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Autore: lalla    03/08/2004    4 recensioni
Niente a che vedere con il cartoon di Disney! Ma anche qui, in chiave drammatica, una Bella e una Bestia si incontrano e...
Genere: Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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LA BELLA E LA BESTIA

 

La   diligenza s'era lasciata dietro le cupole antiche   di Cracovia, le strade brulicanti di studenti e di gendarmi baffuti e accigliati, e poi i campi coltivati, i boschi. I cavalli erano stanchi, nonostante l'ultimo cambio appena effettuato alla stazione di posta. L'autunno batteva alle porte e il loro fiato era una nuvola di vapore, bianca come il latte.

Il paese: contadini, era giorno di mercato, quello, con ceste piene di uova al braccio e pollastri che si dibattevano, appesi per i piedi; mandrie di vacche pezzate dagli sguardi placidi, il vecchio prete sul sagrato, il mendicante ubriaco all'angolo...E il volto di Magda   inquadrato   nella   cornice   nera   e   tarlata   della finestra, pallido e quasi accigliato sotto il riflesso scialbo dei capelli troppo fini e troppo biondi. Magda: la sua spina nel cuore.

Ventisei anni, ormai. Chi l'avrebbe voluta? Magda la sciancata, come la chiamavano i monelli di strada. Che ne sarebbe stato di lei, ora?Jaceck     si     sentì     stringere     il     cuore: la ricordava, bambina, corrergli incontro quando tornava. Ljuba era viva   e gli affari andavano bene, allora. Quanto   tempo   era passato? Un secolo? Un attimo? L'eternità? Sì, un'eternità che gli aveva cosparso di neve i capelli, di solchi profondi la faccia, di veglie le notti. Una lunga, interminabile notte durante la quale Ljuba era morta dando alla luce la piccola Lenka e portandogli via la voglia di vivere; gli affari avevano preso ad andar male e Magda si era ammalata alle gambe. Povera bambina, non si era   più riavuta e, da allora, per camminare era costretta a trascinarsi appoggiata a un bastone. Magda e il suo pianoforte, l'unico compagno a consolare la sua cupa solitudine di storpia. Che ne sarebbe stato di lei? Chi l'avrebbe voluta, a ventisei anni, e zoppa per giunta? E intanto il tempo passava, scemavano le forze e crescevano i debiti: un altro inverno freddo bussava alle porte.

Ci sarebbe stata meno legna al fuoco, e cavoli e patate invece che buona carne di montone. Quando avrebbe potuto comprare una pelliccia nuova alla piccola Lenka? E il corredo per Jadwiga, che in primavera sarebbe andata sposa? Jadwiga, scura e sottile come un'ebrea, gli occhi vivaci da zingara. Non rassomigliava alle sorelle. Ed era l'unica che non fingesse di non aver capito: non le aveva promesso amore, il Barone, né a lei era importato qualcosa dei suoi cinquant'anni passati e della sua bruttezza: un nome, un titolo e le sue ricchezze erano un prezzo sufficiente per rinunciare ai sogni, anche a vent'anni. Forse era giusto così. E Jaceck sarebbe invecchiato con un rimorso in meno, nell'antico palazzo sempre più tetro e spoglio, nel ricordo di un passato felice ma lontano quanto la luna, in compagnia di una storpia e di una bambina alle quali non era stato capace di assicurare un avvenire migliore di quello.

*

Era stato il pensiero delle figlie a fermargli la mano ogni volta che quell'idea gli era balenata in mente mentre puliva la sua vecchia pistola. La morte sarebbe arrivata istantaneamente, senza lasciargli   il   tempo di   sentire   dolore. Poi, il   nulla. Non l'inferno, come sosteneva il vecchio parroco nei suoi sermoni. L'inferno è in terra, è una casa grande e vuota, un focolare senza   legna, è   zuppa di patate e cavolo in   ciotole   di terraglia. Sono gli altri che ridono di te, sono le tue figlie senza futuro. Meglio addormentarsi per sempre, prima che gli altri sappiano del tuo disonore. Ma aveva tre ragazze a cui pensare.

