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Autore: Taila    09/02/2013    5 recensioni
Perché John era stato l’unico che si era preso la briga di fermarsi e ascoltarlo per davvero, che avesse cercato di capirlo invece di bollarlo come un pazzo e scappare a chilometri di distanza, come facevano tutti gli altri. Il dottore camminava sempre al suo fianco, ogni volta che Sherlock si voltava era sicuro che avrebbe incrociato il suo sguardo calmo e fiducioso nelle sue capacità. Il minore dei fratelli Holmes non sapeva ancora spiegarsi il motivo, ma quell’ex soldato ferito e rattoppato alla bene e meglio, che si ergeva nel flusso caotico della vita come una roccia infissa saldamente nel terreno, era riuscito a conquistarsi la sua completa fiducia. In passato non aveva mai ricercato l’approvazione di nessuno, nemmeno di suo padre, eppure nel giro di pochi mesi quella di John gli era diventata indispensabile, arrivando a ricercarla con continui sfoggi delle sue capacità logiche, anche quando non ce n’era il benché minimo bisogno. Il suo dottore conosceva lui e i suoi metodi meglio di chiunque altro, proprio per questo Sherlock non riusciva a credere che lo avesse paragonato a quel dozzinale prodotto letterario che era Monsieur Dupin.
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Un pomeriggio d’inverno
Autore: Taila
Genere: Romantico, fluff, slice of a life
Tipo: One-shot, slash
Raiting: Giallo
Pairing: Sherlock Holmes x John Watson Disclaimers: I personaggi presenti in questa fic non appartengono a me, ma a Sir Arthur Conan Doyle in primis, poi a Moffat e Gattis, alla bbc e a tutti coloro che ne detengono i diritti. Io ho preso questi personaggi in prestito, senza scopo alcuno di lucro, soltanto per soddisfare i miei loschi fini *__*
Note: Eccomi ritornata sul luogo del delitto più presto di quanto potessi immaginare. Il fatto è che desideravo scrivere qualcosa di più leggero, dopo “Ritorni” e avevo voglia di qualcosa di dolce e coccoloso, per risollevarmi l’anima. L’idea per questa shot era ben diversa quando mi sono messa al lavoro, ma, man mano che procedevo, Sherlock e John hanno cominciato a fare come volevano – soprattutto il primo – e mi hanno stravolto la shot. Spero quindi che il risultato si decente ^_^ Prima di lasciarvi alla lettura, permettetemi di fare un paio di precisazioni: per prima cosa Monsieur Dupin è uno dei personaggi che amo maggiormente della lettura, anche perché senza di lui probabilmente Sherlock Holmes non avrebbe mai visto la luce, le opinioni che il nostro consulente investigativo esprime sull’investigatore nato dalla penna di E. A. Poe nella shot, sono basate su quelle che Sherlock Holmes esprime nel secondo capitolo de “Uno studio in rosso”; dallo stesso romanzo ho preso le notizie relative alle modalità del ferimento di John Watson: lo stesso dottore ne scrive all’inizio del primo capitolo.
Ringraziamenti: Ringrazio kiba91 e Jess Loneliness per aver lasciato un commento a “Ritorni”. Ringrazio marghevale123 che ha inserito “Ritorni” tra le fic da ricordare.
Ringrazio tutti coloro che hanno anche solo letto e tutti coloro che leggeranno e commenteranno questa shot.
Adesso la smetto di ciarlare e vi lascio alla lettura, alla prossima shot gente ^O^/


Un pomeriggio d’inverno


Quell’inverno era maledettamente umido e piovoso.
Sherlock avrebbe obiettato che tutti gli inverni inglesi sono freddi, umidi e piovosi. Lo sapeva anche lui, ma questo non contribuiva a fargli passare il dolore alla spalla. John girò la testa verso la finestra e sospirò: era in giornate come quella, in cui sembrava che tutta l’umidità cittadina si fosse concentrata nelle sue ossa, che la sua vecchia cicatrice tornava a far sentire la propria presenza.
Come se ne avessi bisogno, commentò mentalmente dottore, mentre si massaggiava il punto dolorante.
I ricordi immediatamente successivi allo sparo erano frammentari e confusi, a volte la sua mente aggiungeva dei particolari e altre li toglieva, come se non fosse del tutto convinta di come fossero andate le cose, al punto che l’uniche cose reali e tangibili di quei momenti erano diventati il dolore e la paura di morire. Il vero problema era che quei momenti erano stati annegati nel dolore e nel terrore, che li aveva sfumati fin quasi a renderne irriconoscibili i contorni, rendendoli più disturbanti e spaventosi, ed era quello il motivo per cui alcune notti gridava più forte di altre nel delirio causato dagli incubi: i fantasmi traslucidi e sfocati che si muovevano contro lo schermo nero delle sue palpebre abbassate e allungavano scheletriche mani adunche per ghermirlo, erano molto più terrorizzanti di qualsiasi altro ricordo nitido che conservasse.
