Fanfic su artisti musicali > SHINee
Ricorda la storia  |      
Autore: heyitsliz    10/02/2013    2 recensioni
« Ti amo. » La prima volta che pronunciasti quelle parole, sentii il cuore implodere silenziosamente nel petto, le mani sudare freddo e la testa pulsare così tanto da fare male.
« Ti amo. » La seconda volta che sentì quelle parole fu il mese successivo, erano le tre del mattino e avevamo trascorso la serata appena passata in uno dei tanti locali nei pressi dell’Università di Hongdae.
« Ti amo. » La terza volta che potetti sentire la tua voce pronunciare quel suono fu nel caotico vociare del Café dove ci trovavamo.
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Minho, Taemin
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

NdA
Non riesco a stare troppo tempo ferma e solitamente la voglia di non-studiare dà una spinta in più alla mia fantasia. Se poi aggiungiamo il momento "felicissimo" e le canzoni strappalacrime scritte da JaeJoong (che tu e le tue parole perfette siate dannati!), la mia fantasia non la finisce più di farsi i papiri mentali. Questa volta entro in scena con una 2min. Certo, in realtà ne ho ben due che dovrei concludere da non so quanti mesi, ma questo è tutto quello che mi riesce. E voglio premettere un paio di cose per questa OneShot un po' particolare.
E' un gran nosense che cerco ancora di decifrare.
Non è betata quindi chiedo venia per tutti gli errori che incontrerete.
Lo so dopo questa posso anche rinchiudermi da qualche parte e gettare la chiave.
Alla fine ci saranno anche le spiegazioni adeguate.
Vi auguro una buona lettura.

 

Sarang


« Ti amo. »
 

La prima volta che pronunciasti quelle parole, sentii il cuore implodere silenziosamente nel petto, le mani sudare freddo e la testa pulsare tanto da fare male.
Fu un suono sussurrato, quasi avessi paura di farti sentire ma fu così bello, e fu una così bella sensazione, così dannatamente bella e così difficile da contenere che fece davvero male.
Poi sentii le mani fredde sulle guance posarsi con delicatezza, con quella strana delicatezza e vidi sollevarti sulle punte per schiacciare il tuo naso contro il mio, mentre le labbra, quelle carnose che avevo osservato per tanto tempo, andavano formando un sorriso bellissimo. Dolce e candido anche, come la neve che era caduta prima e che lì in mezzo a tutto quel bianco che ancora andava posandosi, rendeva tutto così irreale.

 
« Ti amo. »

 

La seconda volta che sentì quelle parole fu il mese successivo, erano le tre del mattino e avevamo trascorso la serata appena passata in uno dei tanti locali nei pressi dell’Università di Hongdae. Non sembrava avessi voglia di tornare a casa, con l’euforia che circolava nello stomaco, nelle vene e nella mente a causa dei bicchieri di troppo. Nemmeno io probabilmente ne avevo intenzione. Salutasti gli amici con i quali ti eri incontrato e poi passasti il resto delle ore che precedevano l’alba a fare finta di intrecciare le dita della mia mano con le tue. Non arrivavi mai a stringerle, ci giravi attorno con flemma e di sfuggita senza incastrarle mai veramente mentre camminavamo uno di fianco all’altro per la via principale. E ridevi, ridevi con il viso rivolto al cielo, scoprendo il collo chiaro, strizzando gli occhi alle stelle più visibili mentre parlavamo di futilità senza prestarvi attenzione. Poi ti fermasti e allora dovetti arrestare anche il mio passo. Ti voltasti verso di me e mi chiedesti se mi fossi divertito. Annuì, accarezzandoti la mano accanto al fianco, quasi volendo riprodurre quel gioco di movimenti che avevi condotto per tutta la serata. Ma al contrario decidesti di afferrare la mia mano, di stringerla forte e di non lasciarla andare fino all’alba. Quella volta mi dicesti quelle due parole, un po’ più forti, e gli occhi stanchi accompagnati da quel briciolo di timore nello sguardo profondo.

 
« Ti amo. »
 

La terza volta che potetti sentire la tua voce pronunciare quel suono fu nel caotico vociare del Café dove ci trovavamo. Era passato poco tempo dalla seconda volta, nessuna mano intrecciata, nessun contatto fisico a tenerci caldi, solo uno sguardo che bastava ad incatenarmi sul posto e che mi impediva di respirare a dovere. Ti spostasti di poco, quel tanto che bastò per far scontrare il tuo ginocchio con il mio e vidi un sorriso più combattuto spuntare sulle tue labbra screpolate, mentre con il pollice accarezzavi il bordo della tazza di caffè che stringevi tra le mani. Ancora lo stesso timore e la stessa paura mentre ti premuravi a pronunciare quelle sillabe, come se qualcuno potesse rubarcele.