Magda,al solito,gli era corsa incontro trascinando i piedi, con un sorriso che era una smorfia stampato sulla faccetta bianca e avvizzita. "Sei un fallito.” Sembrava   dirgli   ogni volta che gli piantava in faccia le sue pupille sbiadite. “E’ solo colpa tua se sono ridotta così; se non avessi gettato via il tuo denaro in speculazioni sbagliate, agli uomini non sarebbe importato nulla delle mie povere gambe…” Avrebbe pensato anche a Jadwiga, che non sorrideva più, malgrado il meraviglioso zaffiro indiano che le luceva all’anulare. Era grasso e vecchio, il Barone: fossero stati ricchi come qualche anno prima, Jadwiga si sarebbe potuta permettere di ridergli in faccia, invece…

Solo   la piccola Lenka gli era corsa incontro, avvolta nel suo cappottino rosso striminzito e logoro, bordato da una pelliccetta bianca tarlata. La sua bambina. A diciassette anni, Lenka era il ritratto parlante della povera Ljuba, bionda e delicata come lei, e altrettanto dolce e gentile. Gli era stato difficile perdonarle d’aver portato via la sua sposa adorata, venendo al mondo. Quante volte glielo aveva fatto pesare, povera creatura. Ma lei era un angelo,e aveva sempre finto di non accorgersene. E aveva sempre atteso con gioia i suoi ritorni, senza i rimproveri muti delle sorelle, anche se si sapeva destinata, per causa sua, a una vita di solitudine come Magda, o a un matrimonio d’interesse, come Jadwiga.

Jaceck ripose la    pistola nella custodia, alzò gli occhi al grande quadro che campeggiava sulla tappezzeria logora del salone: gli occhi azzurri, i lunghi capelli biondi di Ljuba, immortalati per sempre sulla tela. Il suo sorriso timido,contro il quale nulla avrebbero potuto né il tempo né la morte. No, la maestria di nessun artista avrebbe potuto rendergli colei che era stata la pupilla dei suoi occhi e che adesso non c’era più. Ma quel quadro, opera di un famoso pittore italiano, valeva parecchio. E la miseria bussava all’uscio, sempre più   forte. Avesse   trovato il   coraggio   di venderlo, ne avrebbe ricavato abbastanza da chiudere la bocca a Isaac, lo strozzino di Cracovia.

Sarebbe partito l ‘indomani stesso, all’alba, senza salutare nessuno. E sarebbe ritornato di lì a qualche giorno, recando nella borsa appesa alla sella qualche soldo sufficiente a comprare provviste di legna e porco salato per l’inverno e i poveri doni che le figlie gli avevano chiesto: spartiti musicali per Magda, qualche nastro di seta per il corredo di Jadwiga e una pianticella di rose bianche per Lenka.

*

Magda, che   come al solito spiava il suo ritorno affacciata alla finestra, chissà cos'avrebbe pensato, vedendo il cavallo, un bel cavallo nero dal mantello lustro, in luogo del solito   ronzino, e la bella cappa svolazzante, tutta bordata di soffice volpe rossa, che lo riparava dal freddo. E quando avrebbero aperto le borse...Monete, e pezzi d’oro. Tanti spartiti per Magda e un bel soprabito nuovo per non aver freddo quando, la domenica, si sarebbe recata alla Messa. Trine di Fiandra per il velo da sposa di Jadwiga. Una pelliccia d’agnello, morbida e calda,per la piccola Lenka. Forse, avrebbero pensato, la ruota della fortuna aveva ripreso a girare per il verso giusto. “No,Magda,non è così:sapessi quanto mi costa sforzarmi per non piangere…Una cosa è certa:ho sempre cercato nient’altro che la vostra felicità, figliole. Ma sapessi, piccola Lenka, il prezzo che mi costa questo incredibile bocciolo di rosa che ho colto, alle soglie dell’inverno, in un giardino stregato.”