La sua psicologa era convinta che il dolore alla spalla fosse di natura psicosomatica, esattamente come quello che tempo prima gli attanagliava la gamba e lo costringeva ad appoggiarsi a un bastone per camminare, perché la ferita era ormai del tutto rimarginata e non gli aveva portato conseguenze fisiche. Semplicemente il dolore si risvegliava nella sua testa quando i ricordi della guerra afgana diventavano per lui più pressanti.
Una gran bella teoria, aveva pensato John quando Ella gliel’aveva esposta. Peccato che lui si fosse sul serio beccato un proiettile nella spalla e quello non aveva niente a che fare con la sua psiche malandata, per la miseria. Quando John si era svegliato sulla branda dell’ospedale da campo, con la spalla fasciata e imbottito di antidolorifici al punto da seguire a malapena cosa gli stesse dicendo il chirurgo che l’aveva operato, aveva deciso che era stato molto fortunato: il proiettile gli aveva sfiorato l’arteria succlavia e questo era il motivo per cui non era morto dissanguato, ma lo aveva passato da parte a parte frantumandogli l’osso scapolare. La fisioterapia era stata lunga, difficile e dolorosa, e aveva risolto solamente in parte i suoi disturbi, perché riusciva a sollevare ancora il braccio sopra la testa, ma quando lo faceva provava sempre un brivido di dolore. Il male che provava alla spalla non era certo immaginario, era uno di quei maledettissimi dolori fisici che colpivano, a ogni cambio meteorologico, tutte quelle persone che avevano avuto un osso fratturato, non c’era bisogno di andare a scomodare peculiari funzioni della sua attività cerebrale.
Un lampo tagliò di netto il cielo plumbeo, illuminando con un flash la finestre contro i cui vetri tamburellava una pioggia scosciante. Il tempo era così da giorni e lui iniziava a innervosirsi per quell’immobilità forzata. John distolse lo sguardo, riportandolo sulla pagina del libro che stava cercando di leggere per distrarsi: con un tempo come quello, cosa c’era di meglio del buon, vecchio Poe? Anche se trovava strano che Sherlock, che aveva la pessima abitudine di frugare tra le sue cose, non avesse ancora scoperto quella copia dei “Delitti della Rue Morgue” che aveva comprato da ragazzo e non l’avesse fatta a brandelli prima verbalmente e poi materialmente. Aveva letto quel libro parecchie volte, ma lo trovava sempre piacevole e, per questo motivo, pian piano ricominciò ad appassionarsi alla descrizione delle indagini sul mostruoso e inspiegabile delitto avvenuto nella via parigini da cui deriva il titolo.
Il dottore era arrivato a leggere fino al punto in cui Monsieur Dupin stava iniziando a descrivere la soluzione del cruento duplice omicidio, quando avvertì le mani calde di Sherlock appoggiarsi sulle sue spalle.
- Davvero una lettura deprecabile la tua, dottore.- commentò il consulente investigativo, parlandogli direttamente contro l’orecchio.
Un mugolio compiaciuto vibrò per un attimo in fondo alla gola di John, quando sentì la voce profonda del compagno sciogliersi invitante contro il proprio timpano, mentre quelle sue dita affusolate incominciavano a massaggiargli i muscoli tesi e doloranti delle spalle.
- Tu e Monsieur Dupin vi assomigliate parecchio.- commentò John, aspettandosi già le rimostranze dell’altro, mentre si abbandonava contro la spalliera della poltrona a cui era appoggiato, per godere meglio della manipolazione del coinquilino.
Sherlock, udendo quelle parole, emise un verso che sembrava indispettito, come se John gli avesse detto qualcosa di molto offensivo, aprì la bocca per ribattere ma il suo sguardo scivolò sulla morbida curva del collo del suo dottore e a quel punto scegliere cosa fare per primo fu particolarmente facile: piegò la testa in avanti, in modo da poter sfregare le labbra contro quel pezzettino di pelle che si trovava dietro l’orecchio di John e che sapeva essere una di quelle zone che gli facevano emettere quei versetti deliziati che piacevano tanto al consulente investigativo.
