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Autore: Sidney Rotten    08/02/2013    1 recensioni
Osservo ogni centimetro di questa pelle diafana e pallida, i miei occhi seguono una rotta sconosciuta, viaggiando in una costellazione di imperfezioni, di cui non posso far altro che innamorarmi perdutamente.
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ho giusto il tempo di finire la sigaretta, che suona anche il mio telefono. E’ Phe. «Ehi, Jimmy» ha il fiatone «Vieni qui, per favore. Siamo nella stanza 112». Sto per chiedere cosa succede, ma lui mi interrompe «Trova dell’eroina». Chiude la telefonata. Non capisco subito cosa intenda, poi metto insieme i pezzi. Sono cinque giorni che Sam non tocca la droga. E’ in crisi d’astinenza. Prendo il portafoglio, ci guardo dentro e vado. Arrivo dal pusher, Eric credo, e gli chiedo una dose, che mi costa 50£, con le quali avrei dovuro farci la spesa. Fanculo-penso. Corro a perdifiato fino alla comune, entro e mi devo fermare un attimo. “-Dove ti posso trovare? -Alla comune in Camden”. Le parole di Hope mi risuonano nelle orecchie. Un amico che sta male. Dannazione. Sam che sta male, nella stessa comune. Poi mi balena nella mente Phe, che mi racconta di sua sorella, una certa Hope. Cazzo, Hope è la sorella di Phe, il quale vive con il mio migliore amico. Qualche passo e la rivedrò. Merda. Mi viene una nausea improvvisa, mi si stringe lo stomaco. Respiro a fondo e mi calmo un po’, poi percorro a grandi falcate il corridoio, fino ad arrivare davanti ad una porta con il numero centododici segnato sopra. Prima di bussare mi assicuro di non essere troppo agitato. Un altro lungo respiro e appoggio le nocche al legno. Qualche secondo di silenzio, la maniglia scatta in basso e la porta si apre cigolando.
Mi ritrovo davanti Hope, come immaginavo. Avvampa all’istante. Panico da entrambi i fronti. Provo a sorridere, ma è un ghigno lo so. Balbettando, la ragazza mi indica Samuel, coricato su un letto. Chino su di lui c’è Federico, che alza gli occhi su di me e, senza parlare, mi chiede se ho la droga. Annuisco leggermente.  Rannicchiata in un canto, c’è una ragazza; è bassa, minuta, con i capelli corti biondi, rasati da ambo i lati. Sta piangendo, scossa dai singhiozzi, tiene le gambe piegate sul petto. Cerco di non farci caso; probabilmente è Beth, la ragazza di Sam. Mi avvicino al letto e Phe si sposta. Tiro fuori dalla tasca una siringa e un laccio emostatico. Intuendo cosa sto per fare, Hope, che non ha staccato un attimo gli occhi da me, prende la ragazza che sta piangendo per le spalle e la porta fuori dalla stanza. Tiro fuori dalle coperte il braccio destro di Sam, e lego il laccio di gommapoco sopra il gomito. Picchietto leggermente sull’interno del gomito e presto cominciano a vedersi sempre di più le vene. Ce n’è una, centrale, poco più grande delle altre. Prendo la siringa, raccolgo tutto il mio coraggio e, con un movimento rapido, buco la pelle e premo, finchè tutto il liquido non finisce nella sua vena. Quando estraggo l’ago, esce una piccola goccia di sangue, che pulisco cn un lembo della coperta stesa sul letto. Mi tirò su e la testa prende a girarmi. Non è la prima volta che lo faccio, ma ogni volta è orrendo. «E’ tutto okay?» mi chiede Federico, con un filo di voce. Annuisco, poi lo saluto, dicendogli che ho delle cose da fare, prendo la porta e esco.  Scappo, letteralmente; torno a casa e mi faccio una lunga doccia. Sto per più di mezz’ora sotto il getto bollente dell’acqua. Avrei dovuto portarlo all’ospedale, avrei fatto meglio a non dargli quella roba. Ora ricomincerà a bucarsi ed è tutto per colpa mia. Dannazione, non ne faccio una giusta, ferisco un casino di persone. Sam, mia sorella, che ho malamente abbandonato a sè stessa due anni fa, mia madre, a cui ho detto di non volerla vedere finchè non smette di drogarsi -sì, sono circondato da fottuti tossici-. E ancora, Jared, un mio vecchio amico che ho scoperto essersi innamorato di me, ma che io non sono in grado di vedere come nient’altro che come un buon amico, spezzandogli quindi il