Si gettò   calzato e vestito com’era sul letto, dopo   aver rifiutato la cena.  Ma il sonno, anche qualora fosse venuto, non gli avrebbe portato riposo.

Ripensò al bosco flagellato dalla tramontana, alle gambe del cavallo che si piegavano, cedendo all’età e alla stanchezza, mentre la bocca gli si riempiva di bava sanguinolenta: povera bestia. Era calata la notte: stridio di gufi, ululi di lupi, nel bosco. Forse non l’aveva poi desiderata come credeva,la morte.Non quella,almeno, senza il conforto di chi ti è caro a stringerti la mano, senza una tomba su cui qualcuno avrebbe pianto. Aveva arrancato per ore in mezzo a quelle ombre, in compagnia della sua paura. Un lume brillava in lontananza: le rovine di un vecchio castello su cui si diceva pesasse una maledizione. Ma lui non aveva mai creduto alle favole dei vecchi e degli zingari: gli spettri nessuno li ha mai visti,i lupi dalle fauci bavose e dalle zanne scoperte, sì. Aveva arrancato in salita fino a sentire il cuore scoppiargli, fino a che gli occhi s’erano velati.

Si era risvegliato in un comodo letto, tra lenzuola ricamate e soffici coperte di pelliccia: lo attendevano un buon bagno caldo, un’abbondante colazione servita in stoviglie di porcellana, abiti caldi e puliti. E la sorpresa, sul comodino, di un sacchetto d’oro e di una lettera che aveva letto d’un fiato.

“L’amore di una donna mi è precluso, ma nessuno potrà mai impedirmi di sognare. Vi ho udito, nel delirio, parlare di un quadro che desideravate vendere: il ritratto della vostra sposa defunta. Immagino quanto vi sia caro e come solo la necessità vi spinga a privarvene. Nessun mercante ve lo pagherebbe più di quanto ve lo paghi io: ma i sogni non hanno prezzo.”

“Dove sono? “si era chiesto. In una stanza ovattata e silenziosa, arredata con suppellettili di gran pregio; affacciatosi alla finestra, aveva spalancato gli occhi su un incredibile giardino. Tante rose bianche. Si era ricordato della promessa fatta alla piccola Lenka, era uscito nel freddo pungente del mattino. Quanto aveva dormito? Freddo e rose in boccio. Incredibile.    Aveva    allungato una mano, piegato   uno   stelo sottile. Si era punto un dito.

“Maledetto, ricambi   così la mia ospitalità?” Un tremito violento lo aveva scosso al suono di quella voce aspra e adirata. Colui che gli   stava davanti, doveva essere il castellano: un uomo snello, di media statura , completamente avvolto da un lungo mantello nero. Le mani erano guantate, il viso nascosto alla vista da una maschera d’oro che ricordava le fattezze grifagne di un uccello da preda. Forse non erano favole, quelle che gli zingari si raccontavano durante i bivacchi, o quelle con cui i vecchi solevano spaventare i monelli, nelle veglie d’inverno.

“Perdonatemi, non volevo…” “Perdonarti? Non so che cosa sia, il perdono: voglio la tua vita.” “La mia vita? Per una rosa? Mia figlia desiderava tanto una pianticella di rose bianche.”

“Allora…L’amore di tua figlia in cambio della tua vita: in fin dei conti, sono stati i suoi capricci a metterti nei guai.”

Anche il silenzio ha una voce: una voce capace perfino di urlare. Attraverso le fessure oblique della maschera, gli occhi verdi del castellano si erano accesi come quelli di un gatto nella   profondità   delle   tenebre. Poi la   maschera   era   rotolata   per terra. No,povera piccola Lenka. Meglio che fosse morto    lui. Era caduto in ginocchio, la testa tra le mani. Sì, meglio, mille volte meglio che fosse morto lui,si disse, rivoltandosi tra le coperte di pelliccia. A Lenka non avrebbe detto nulla, anche se il pensiero di chissà   quale terribile fine quel mostro volesse riservargli, gli gelava nelle vene il sangue.

