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Autore: Artemis Black    10/02/2013    1 recensioni
Quando si girò, per poco non mi prese un infarto: sembrava uno di quei modelli che sfilavano per Dolce & Gabbana, con tanto di gelatina sbrilluccicosa in testa e due fari blu al posto degli occhi.
Terra chiama Jess! Svegliati imbecille!
“Ehm, ti serve una mano?” gli chiesi, svagando con gli occhi.
Aveva due bicipiti che mi impedivano di guardarlo negli occhi.
“Signorina, non mi sembra il caso.” Rispose gentile.
“Crede che una donna non sappia riparare un qualsiasi veicolo? E’ maschilista per caso?” gli chiesi incrociando le braccia sul petto.
La stavo prendendo sul personale. Esatto.
“No, mi scusi. È che le donne solitamente non riparano motori, ma se lei è così sicura… prego!” mi disse gentilmente. [dal primo capitolo]
Piccola storia sulle avventure sentimentali di Steve Rogers :)
Genere: Commedia, Demenziale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Steve Rogers/Captain America, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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1. You know to keep hopeyour s up high and your head down low.


Avevo le cuffiette nelle orecchie ed ascoltavo gli A Day to Remember che suonavano All I Want, mentre preparavo la mia borsa, composta poi da un misero zaino.
Ficcavo dentro tutte le mie cose alla rinfusa, compresi i miei preziosi cd e i miei libri preferiti. Presi poi una maglia sbracciata nera con la scritta –Rock ‘n roll- stampata sopra e i miei shorts di jeans per vestirmi. Radunai la mia roba in bagno e la misi tutta nel beauty-case che poi avrei messo nello zaino. Mi allacciai i miei anfibi e indossai il mio chiodo nero.
Feci mente locale nella stanza per essere sicura di aver preso tutto, poi aprii la porta ed uscii finalmente da quella camera.
“Ma allora te ne vai sul serio?” mi chiese Jonathan mentre ruminava.
“Certo idiota.” Gli risposi, prendendo un sandwich che era sul tavolo della cucina.
“A Mike non piacerà. Lo sai che ti cercherà, vero?” mi disse.
“A me non me ne fotte un cavolo di Mike! Se ne può pure andare all’inferno, per quanto mi riguarda ha passato il limite.” Dissi.
Jonathan era il ragazzo che un anno fa mi aveva offerto un posto in cui stare, visto che cercavo un appartamento e se non fosse stato per lui, starei vagando per le strade di Chicago senza un tetto sulla testa. Che poi si rivelò una cattiva idea, quella non era colpa sua poverino.
D’altronde i parenti non si possono scegliere: Mike era suo cugino e venne a vivere con noi dopo circa due mesi che conobbi Jonathan. Sembrava un ragazzo simpatico e gentile all’apparenza, per poi rivelare il suo carattere patetico e manesco.
“Stammi bene!” mi urlò Jonathan dalla tromba delle scale.
Ma io ormai ero già uscita dal palazzo e stavo camminando a testa alta tra la gente frettolosa di andare a lavoro. Il giorno prima avevo chiamato la mia amica Valerie per dirle se poteva ospitarmi per almeno una settimana nel suo appartamento.
“Va bene tesoro! Sono contenta che finalmente ci rivedremo, ma dimmi che è successo? Non ti piace più stare a Chicago?” mi aveva chiesto al cellulare.
“È colpa di Mike, poi ti spiego meglio quando arrivo. Comunque grazie, non vedo l’ora di tornare a New York!” le risposi.
Finalmente arrivai alla fermata dei bus, comprai il biglietto di sola andata per la grande mela e aspettai pazientemente che il bus arrivasse. Nel frattempo feci scorta di panini e presi una bottiglia d’acqua per il viaggio nel bar di fronte alla fermata, poi verso le 11.30 salii finalmente sul bus. Il conducente sudaticcio e con i baffi grigi mi chiese di fargli vedere il biglietto ed io lo feci. Poi mi incamminai nel corridoio stretto del veicolo e mi andai a sedere nell’ultima fila di seggiole.
Misi le cuffiette e ripensai a tutto quello che mi era successo durante quest’ultima settimana: Mike aveva superato il limite, oltre a prendermi sempre a parolacce aveva osato anche alzare le mani su di me. Mi ero convinta che non l’avrebbe mai fatto su di me, ma invece mi sbagliavo ed adesso ero costretta a scappare da un maniaco geloso. Riuscivo sempre a cacciarmi in situazioni strane e pericolose, era una qualche specie di dote che madre natura mi aveva conferito.