A John piaceva quando l’altro prendeva l’iniziativa, non accadeva spesso e la maggior parte delle volte era lui a trascinare il compagno a letto, ma era in momenti come quello che si sentiva sciogliere completamente, come cera stretta per troppo tempo tra le mani calde del compagno. Sherlock poteva sembrare, e a ragione, un uomo freddo e poco incline al contatto umano, ma quando si trattava del suo dottore e veniva stimolato nel modo giusto, si infiammava come una miccia legata a un barile di esplosivo. John mugolò il suo nome, diluendolo in un gemito umido e languido, che al consulente investigativo ricordò tanto delle fusa. Piano, mentre ancora continuava a massaggiare le spalle del suo dottore, Sherlock fece scivolare le labbra lungo la linea della mandibola del dottore, avvertendo l’ispido della ricrescita della barba sfregargli contro la pelle, fermandosi poi sulla sua guancia.
John quasi non riusciva a credere che stesse accadendo realmente perché, se era insolito che il suo compagno prendesse l’iniziativa, ancor più raro era il fatto che sprecasse tempo in smancerie simili. Sherlock doveva essere eccezionalmente di buon umore quel pomeriggio o, più probabilmente, era soltanto profondamente annoiato e cercava un modo per ovviare all’uggia di quella piovosa giornata invernale; qualunque fosse stato il motivo, però, John non si sarebbe certo lamentato, al contrario avrebbe cercato di approfittarne il più possibile. Seguendo la piega romantica che avevano preso i suoi pensieri, stava per girare la testa e baciarlo, ma la voce di Sherlock lo anticipò bloccandolo.
- Se non fossi così sicuro della tua fedeltà verso i miei metodi d’indagine, potrei sentirmi davvero offeso da un simile paragone.- aveva parlato senza mai allontanare le labbra dalla pelle dell’altro, disegnandoci sopra le parole con il calore del suo respiro.
- Non condividi i suoi metodi d’indagine?- chiese il dottore, che aveva iniziato ad avere difficoltà a respirare.
Le mani di Sherlock avevano abbandonato le sue spalle ed erano scivolate sul suo torace, accarezzandolo su ogni centimetro di quella parte del suo corpo, prima di infilare le mani sotto il bordo del maglione bianco a righe nere che stava indossando. La sensazione di quelle dita lunghe e sottili, calde e ruvide, fece fremere il dottore, che chiuse gli occhi e reclinò la testa all’indietro, esponendo la gola alla vista. Doveva essere un qualcosa che Sherlock stava aspettando, perché si era subito sporto con il busto in avanti, fino a portare il viso all’altezza del collo del suo dottore, sfregando le labbra contro la pelle della sua gola.
- Dupin è un personaggio davvero mediocre. Usa stupidi trucchetti, come introdursi nel discorso che il Narratore sta facendo dopo un lungo silenzio, per far intendere al lettore che nel frattempo ha riflettuto ed è arrivato alla soluzione del caso, ma in realtà cerca soltanto di fare scena con espedienti superficiali. Come puoi, proprio tu, paragonarmi a lui?- spiegò Sherlock imbronciato, con il viso ancora appoggiato contro il collo dell’ex soldato.
Perché John era stato l’unico che si era preso la briga di fermarsi e ascoltarlo per davvero, che avesse cercato di capirlo invece di bollarlo come un pazzo e scappare a chilometri di distanza, come facevano tutti gli altri. Il dottore camminava sempre al suo fianco, ogni volta che Sherlock si voltava era sicuro che avrebbe incrociato il suo sguardo calmo e fiducioso nelle sue capacità. Il minore dei fratelli Holmes non sapeva ancora spiegarsi il motivo, ma quell’ex soldato ferito e rattoppato alla bene e meglio, che si ergeva nel flusso caotico della vita come una roccia infissa saldamente nel terreno, era riuscito a conquistarsi la sua completa fiducia. In passato non aveva mai ricercato l’approvazione di nessuno, nemmeno di suo padre, eppure nel giro di pochi mesi quella di John gli era diventata indispensabile, arrivando a ricercarla con continui sfoggi delle sue capacità logiche, anche quando non ce n’era il benché minimo bisogno. Il suo dottore conosceva lui e i suoi metodi meglio di chiunque altro, proprio per questo Sherlock non riusciva a credere che lo avesse paragonato a quel dozzinale prodotto letterario che era Monsieur Dupin.