La bottiglia della vodka era lì, sul comodino,mezza piena, a promettergli il conforto che nessuna parola avrebbe potuto garantirgli. “Non sei molto migliore del mendicante all’angolo della chiesa, vecchio Jaceck.” Si disse da sé solo. Ma che   importanza   poteva avere, ubriacarsi   alla   vigilia    della      propria   esecuzione capitale? Contava solo che nessuno    ne   sapesse nulla. Lenka, poi, men che meno.

*

Vodka e segreti non vanno d'accordo, da che il mondo è mondo.

Lenka l’  aveva visto strano,la sera del ritorno: che si sentisse poco bene?  Premurosa, si recò nella sua stanza per accertarlo,  e lo trovò ben   peggio di come credesse: in uno stato da   far   pietà, ubriaco fradicio. Avrebbe voluto piangere, umiliata da quello spettacolo degradante, ma si fece forza. Gli scaldò una tisana, gli rimboccò le coperte del letto.E lo ascoltò rivelare, tra i fumi dell'alcol, quel segreto che   avrebbe voluto tenere per sé. Ora Lenka sapeva. Qualcuno, al castello,voleva la vita del babbo in cambio della sua felicità.

 

Lenka   non esitò un solo istante: il grosso cavallo del padre non era il mite pony biondo della sua infanzia, nel bosco c'erano i lupi e al castello...Ma che importava?

Se il   freddo ha un odore, era quello che le portava il vento del nord. Se ha un colore,era quello del cielo,gravido di nuvole cupe. Alcuni zingari avevano ammazzato un montone, sulla piazza, e i cani randagi, attorno, si disputavano brandelli di viscere sanguinolente.                         

Il cavallo   nero era docile come un agnello, e veloce come il vento di tramontana. Sapeva la strada, conosceva il cammino. Un cammino che relegava nel passato la piazza, la carcassa del montone macellato, le mani insanguinate degli zingari, i brutti musi dei cani randagi dalle costole sporgenti e dai mantelli rognosi, il muschio verde tra i mattoni rossi. La nebbia inghiottì presto tutto. Avrebbe mai più rivisto   il suo paese? Eppure,strano, non c'era angoscia nei suoi   pensieri, quasi che i ricordi e le paure si fossero dileguati   nel morire lento del giorno, nell'orizzonte vasto dei campi di segale, che ben presto diventò intrico selvaggio di rami. E, laggiù, in fondo, quel chiarore, lucciola che diventava stella fredda, mentre gli zoccoli del cavallo divoravano il terreno. Era come l'occhio di un padrone onnipotente, quel chiarore lontano, freddo e ignoto. Non c'erano elfi, non c'erano fate, nel bosco. Solo l'urlare dei lupi e il lamento delle civette.

*

Era    bella e dolce, proprio come aveva immaginato. E certamente buona, se era stata capace di sacrificare in quel modo la sua felicità. La odiò, per questo: bellezza,amore. Cos'erano per un uomo che da anni se ne stava nascosto    agli    occhi    del   mondo, in   un   luogo    che    la    gente diceva, giustamente, maledetto? Cos' era la bellezza per una creatura che, come i vampiri, aveva costretto gli specchi a non riflettere la sua immagine? Cos'era la bontà per lui che, al crepuscolo, strisciava fuori dalle mura della sua prigione e, con gli artigli unghiuti che aveva al    posto    delle mani, sgozzava qualche animale per nutrirsi della sua carne ancora calda di sangue?