All’inizio, quando la nostra storia andava bene, era carino e dolce con me ma dopo quella volta al bar, il nostro rapporto cambiò. Solo perché a lui non gli piaceva che io giocassi a biliardo con altri uomini, non voleva dire che io non dovessi farlo… e quella sera lo feci.
Il ritorno a casa fu un incubo: urli, parolacce, una litiga pazzesca con tanto di lancio d’oggetti. Da lì il nostro rapporto andò a frantumarsi piano piano. Forse avrei dovuto lasciarlo già da subito, ma il mio cuore si era ormai abituato ad avere qualcuno su cui contare, che ormai non riusciva più a vedere la realtà così com’era. Fino alla settimana scorsa.
Portavo i segni della sua violenza ancora sui miei polsi. Se non fosse intervenuto Jonathan io… non volevo neanche immaginarlo.
Chiusi gli occhi e cancellai quei ricordi dalla mia mente, poi mi addormentai.
Fui svegliata dal conducente ciccione e baffuto.
“Signorina, deve scendere. L’autobus è rotto.” Disse.
Mi stropicciai gli occhi e guardai fuori dal finestrino.
“Cosa? Ma io ho pagato il biglietto!” dissi lamentandomi.
“Mi dispiace, ne arriverà uno di sostituzione tra 4 ore.” Disse alzando le spalle.
“Cosa? Assurdo!” dissi.
Presi la mia roba e scesi dall’autobus. La gente che prima era sul veicolo, adesso vagabondava sul marciapiede in cerca di una soluzione.
“Dove siamo di preciso?” chiesi un’ultima volta al conducente.
“Più o meno siamo nel parco State Game Land, a 6 ore di distanza da New York.” Mi rispose prima di mettersi a leggere il quotidiano spalmato sul volante.
Sbuffai e decisi di aspettare. Ma la mia pazienza aveva un limite e dopo neanche mezz’ora, misi lo zaino in spalla e  cominciai a camminare nel tentativo di trovare qualche motel dove alloggiare la notte.
Ero nel bel mezzo di una strada che attraversava un parco nazionale e l’unica cosa che trovai alla fine di essa, fu un benzinaio con una tavola calda.
Si era ormai fatta sera e girare di notte per le strade non era molto sicuro, ma non lo era neanche stare in una stazione di servizio deserta.
Mi sedetti sulla panca fuori dal bar e tirai fuori i miei panini farciti con questo mondo e quell’altro. Mentre mangiavo, notai un tizio che riparava la sua moto in fondo alla stazione di servizio vicino ad un capanno degli attrezzi. Sembrava davvero infuriato e poco esperto su come aggiustare una moto. Finii i miei panini e poi mi avvicinai a lui, con discrezione. Magari se gli riparavo la moto poteva darmi un passaggio fino alla cittadina più vicina.
Mi schiarii la voce per attirare la sua attenzione.
Quando si girò, per poco non mi prese un infarto: sembrava uno di quei modelli che sfilavano per Dolce & Gabbana, con tanto di gelatina sbrilluccicosa in testa e due fari blu al posto degli occhi.
Terra chiama Jess! Svegliati imbecille!
“Ehm, ti serve una mano?” gli chiesi, svagando con gli occhi.
Aveva due bicipiti che mi impedivano di guardarlo negli occhi.
“Signorina, non mi sembra il caso.” Rispose gentile.
“Crede che una donna non sappia riparare un qualsiasi veicolo? E’ maschilista per caso?” gli chiesi incrociando le braccia sul petto.
La stavo prendendo sul personale. Esatto.
“No, mi scusi. È che le donne solitamente non riparano motori, ma se lei è così sicura… prego!” mi disse gentilmente.
Presi la chiave inglese che mi stava porgendo e mi misi all’opera. Mio padre mi aveva trasmesso la sua passione per le due ruote e da piccola avevo imparato molte cose utili su come ripararle, prima che lui venisse a mancare. Da quando era morto, mia madre aveva buttato via tutte le sue cose perché i ricordi la ferivano e avevamo anche cambiato casa.
Usò la scusa del lutto anche quando ormai erano passati anni e mi trattava come una pezzente. Così all’età di 18 anni, alla fine del liceo, me ne andai di casa per andare a cercare il mio posto nel mondo.