 
« Ti amo. »
 

La quarta volta me lo sussurrasti all’orecchio e credetti di sognarlo. Lo scrosciare della pioggia sul vetro della finestra era così forte da coprire tutti gli altri suoni in quella notte talmente cupa che sembrava aver risucchiato anche il sorgere del sole più luminoso. Eravamo nella tua stanza, al buio, perché era andata via la corrente o forse perché infondo entrambi volevamo che quell’oscurità ci risucchiasse insieme.
Ti sfiorai le labbra con le dita, sentendone sotto la consistenza irregolare delle spaccature causate dal freddo. Poggiasti una mano sul mio petto, muovendo appena le dita e poi con un passo eliminasti quell’insignificante spazio vitale tra di noi, pronunciasti quelle sillabe mentre tremavi. Sul tuo letto ti baciai, come già avevo fatto tante volte, ti sfiorai come avevo già immaginato tante volte e ti abbracciai, ti abbracciai troppo forte o forse troppo poco mentre ti adagiavo sul letto e ti privavo dei primi indumenti. Non c’era fretta, eppure ogni carezza, ogni tocco, ogni bacio, ogni sospiro sembravano rincorrersi per raggiungere il primo e sparire in quella pozza scura che fu quella notte. Sentì la tua voce modulare il mio nome come mai prima avevi fatto, e come mai credevo avrei potuto udire. Cacciavi indietro le lacrime e le parole quando ne uscivano di nuove, soffocate, mentre credevo di fondermi con te in quel calore che mi avvolgeva e mi inglobava, annullando la mia stessa esistenza e con essa anche la mia anima. Allora smisi di esistere come singolo, e probabilmente smisi di esistere per davvero.

 
« Ti amo. »
 

La quinta volta fu quella forse più bella e dolorosa.
Passarono mesi, ma nemmeno li contai allora perché troppo impegnato a vivere quel ‘noi’ e perché semplicemente lasciavo che quel sentimento mi risucchiasse giorno dopo giorno.
Fu una ricorrenza speciale per tante ragioni, una data un po’ particolare che non aveva una reale importanza per gli altri. Fu il primo giorno in cui incrociammo i nostri sguardi, fu la stessa data nella quale dopo facemmo un passo, entrambi, l’uno verso l’altro. Fu lo stesso numero sul calendario, un po’ di tempo dopo che segnò il passare del tempo trascorso insieme. E volevo fosse una cosa speciale, volevo farti capire quanto per me ormai ci fosse solo quel noi, l’unica cosa che contava davvero. Aspettai tanto, feci in modo non ti accorgessi di nulla. La tua costante testa tra le nuvole e lo sguardo rivolto lontano, verso un cielo sconosciuto, resero tutto più facile. Uscimmo quel giorno, trascorremmo tutta la giornata insieme, ritagliammo quel momento solo per noi due, lontano da ogni impegno, da ogni altra persona che non rientrasse in quello che ormai era un unico e solo elemento.
Giungemmo nel parco vicino la stazione quando ancora sorridevi. Non smettevi mai, erano sorrisi grandi o sorrisi accennati, erano comunque tutti sinceri. Anche a quell’ora tarda, mi rivolgesti l’ennesimo e fu proprio allora che capì che era arrivato l’attimo esatto nel quale poter procedere. Con la mano un po’ tremante per l’emozione ti bloccai per il braccio facendoti fermare mentre la confusione pervase il tuo sguardo che iniziò a vagare sul mio viso in cerca di una risposta. Mi guardai intorno, l’agitazione si divertiva con me, ma cercai di allontanarla mentre con un respiro più lungo tirai fuori dalla tasca della giacca, quello per cui avevo impiegato le ultime quattro settimane con quattro lavori differenti. Prestai la dovuta attenzione soprattutto al tuo viso, al tuo sguardo, che si illuminò come poche volte avevo visto fare. Ti dissi poche parole, spontanee, per nulla preparate e ti afferrai la mano scegliendo il dito giusto, infilando quel piccolo cerchio di metallo intorno ad esso. Non era solo per la misura esatta, ma in quel momento pensai che quel piccolo pezzo di metallo freddo, indossato da te, fosse perfetto, come se fosse stato fatto per stare lì tra il medio e il mignolo.
Sollevasti la mano, allargando per bene tutte le dita per vedere quel luccichio riflettersi nei tuoi occhi e poi con quello stesso sguardo cercasti lo stesso sulla mia mano. Allora fu quello il secondo simbolo, il secondo gesto che cercavo di farti capire. Se la mia anima non esisteva più, potevi fare di me ciò che volevi.
Posai, sul palmo della tua mano libera, l’anello mancante. E quando prendesti la mia e con un po’ di incertezza infilasti il cerchio intorno al mio dito sentì che in quel momento tutto era perfetto.