Ma la bellezza di Lenka avrebbe intenerito il cuore più duro, anche quello di un mostro. E,non fosse bastata la semplice bellezza, cosa non avrebbero potuto, il suo coraggio e la sua dignità? Non piangeva, non implorava. Che strano, una ragazzina come quella.

"Non intendo   farvi alcun male, mia signora. Non vi mancherà niente,  sarete trattata come una regina. E, se lo vorrete..."

Che cosa stava per dirle? L'avrebbe persa,se avesse continuato a parlare. E la solitudine   gli sarebbe pesata addosso ancora di   più, dopo. Abbassò   gli occhi, reclinò sul petto la testa nascosta dalla maschera d'oro.

*

Forse, varcata la soglia del castello maledetto, aveva pensato che il tempo, là dentro,non sarebbe trascorso tanto piacevolmente: di certo, anzi, si sarebbe confuso con l'eternità, ma che importava?Aveva accettato consapevolmente il suo sacrificio. E, forse era stato un miracolo, non era accaduto nulla di ciò che temeva. Non le mancava niente, al castello:non aveva dovuto rinunciare a consuetudini care, misteriosi valletti silenziosi come ombre le servivano cibi squisiti, le sellavano i più bei destrieri per lunghe cavalcate nel parco, le facevano trovare, nel guardaroba, abiti sempre nuovi e bellissimi, negli scrigni gioielli rari con cui adornarsi. Lenka amava leggere e la fornitissima biblioteca del castello era a sua completa disposizione. Amava ricamare. Amava suonare il piano e dipingere acquerelli. Spesso, mentre suonava o dipingeva, sentiva scivolare silenzioso, dietro di lei, il castellano. E sentiva di vivere per quei momenti. Le piaceva giocare a scacchi, commentare con lui l'ultimo libro letto, ragionare d'arte, di musica,di vita. Il castellano era un ospite squisito: cortese, istruito, intelligente.

Ecco perché   quei piccoli brividi, quando si trovava a pensare a quell'uomo senza un volto, senza un'età,senza una storia né un nome, così diverso dai bei ragazzi del paese, per i quali il suo cuore di giovinetta aveva palpitato. Non conosceva che i suoi occhi e i suoi capelli, e non immaginava perché si nascondesse dietro quella maschera. Un incidente o una malattia potevano avergli sfregiato il viso. Non l’età, poiché la sua figura aitante era quella di un giovane soldato abituato alla vita dura degli accampamenti, di un cacciatore di lupi tanto coraggioso quanto selvaggio. Desiderio. Lenka adesso capiva in pieno il senso di quella parola misteriosa, vagamente sconveniente,udita tante volte mormorare a mezza voce dalle amiche più grandi. Lui la guardava,certamente sorrideva, dietro il paravento d'oro di quella maschera da sparviero. E i suoi occhi, attraverso le fessure strette, avevano bagliori ora d'acciaio, ora di smeraldo. Che fosse quello, l'amore?

*

Lenka sapeva che il sonno manda spesso strani avvertimenti: suo padre stava male, se lo sentiva in cuore,e quel sogno...Non sarebbe stato giusto lasciargli chiudere gli occhi con un peso grande come il mondo sul cuore.

"I sogni sono soltanto sogni."Le aveva detto il castellano. Che avrebbe fatto,se lui non l'avesse lasciata partire?Avrebbe pianto,avrebbe implorato, gli avrebbe promesso che sarebbe tornata, dopo, per restare sempre insieme.

Ma come   pretendere che potesse comprenderla! Oltre il giardino incantato, per lui, oltre quel mondo di sogni che lo difendeva come una corazza,che cosa c'era? La foresta, i lupi.E la curiosità malevola della gente, una vita impossibile.