“Mi dispiace dirtelo ma… il motore è rotto e non  penso ci sia una qualche officina nelle vizinanze dove poterla riparare.” Gli dissi alzandomi da terra e pulendomi le mani su uno straccio che mi aveva passato.
“Lo immaginavo… Dannazione!” imprecò.
“Dovevi fare qualcosa d’importante?” gli chiesi con discrezione.
“No, veramente sono in… licenza. Voglio dire, sono in ferie e la moto mi abbandona!” disse alzando le braccia in aria.
“Mi spiace…” gli dissi.
Agitò una mano per dire che non era molto importante alla fine.
“Invece lei andava da qualche parte?” mi chiese indicando con lo sguardo il mio zaino.
“Si e ti prego dammi del tu! Stavo andando a New York quando il bus di linea si è rotto e mi ha lasciato a piedi.” Dissi roteando gli occhi.
“New York? Io invece devo ritornarci a quanto pare.” Disse mentre si ripuliva le mani dal grasso della moto.
“Beh, io mi metto in marcia… magari trovo qualche motel.” Dissi, andando a prendere il mio zaino.
“Non è prudente andare in giro a quest’ora! Soprattutto per una ragazza…. Come te…” disse, mordendosi un labbro.
Risi tra me e me e pensai che forse potevamo farci quel tipo di “compagnia” insieme.
“Non ho paura del buio, macho.” Gli urlai mentre mi mettevo in marcia.
Presi le cuffiette e premetti play, mentre con l’altra mano libera facevo segno di auto-stop.
Passava una macchina ogni tanto, ma nessuno si fermava e tiravo avanti, finché non mi sentii qualcuno toccarmi la spalla. La prima cosa che feci fu sferrare un pugno che fu bloccato a mezz’aria dal macho che avevo incontrato alla stazione di servizio.
Mio padre era un marines ed era stato lui a segnarmi ai corsi di Judo e karate, già dall’età di 9 anni e  diceva sempre di volermi mandare ad un corso di auto-difesa, una volta diventata grande. Si preoccupava molto di me e voleva che io fossi una donna forte e indipendente, che sapeva cavarsela in ogni situazione, anche in quelle di pericolo.
“Scusami!” dissi, togliendomi le cuffiette dalle orecchie.
“Scusami tu, devo averti spaventata.” Disse, lasciandomi la mano “Non sapevo il tuo nome ed avevi le cuffiette e non sapevo come chiamarti.” Disse infine.
“Hai ragione. Comunque io sono Jess, Jess Henderson.” Dissi con un sorriso.
“Steve Rogers…” disse, lasciando una certa suspense. Forse pensava avessi già sentito il suo nome… ma a dir la verità non sapevo affatto chi era, però mi ricordava tanto qualcuno.
“Sei per caso un attore?” gli chiesi, per evitare brutte figure.
Lui scoppiò a ridere.
“No! Sono una specie di… soldato.” Disse, schiarendosi la voce.
“Davvero? Mio padre lavorava nella Marina Militare.” Dissi di getto. Perché stavo rivelando informazioni private sulla mia vita?
Terra chiama Jess! Dispersione di informazioni riservate! Allarme!
“Wow! Io faccio parte di un… ecco adesso lavoro in un agenzia e…” sembrava in difficoltà, come se stesse pesando le parole per non rivelare qualcosa di segreto.
“È un’agenzia segreta del governo?” chiesi, per aiutarlo.
“Ehm, si. Non posso dire molto, ecco.” Mi disse con un sorriso sincero.
Era così tenero mentre mi sorrideva in quel modo, come se fosse dispiaciuto del fatto di non potermi dire molto sul suo lavoro e di non poter parlare liberamente che mi si strinse il cuore… oltre a far calare un po’ di bava dalla bocca per il suo fisico statuario.
Terra chiama Jess! Allarme rosso!
“Allora hai deciso di fartela a piedi?” gli chiesi, curiosa di sapere se mi stava seguendo o semplicemente stava cercando anche lui un letto in cui dormire.
“Non volevo lasciare una fanciulla in balia dell’oscurità.” Mi disse.
“Che gentiluomo!” mi stupii.
“Me lo dicono tutti… Negli anni in cui sono nato io, la galanteria era la regola d’ora per sorprendere una donna.” Disse, poi si accorse di aver detto troppo e si asserì.
“Quando sei nato scusa?” gli chiesi ridendo.