 
« Ti amo. »
 

Fu il sesto che pronunciasti. Eravamo in viaggio, sul treno che ormai fiancheggiava la costa. Nonostante l’ora non fosse insolita, lì in quello scompartimento fummo gli unici, e con la cuffia di uno stesso i-Pod, all’orecchio, iniziammo a goderci con tranquillità il viaggio. Il sole era caldo, bollente sulla pelle mentre attraversava il vetro del finestrino. Partimmo subito dopo pranzo, e mi sussurrasti quelle parole un’ora dopo la partenza del treno dalla stazione, quando mancavano ancora dei chilometri al raggiungimento della meta. Era appena terminata l’ennesima canzone in riproduzione casuale, quando smettesti di osservare il paesaggio all’esterno e iniziasti a fissare me. Poi ti bastò semplicemente riempire quelle pareti sottili della tua voce dolce, scandendo bene le sillabe prima di intrecciare le dita della tua mano alle mie, appoggiare la testa sulla mia spalla e addormentarti poco dopo. Feci attenzione a togliere le cuffie con calma, evitando di svegliarti, per sentire un nuovo tipo di musica; il tuo respiro regolare che si infrangeva sulla maglietta sottile che portavo. Il sole era sceso ancora e i raggi si abbattevano quasi con prepotenza sui ciuffi chiari dei tuoi capelli. Per proteggerti da quel fuoco invisibile feci piano e posai il mio capellino da baseball sulla tua testa. Ti sentì sospirare e nell’inconscio stringere più forte la tua mano nella mia. Anche in quel momento capì che la mia anima non esisteva più, l’avevi sostituita.


Ma il sole di quella stagione nonostante fosse uno dei più forti mai avvertiti, per me, fu freddo come il ghiaccio. Qualcosa cambiò e noi non fummo più quelli di prima. Semplicemente sparisti, lasciando spaiato l’anello che portavo al dito.

Io mi svuotai lentamente. Senza più un’anima e senza la tua presenza non mi restava nient’altro se non un misero guscio vuoto. I giorni si dilatarono e diventarono distorti come nel peggiore degli incubi, e tu semplicemente smettesti di esistere. I contorni della tua figura sbiadirono, diventarono impalpabili mentre i lineamenti del viso vennero cancellati come impronte sul bagnasciuga. La memoria diventò fragile e iniziò a giocarmi brutti scherzi.

Andando al Café, in un pomeriggio cupo, quando i primi venti iniziarono a sferzare, ordinai due tazze di caffè e attesi. Attesi ore, immerso in una logica contorta di pensieri, fin quando mi resi conto che il caffè ormai freddo che avevo di fronte non era per te.
Non era per nessun altro perché tu non saresti venuto.

Le mie mani, delle quali elogiavi sempre il tepore, divennero fredde come se un velo invisibile di morte avesse iniziato ad avvolgerle. Mentre qualcos’altro lentamente scavava nelle carni, dilaniando e divorando dall’interno in un lento meccanismo di morte.

Rivivevo i ricordi come se fossero un debole raggio di sole che arrancava per raggiungere la pelle fredda. Un involucro vuoto gestito da una mente ormai spenta. Mi chiesi se quell’involucro potesse raggiungere la pazzia senza la sostanza, senza la materia prima, se poteva davvero delirare rincorrendo ricordi evanescenti.

Un’ultima volta, mentre provavo a ricostruire, nella mente spenta, il puzzle intricato di pezzi di memoria consumata, giurai, un’ultima volta, di sentire una voce che a stenti riuscì a riconoscere, nascosta nelle cavità più oscure, troppo lontana nelle memorie.
Un’ultima volta sentì quelle parole, e quel raggio di sole raggiunse finalmente le carni ormai fredde e putrefatte, in un ultimo disperato tentativo di ridare vita ad un corpo morto.

 
« Saranghaeyo, hyung. »

 

NdAx2
Nel finale lascio libera interpretazione. In realtà la scomparsa di Taemin si può intendere tragicamente, ovvero come un vero e proprio abbandono per cause di forza maggiore, con una conseguente pazzia di Minho, che per un'ultima drastica volta riesce a sentire la sua voce prima della fine, consapevole che la mente lo ha ormai abbandonato al delirio. Ho detto che era una cosa molto senza senso, spero vi sia piaciuta nonostante tutto. Fatemi sapere cosa ne pensate! <3

   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > SHINee / Vai alla pagina dell'autore: heyitsliz