"Qui   non vi   manca nulla..." La sua voce si era incrinata. E la mano che, lieve, si era posata sulla spalla di Lenka, tremava. Si voltò,il castellano trasalì: quale altro orrore che non avrebbe voluto mostrarle l’aveva costretta a guardare? Le zampe   unghiute di un animale predatore? No, solo la mano di un uomo. Gli artigli erano scomparsi: l'aveva amata dal primo momento e l'amore gli era cresciuto dentro giorno dopo giorno,come una malattia. Ma l'amore non può albergare nel cuore di una creatura feroce. Adesso che le sue erano mani di uomo e non grinfie di bestia, non poteva più cacciare e la sua sopravvivenza dipendeva    dalla   presenza di Lenka. Se   l'avesse   perduta, sarebbe   morto: lo sapeva. Tuttavia che diritto aveva di tenerla prigioniera contro la sua volontà? Si sentì invadere da una grande amarezza.

"Vai, se vuoi sei libera di non tornare. Ti ho amata e non ne avevo ìl diritto: è giusto che muoia."

"Non dire così: tornerò, lo giuro."

Il castellano si strappò dal viso la maschera,la gettò a terra.

"Guardami: sei   ancora dello   stesso parere?"

Lenka abbassò lo sguardo: era quella spaventosa creatura, colui di cui aveva atteso con ansia i ritorni? Occhi che sembravano tizzoni ardenti, una cosa a metà tra un essere umano e un lupo.Un povero infelice, la cui vita Lenka sapeva di poter stringere in pugno.

“Ritornerò.”

“Non ho   il diritto di pretenderlo. Ti aspetterò solo sette giorni e poi mi lascerò morire senza maledirti, perché ti amo e desidero soltanto che tu sia felice.”

*

Il dolore era stato come una malattia, dapprima. Acuto, lancinante. E penoso, per le bugie che la necessità di dover chiudere la bocca alla gente li aveva costretti ad inventare.

Poi, com'è logico, lo scalpore s'era pian piano spento, senza che la ferita del vecchio Jaceck si rimarginasse, e il cuore s'era fatto ghiaccio. Perché,si domandava, il dolore non l'aveva schiantato subito, invece   di   lasciarlo in pasto ai   rimorsi, relitto   d'uomo   che vegeta, anziché vivere?

*

Era   la mattina di Pasqua, quando Lenka tornò: la gente stava andando alla Messa.

Chi   li aveva mai visti, in paese, dei cavalli più belli, una carrozza più elegante, una dama più nobile di quella? Era davvero la piccolina del vecchio Jaceck, con le trecce e le lentiggini sul naso? La piccola Lenka dagli stivali consumati e dalla pelliccetta   logora? Era corsa voce di una   zia   di Varsavia, molto ricca e molto malata…Ma i più maliziosi avevano sussurrato della fuga con un misterioso signore. Chissà come mai era tornata, dopo aver gettato l’onta sui suoi, e ricca come una principessa...

*

Era   bastato stringerla tra le braccia, perché il calore della vita gli rifluisse al cuore e gli occhi tornassero a sorridere. Anche se Lenka non era tornata per restare: al castello, disse, era felice.

Felice    con   un mostro? Avevano pensato la   stessa   cosa, nello   stesso istante, Jadwiga e Magda. Felice con un mostro? Certo, la copriva d'oro e la trattava come una regina! Era possibile che fosse felice. Più di me, pensava Jadwiga, che vivo confinata in una tenuta in campagna, accanto ad un uomo che non ho mai amato. Più di me, pensava Magda, che sono costretta a dar lezioni di pianoforte   e di francese per sbarcare il lunario. Perché lei, che venendo al mondo aveva portato solo lacrime e dolore, doveva essere più fortunata di loro? Non c'è giustizia,nel destino.

Sette giorni: ne fosse trascorso anche uno soltanto   di   più, probabilmente lui non l'avrebbe più voluta.

Che   sia egoismo, il nostro? Noo! Il babbo non reggerebbe a   un   altro abbandono. E poi, Dio mio, che destino le si prepara? Che razza di vita è e sarà, la sua? Come si può ricambiare l'amore di un mostro? Era anche per il suo bene, che doveva perderlo. Bisognava riempire di scampagnate e feste da ballo quei sette giorni di libertà che il mostro le aveva concesso, bisognava fare in modo che conoscesse qualche bel giovane. E,dopo, le avrebbe sicuramente ringraziate.

