delusioni, mi ero limitato
ad
assumere un comportamento freddo e distaccato, non mi interessavo più
del
dovuto a qualcosa e, soprattutto, non mi affezionavo più a nessuno.
Me
ne stavo semplicemente li, a fissare da lontano quello che era il mondo
che mi
circondava, chiedendomi più e più volte perché mai ne facessi parte.
Mentre
ero intento a camminare, scorrevo la playlist dell’ipod,
quella che avevo scelto con cura e
che ascoltavo ogni giorno, imparando a memoria per filo e per segno
ogni
parola. Mi piaceva rappare, mi piaceva la musica e qualunque cosa fosse
legata
a quel mondo, quel mondo capace di distogliermi da qualsiasi pensiero
superfluo.
La
strada era deserta, cosa abbastanza rara visto l’orario, ma non ci feci
caso, anche
perché non me ne importava più di tanto. Tanto meglio per me, così non
sarei
stato costretto a salutare qualcuno controvoglia o imbattermi in
qualcuno di
indesiderato. Cominciai a canticchiare sulle parole della canzone,
tirando un sospiro.
Ero zuppo ma non me ne importava; lasciavo che la pioggia e la musica
si
portassero via un po’ di quelle sofferenze provate, un po’ alla volta.
Cercavo
la tranquillità, quella mi sarebbe bastata per sempre.
Quando
però svoltai l’angolo, non potei fare a meno di notare un gruppetto di
ragazzini che intralciava la strada –più che strada, era un viottolo
che avevo
preso per arrivare prima-. Si sentivano delle risate e tutti sembravano
chini
su qualcosa che non riuscivo ad identificare, viste le troppe persone
che gli
stavano intorno.
Sbuffai,
chiedendomi ironicamente come mai quei marmocchi fossero capitati
proprio sulla
mia strada, di mattina presto e sotto la pioggia, dei ragazzini che non
dimostravano più di dieci anni, dei teppistelli di strada ai quali
piaceva
divertirsi anche a costo di prendersi un malanno. Ma cosa facevano i
genitori
invece di interessarsi dei figli?
Avanzai,
non cambiando minimamente la velocità del mio passo, per nulla
intenzionato a
fermarmi a controllare la situazione. Dal canto mio, credevo che quei
tipetti
strani stessero sicuramente torturando un gatto o un animale generico,
divertendosi a stuzzicare la povera bestia solo per puro divertimento.
Ed io,
che di divertirmi proprio non avevo voglia, proprio come non avevo
voglia di
fermarmi e sgridarli, perdendo il mio prezioso tempo a farfugliare
inutili
ramanzine sui doveri di un bravo bambino, accelerai il passo, deciso ad
allontanarmi da quella marmaglia il prima possibile.
Ma,
appena fui più vicino, non potei fare a meno di notare chi stessero, in
realtà,
torturando quei mocciosi. Accovacciata per terra con le mani sul viso,
i
capelli ricci bagnati attaccati addosso, c’era una bambina che, a
giudicare dal
tremore del corpo, sembrava stesse piangendo. Era fradicia, il vestito
chiaro
che indossava era macchiato dalla polvere e dalla terra che si era
mischiata
all’acqua, e rischiava seriamente di prendersi un malanno.
Fu
questione di qualche secondo e mi ritrovai a mettere l’ipod in pausa,
cercando
di ascoltare ciò che le stavano dicendo.
-Sei strana! Da quale
paese vieni? Non sei
coreana!- stava dicendo uno di quelli, torturando con l’indice la
spalla
della bambina per terra che non accennava a togliere le mani dal viso.
-Parli anche in modo
strano! Se non sai il
coreano, perché sei qui?- aggiunse un altro, alzando il tono.
-Non lo sai che si porta
rispetto ai bambini
più grandi? Sei una maleducata!- intervenne il terzo, decisamente
arrabbiato.
Eppure,
lei continuava a starsene lì, senza proferire parola. O meglio, senza
proferire
alcuna parola che io e, tantomeno quei marmocchi, potessimo capire. La
bambina,
infatti, stava parlando, molto probabilmente stava anche tentando di
fornire
una spiegazione a quei ragazzini, ma in una lingua che non conoscevo.
Evidentemente, era vero che fosse straniera.
-Piccola cretina! Vuoi
rispondere o devo
darti una lezione?-
Il
quarto era furioso e, avvicinatosi pericolosamente a lei, alzò la mano,
pronto
per picchiarla.
E,
come se le mie gambe si fossero mosse da sole, mi ritrovai ad avanzare,
bloccando il braccio di quel marmocchio con la mia mano.
Il
gruppetto intero si fermò a fissarmi, gli sguardi arrabbiati si
tramutarono in
sguardi perplessi e, poi, intimoriti.
-Suppongo che i vostri
maestri non sappiano
che siete qui… dovrei avvertirli- dissi in tono che li spaventò ancora
di
più. –Per di più sotto la pioggia, in
sei ad infastidire una bambina… già, dovrei decisamente avvertirli-
continuai,
come se davvero avessi avuto l’intenzione di farlo.