“Ehm… nel 1982!” mi rispose convinto.
“Oh, wow… io sono nata nel ’87 e non ho mai visto ragazzi applicare questa regola!” gli dissi francamente.
“Beh, sono di vecchio stampo.” Mi rispose sorridendo.
“Beh, macho… io continuerei a camminare finchè non troviamo un passaggio. Che ne dici?” gli proposi.
“Per me va bene!” disse con un sorriso, annuendo.
Continuammo a camminare, a parlare e a ridere come due buon vecchi amici. Era semplice e divertente chiacchierare con lui e dimenticarsi di tutti gli orrori che avevo passato. Sapeva rendermi leggera e felice. Questa magia che lui aveva su di me, lo rese speciale ai miei occhi all’istante, sin da quando gli avevo chiesto se gli serviva una mano. Nel giro di qualche ora era riuscito a mettere in subbuglio la mia mente e a farmi battere il cuore.
Ad un certo punto, un vecchio catorcio di macchina si fermò e il conducente abbassò il finestrino per parlarci: era un uomo di colore sui 50, con i rasta lunghi fino alle spalle e un accenno di barba sul volto.
"Serve un passaggio piccioncini?" Ci chiese.
Vidi Steve arrossire e spiegare all'uomo che non eravamo due piccioncini.
"Certo! Ci basta arrivare al più vicino motel." Gli dissi con un sorriso.
"Non me la raccontate giusta voi due!" Rispose il conducente ridendo.
"Dai, andiamo!" Dissi a Steve strattonandolo per un braccio.
"Aspetta! Non mi sembra molto... Affidabile." Disse, dando un'occhiata all'auto vecchia e piena di roba all'interno.
"Ho imparato a non avere pregiudizi molto tempo fa. E poi è l'unico che si è fermato al nostro auto-stop!" Gli dissi.
Scrollò le spalle e brontolò, ma poi entrò in macchina.
Non c'era molto spazio, visto che l'auto era stracolma di scatoloni, borsoni e altre cianfrusaglie. Quindi Steve si ritrovò spiaccicato al finestrino ed io spalmata sui suoi bicipiti.
Erano morbidi, caldi e sembravano essere così forti e...
Terra chiama Jess! Allarme super-rosso! Downloading di pensieri impuri!
Scossi la testa e tornai con i piedi per terra (e con la mente lucida!), quando sentii una zaffata di un odore pungente facilmente riconoscibile.
Vidi Steve arricciare il naso e tentare di aprire il finestrino, il quale era incastrato.
"Volete un tiro, giovini?" Disse l'autista, mostrandoci una canna.
"Non fumo!" Disse Steve.
Risi sotto i baffi, poichè Steve non capiva che quella non era una semplice sigaretta.
"No grazie..." Declinai l'offerta anche io.
Ma ormai la macchina era diventata una specie di bong gigante e il fumo passivo era anche peggio di quello aspirato.
Cominciava a girarmi la testa e scoppiai a ridere senza motivo più di una volta,  seguita a ruota dal conducente che scoprii chiamarsi Jamie.
Steve mi guardava preoccupato e stordito, come se non riuscisse a capire cosa diavolo mi prendeva.
"Perchè tu non ridi?!" Gli chiesi, buttandogli una mano sul petto.
"Ehm, Jess stai bene?" Mi chiese, guardandomi in uno strano modo.
"Mai stata meglio! La vita è bella, la notte è giovane e i tuoi muscoli sono da sballo!" Finii con l'avvicinare pericolosamente il mio viso al suo.
"Ehi amico! Sembra che la ragazza non si sia mai fatta una canna!" Disse ridacchiando Jamie.
Steve sgranò gli occhi e capì il perchè del mio ridere isterico e senza senso. Capì anche che l'effetto di quella droga non poteva funzionare su di lui per il suo metabolismo accelerato.


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Buonasera :)
Eccomi di nuovo in questo fandom con una nuova storia, questa volta su Captain America!
Vi avviso già che sarà composta da massimo 5 capitoli e aggiornerò ogni qual volta che posso (quindi può darsi che domani pubblichi il secondo capitolo come tra una settimana). Parlerà della sua vita sentimentale e poco del suo "lavoro" (anche se ci saranno dei piccoli accenni).
Spero vi piaccia! Fatemi sapere la vostra impressione lasciando una recensione :D
A presto,
Artemis Black

  
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