*

Si    chiamava   Ivan, e aveva lo sguardo   sfrontato   dei vent'anni. Ballava a meraviglia il valzer, e come gli donava la divisa azzurra e oro degli Ussari!

Da tre giorni la corteggiava con discrezione, facendole recapitare bigliettini profumati e grandi mazzi di rose bianche, le sue preferite. Jadwiga si era premurata di farle sapere che il suo cuore era libero e che nelle sue vene scorreva il sangue   della più illustre    famiglia   di Polonia. Lenka   era   si sentiva lusingata   da tutte quelle attenzioni: era così bello, stare tra le sue braccia, nei volteggi leggeri del valzer, con quella musica che entrava nell'anima e la luce di mille candele.

Fuori   dal salone,una languida luna inargentava il giardino. La mano di lui nella sua, unvago tremore che non era freddo e che divenne lungo brivido,quando   sentì   le labbra di Ivan sfiorare le   sue...Attimi   lunghi un'eternità, o non piuttosto l'eternità lunga un attimo?

Un cirro sfilacciato attraversava adesso il disco della luna. Un velo dallo strano riflesso rosso, come di sangue: gli attimi, l'eternità erano durati otto giorni. E al castello, forse...Forse era troppo tardi.

*

Aveva    corso per i campi e per i boschi al lume della luna, col cuore che sembrava volesse schiantarsi da un momento all'altro, coi rovi che le strappavano la gonna e le graffiavano le gambe. Nella sua immaginazione,le sembrava di sentirlo gemere. O era solo il vento? Se lui fosse morto, non se lo sarebbe mai perdonato. Otto giorni, e stava per sorgere l'alba del nono. Quello che le portava il vento,era il pianto della sua solitudine disperata, il gemito della sua vita che si spegneva in un'agonia senza conforto? Forse era solo il miagolio di un gufo, il richiamo di un vecchio lupo solitario, il lamento di una preda assalita.

Quanto   aveva corso, la gola arsa, le gambe che si piegavano per la fatica, il cuore gonfio di ansia, di dolore, di paura?

Il lume, in lontananza, era fioco come l'agonia di una stella lontana, mentre il cielo si tingeva di rosso.

Dov'era il castello? C'era mai stato? E il giardino con le rose? Forse aveva immaginato tutto, in un lungo sogno angoscioso. Forse non c'era niente di reale, nella terribile avventura che stava vivendo. Ivan poteva salvarla,solo lui. L'avrebbe salvata? Nelle fiabe succedeva.

Un lungo rantolo roco la fece sussultare: lui era lì, giaceva accanto al rovo sul quale chissà quale incantesimo aveva acceso il miracolo di una rigogliosa fioritura di boccioli bianchi. Il suo sguardo era spento e un filo di sangue gli colava dalle labbra. Non era stato un sogno, minacciava di diventare un incubo. Stava morendo, ed era tutta colpa sua.

Che altro poteva fare, se   non gettarsi su di lui e piangere tutte le sue più amare lacrime? Che altro poteva fare se non coprire di baci il suo volto che, chissà   come mai, adesso le sembrava molto meno   brutto? Chiuse   gli occhi, sentì la pelle aspra del viso di lui sulla guancia delicata. E,quando li riaprì,non lo vide    più,attraverso il velo delle lacrime. Il mostro era scomparso: l'uomo che la teneva tra le braccia aveva ritrovato il suo vero volto. L’ amore aveva vinto la tenebra della notte, aveva trionfato sull'incantesimo.

                                                    

 

 

                                    

 

                                    

 

                                    

 

 

 

 

 

 

 

 

                                   

 

                               

 

                             

 

   
 
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