John, udendo le parole dell’altro, si era girato verso di lui con una torsione completa del busto – ignorando la spalla dolorante che stava protestando vivamente per quel trattamento – e, con un sorriso ben stampato sul viso, aveva cercato le sue labbra per un bacio, mentre gli stringeva le spalle in un abbraccio deciso. Si riteneva il più abile traduttore del linguaggio criptico usato da Sherlock – dubitava che al mondo esistessero altre persone disposte a cimentarsi in una simile, titanica impresa – e per questo gli fu facile intuire quella gelosia sottintesa che ribolliva sotto le parole che aveva appena pronunciato. John se lo strinse ancora di più contro, approfondendo ancora di più il bacio, intenerito da quell’infantile gelosia nell’essere paragonato a un personaggio di fantasia, che era così tipica di quel ragazzino che a volte il suo compagno mostrava di essere ancora.
- Che grave errore che ho commesso. Come posso rimediare, mi domando?- chiese il dottor Watson, ansimando appena, usando un tono fintamente rammaricato, che contrastava con l’espressione ilare che aveva in viso.
Il consulente investigativo scostò la testa all’indietro, quel tanto che gli sarebbe bastato per guardare l’altro negli occhi e un sorriso gli piegò le labbra, sentendosi profondamente intrigato da quella situazione.
- Oh, non crucciarti dottore: un metodo per sistemare le cose si trova sempre.- replicò Sherlock, dando una corposa carezza al cavallo dei pantaloni dell’altro.
Sherlock non era certo il tipo da lasciarsi andare all’osservazione estatica del proprio compagno, ma proprio grazie al distacco che la sua mente razionale gli imponeva, poté cogliere e godersi in ogni dettaglio i risultati della scossa di piacere che gli aveva procurato, ben stampati com’erano sul volto di John: egli vide i suoi lineamenti fremere, la pelle imporporarsi sulle guance, la testa reclinare di poco all’indietro e le labbra schiudersi per lasciar uscire all’esterno un sospiro tremulo. Il dottore riavvicinò il viso a quello di Sherlock, tentandolo con il languore che aveva sciolto i suoi occhi azzurri e con le sue labbra arrossate e schiuse in un implicito invito a baciarle ancora.
- Camera mia o tua?- domandò poi con un la voce arrochita e calda, le labbra che sfregavano contro quelle dell’altro a ogni parola pronunciata.
Un lampo attraversò lo sguardo si Sherlock, prima che spostasse la mano libera sulla nuca del suo dottore e lo spingesse verso di sé, colmando così l’irrisoria distanza che c’era tra le loro bocche.
- La più vicina.- gli rispose poi, ansante e impaziente, mentre tirava verso di sé John per un braccio, per costringerlo ad alzarsi dalla poltrona.


§§§



John spostò la testa sul cuscino, appoggiando il lato destro della faccia sulla federa. Era steso prono, con il corpo deliziosamente stanco e le lenzuola sfatte che gli scivolavano piacevolmente sulla pelle nuda. Incrociò lo sguardo di Sherlock che, ugualmente nudo e steso sul fianco sinistro, stava disegnando figure misteriose sulla sua schiena scoperta e sorrise: il sorriso felice e sereno di chi ama e sa di essere riamato. Il consulente investigativo notò il sorriso che gli stava rivolgendo l’altro uomo e gli sorrise di rimando.
- Che stai disegnando?- gli chiese l’ex soldato, scivolando piano sul materasso per farsi più vicino al compagno.
- La composizione molecolare del bario.- rispose Sherlock, pacato e concentrato sui segni immaginari che stava tracciando sulla pelle nuda dell’altro.
- Perché proprio il bario?- domandò ancora John, perplesso e incuriosito.
Il consulente investigativo scrollò le spalle, continuando a fissare ostinatamente la schiena dell’altro.
- Non riesco a pensare bene quando mi stai troppo vicino, soprattutto se sei privo di vestiti. Ho provato anche a elencare tutti i veleni conosciuti, ma il tuo corpo mi distrae: per quanto ci provi non riesco a pensare a nient’altro.- confessò alla fine di una lunga pausa silenziosa, un alone rosato gli andò a colorare in modo sospetto le guance.
John avvertì una bolla di calore esplodergli dentro, emozionato per le parole udite e per tutto quello che esse sottintendevano. Un sorriso ampio e caldo gli piegò irresistibilmente le labbra, incapace di contenere quella sensazione di felicità che stava provando in quel momento. Sollevò la mano sinistra e la appoggiò su quella che l’altro teneva posata con il dorso sul materasso, poco sotto il cuscino, palmo contro palmo e dita intrecciate. Sherlock osservò affascinato l’incastro formato dalle loro mani, poi le sollevò insieme fino a portarle davanti al proprio viso e lasciò un piccolo bacio sul dorso di quella di John.
Mentre il compagno lo tirava delicatamente verso di sé, John pensò che quello tra le braccia di Sherlock era il suo posto nel mondo, quello a cui apparteneva e da cui non sarebbe mai più andato via.

  
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