Il
ragazzino al quale avevo afferrato la mano la ritirò, facendo un segno
agli altri
che, immediatamente, si dileguarono.
Scossi
la testa. I teppisti si riconoscevano fin da piccoli, a quanto pareva.
Appena
fui sicuro che fossero scomparsi anche dall’orizzonte, mi voltai verso
la
povera innocente che era dietro di me, giusto per accertarmi che non
avesse
nulla di grave.
Due
paia di occhi verdi mi guardavano con curiosità e non accennavano
minimamente a
volersi spostare su qualche altro soggetto nei dintorni che fosse
diverso da
me. Erano talmente chiari da far impressione, simili all’acqua del mare
quando
è trasparente e cristallina, ma così innocenti da farmi venire i
brividi.
Li
vidi sparire per un millisecondo dietro quelle palpebre così diverse
dalle mie,
quelle palpebre di un mondo lontano che ogni coreano aveva il desiderio
di
visitare almeno una volta nella vita.
La
pioggia aveva smesso di cadere e le nuvole si erano aperte, lasciando
filtrare
i raggi del sole che, fino a quel momento, era rimasto nascosto.
Ora
potevo notare meglio il colore dei suoi capelli, un oro reso scuro da
tutta l’acqua
che li aveva bagnati, le minuscole lentiggini sul viso ovale e le
labbra rosa,
che si erano aperte in un sorriso, rivelando una schiera di denti
bianchi.
Quel
sorriso era di pura riconoscenza, così tremendamente dolce e sincero.
Anche
lei, come gli altri, doveva avere su per giù dieci anni, forse meno.
Inizialmente
me ne rimasi in silenzio, non sapevo cosa dire visto che non mi ero mai
trovato
in una situazione del genere. Ma, lasciandomi di stucco, fu lei a
rompere il
silenzio.
-Grazie oppa-
Due
parole semplici ma ricchissime di sentimento, che mi colpirono nel
profondo.
Nessuno mi aveva mai parlato con quel tono e, in quel momento, provai
una
strana gioia. Certo, il suo accento era strano e se non fossi stato
attento,
probabilmente non avrei capito cosa stava dicendo, ma lei fui grato per
quel
ringraziamento così tanto sentito da farlo arrivare con un messaggio
conciso
fin dentro al cuore.
Mi
ritrovai a sorridere e a prenderle la mano, aiutandola a rialzarsi. Lei
continuava
a fissarmi gentile, senza quel disprezzo con cui di solito la gente mi
additava.
Forse
fu per questo che le parole uscirono dalle mie labbra, senza
esitazioni. -Sai il coreano? – le domandai,
vedendola fare un cenno di assenso. –Lo
so parlare, ma prima avevo paura e così parlavo in italiano- la sentii
spiegare, come se fosse il motivo più banale del mondo. E mi ritrovai a
sorridere, seriamente divertito dalla domanda cretina che avevo appena
fatto.
Tutti, quando hanno paura, tendono a farfugliare nella loro
madrelingua,
ovunque si trovino.
–Come ti chiami piccola?-
chiesi poi,
abbassandomi un po’ per arrivare a guardarla in viso. Mi disse un nome
strano
che faticai a capire, per di più lunghissimo. Non me lo sarei ricordato
neanche
se me lo fossi scritto, quindi pensai velocemente a un soprannome che
potesse
sostituirlo.
-Ti dispiace se ti chiamo
Le Le? E’ più
facile per me- mi giustificai, grattandomi la nuca. Avevo paura di
offenderla a dire la verità ma lei sembrò, al contrario, entusiasta di
quel
nome che le avevo dato.
-No oppa, mi piace!- esultò con la sua
vocetta.
-Mi chiamo Seung Hyun-
dissi il mio nome
come se volessi correggerla, anche se non mi dispiaceva affatto che mi
chiamasse oppa.
-Allora sei Seung Hyun
oppa!- rise lei
di nuovo, stringendomi la mano. Per qualche strano motivo mi sentii
bene,
quella bambina mi stava simpatica e parlare con lei non era fastidioso
ne
difficile; anzi, mi veniva naturale, come se la sua allegria e la sua
gentilezza
mi mettessero a mio agio senza che io me ne accorgessi.
Mi
ritrovai a sorridere di nuovo e strinsi la sua mano. –Sarà meglio che
ti accompagni a casa ora… dove abiti?- le domandai,
iniziando a camminare nella direzione indicatami.
Non
avevo mai parlato così tanto e, per di più, con una bambina di quattro
anni più
piccola, che sembrava essere anche lei a suo agio, sfoderando ogni
secondo quel
suo sorriso innocente e coinvolgente, un sorriso al quale non si poteva
resistere. Sembrava quasi come se fosse un angelo sceso dal cielo, un
qualcuno
che avesse il compito di riportarmi alla realtà, un qualcuno che poteva
insegnarmi per la prima volta qualcosa, senza farmelo pesare così
tanto.
Un
qualcuno che, evidentemente, era stato il destino a mettere sulla mia
strada,
quella mattina di marzo e per tutta la vita.