cuore. Ho frantumato tanti di quei cuori, che ormai il *crac* del momento in cui si spezzano, è la colonna sonora della mia vita. Mi prendo la testa fra le mani e mi stringo convulsamente i capelli inzuppati dallo scrosciare costante e aritmico di quest’acqua, che pulisce il mio corpo segnato da cicatrici e mille ricordi, ma che non purifica il  dolore che ho provocato e che mi è stato inflitto, che donerò e che mi verrà gettato addosso. Mi rannicchio a terra, sul piatto della doccia, sotto questa cascata cocente; vorrei rimanere così per sempre, con lo scroscio dell’acqua che impedisce ai pensieri di urlare troppo forte, di invadere ogni parte della mia povera mente impazzita con il loro stridulo e martellante grido di battaglia. Voglia di scappare, di nuovo, impellente, bruciante, distruttiva. Autodistruttiva. Voglia di non essere più io, di cambiare nome, volto e storia. Solitudine. Uno zaino in spalla, pochi soldi, pochi vestiti. Camminare per giorni, imparare a difendermi da chi mi può fare del male. Musica, tanta musica. Persone dai volti stanchi e sconosciuti, come il mio, dai lineamenti sfigurati da demoni e dolori interiori che ci hanno portati al gesto più folle, codardo ed estremo: la fuga. In questo momento, nella mia testa, non c’è posto per nient’altro che per questo chiodo fisso. Ho assecondato così tante volte questo desiderio, che non mi spaventa neanche tanto. E’ da senzapalle, lo so, ma spesso, per il bene degli altri -o per il proprio- è indispensabile. Lo era quando ero rinchiuso in quel riformatorio che mi stava soffocando; lo era stato quando Jared si dichiarò; lo è stato quando, con delle brutte amicizie, diedi fuoco a quella casa. Se fossi restato, quest’ultima volta, Mary-Jane, mia sorella adottiva e io saremmo finiti dritti in prigione, visto che quell’incendio lo appiccò anche lei, ma io, fuggendo, diedi prova della mia colpevolezza, togliendo lei dai casini. Quando non hai scelta, ti devi adattare, passando anche per codardo, se necessario.
Esco dalla doccia, mi lego un asciugamano in vita, passo oltre lo specchio, non lo guardo neanche per sbaglio. Mi rivesto e so cosa fare. Movimenti meccanici, ripetuti tante volte che non ho neanche bisogno di connettere corpo e mente, la quale già corre lontano, indistrurbata, verso una nuova, sconosciuta meta. Forse York, forse Manchester, o, chi lo sa, magari l’America. Ho giurato che prima ho poi ci sarei andato, da solo o in compagnia è secondario. Il mio cervello viaggia, mentre io mi muovo, rapido. Prendo il mio vecchio zaino sgualcito. Lo riempio con le poche maglie e i pochi pantaloni appesi ordinatamente nell’armadio. Prendo quelle poche cose che mi appartengono: un bracciale di Mary-Jane, che mi diede la notte in cui scappai, la collana con la A di anarchia come ciondolo, il portafoglio con ciò che mi è rimasto dell’ultimo stipendio, con i quali non farò un granchè. Fortunatamente ho sempre solo lavorato in nero, senza contratti e senza particolari restrizioni. No, non è mai stata una decisione pensata. Si tratta più che altro di occasioni. O forse è stato il mio subconscio a tenermi lontano da un lavoro fisso, sicuro che anche questa volta me la sarei data a gambe, nonostante i buoni propositi. Sto mettendo il giubbotto di pelle e prendendo il mio basso nella custodia, quando parte Ha Ha You’re Dead dai miei pantaloni, seguita da un ronzio vibrante appoggiato alla mia gamba sinistra. Tiro fuori il cellulare e rispondo. «Ciao amico!» squilla la voce di Sam dall’altra parte. «Ehi..» rispondo. «Dai, su con la vita, che grazie a te sono ancora vivo! E stasera ti ripagherò. Beth e la sua band, di cui fa parte anche Hope, che credo tu abbia conosciuto oggi quando.. sai no?! Be’, loro, fanno un concerto in un pub. Io e Phe ti veniamo a prendere per le sette.» Detto questo, attacca, senza darmi il tempo di rispondere. Ma di tutto quello che ha detto, ho sentito solo una frase: “di cui fa parte anche Hope”. Sei parole, un nome, contro una voglia allucinante di scappare via.
   
 
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