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Autore: Mushroom    11/02/2013    10 recensioni
«Per John. Fallo per John».
Sherlock alza un sopracciglio. Per John? Pensa. «Non vedo come questo sia correlato a John»
«È per il nostro matrimonio»
«Appunto»
«E non vedi come il nostro matrimonio sia collegato a John?»
Il buco nel petto di Sherlock si allarga un poco. «Non vedo come la tua imbarazzante incapacità come ballerina sia inerente al mio interesse. O al matrimonio»
Genere: Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I'm Not gonna teach you how to dance (with him)
He don't suspect a thing I wish he'd get a clue
I'm not gonna teach him how to dance with you.


Sherlock ha un buco nel petto fin da quanto John gli ha mostrato l'anello.
«Che dici?» domanda, con quel modo di sorridere incerto e nervoso tipico di John. È felice. È così genuinamente felice che Sherlock non riesce a stare male per lui, anche se fa male lo stesso. Sherlock borbotta, alzando appena gli occhi dal computer «Glielo darò stasera – un altro sorriso. Si sistema il colletto della camicia – dirà di sì?».
«È da stupidi pensare il contrario» risponde, pacato.
John lo guarda e il suo sguardo si accende. Sherlock ha sempre ragione su queste cose, e Mary dice di sì.


Mary ha due occhi blu oceano che John adora e che sono totalmente diversi da quelli trasparenti di Sherlock. Perché quelli di Mary sono definiti. Hanno un solo colore, un inizio e una fine. E sono splendidi.
Questo è quello che ha detto John. Testuali parole.
Sherlock li guarda e li odia con tutto se stesso.
«No» dice.
Mary sbatte gli occhi – odio – e arriccia le labbra – odio – e Sherlock le legge in volto che non si arrenderà, perché lo sta facendo per John. Sapeva che Sherlock non avrebbe acconsentito. Ha chiesto comunque. Continuerà a chiedere. Sherlock continuerà a dire di no. Le persone fanno un sacco di cose stupide per quelle che amano.
«Per piacere» accenna, avvicinandosi. È nervosa. Non è per Sherlock, no, si sono visti altre volte, ma non è mai stata nervosa. A John – Sherlock l'aveva letto nel suo viso – piaceva il fatto che Mary non fosse nervosa in sua presenza; gli piaceva che sapesse fronteggiare il detective. Mary è nervosa perché è a Baker Street, e quel salotto la rende un'estranea in una casa (in una vita. In delle vite) che non le appartiene. «Per John. Fallo per John».
Sherlock alza un sopracciglio. Per John? Pensa. «Non vedo come questo sia correlato a John»
«È per il nostro matrimonio»
«Appunto»
«E non vedi come il nostro matrimonio sia collegato a John
Il buco nel petto di Sherlock si allarga un poco. «Non vedo come la tua imbarazzante incapacità come ballerina sia inerente al mio interesse. O al matrimonio»
Mary si arrende. Solo per quella volta.

Torna a Baker Street il giorno seguente. Ha con sé uno stereo e dei cd. Sherlock si chiede quale delle due lettere che compongono la parola no sia sfuggita al suo sottosviluppato intelletto.
«Ho detto a John che sapevo ballare».
Non mi dire? Pensa, con acido sarcasmo. E non sarò di certo io a dirgli che non lo sai fare. Non sarò di certo io a rovinargli la sua perfetta Mary. «E lui – oh, Sherlock, lo conosci. Quell'uomo sa ballare il lento ed è un tipo romantico e balleremo sicuramente al matrimonio. Ti sto supplicando. Aiutami».
La voce di Mary è veramente un lamento impietoso, privo di qualsiasi dignità. Chiedere a Sherlock è la sua ultima sponda – anche perché il matrimonio sarà tra due settimane. Due settimane. Quattordici giorni. Otto ore. Trenta minuti. Quarantasette (quarantasei, quarantacinque, quarantaquattro...) secondi.
Sherlock tamburella con le dita sul tavolo. Continua a non capire come possa essere di suo interesse.
«Sei il testimone» insiste Mary. Si sistema i capelli. Li tiene in una coda di cavallo perché crede di sembrare più bella, anche se in realtà il suo aspetto non cambia in base al modo in cui raccoglie i capelli. Rimane sempre scialba. Banale. Tremendamente noiosa. «È un tuo dovere aiutarmi».
John dice che noiosa va bene, che banale è tutto ciò che vuole.
Lo diceva anche appena tornato dall'Afghanistan.
«Fare leva sui miei doveri non ha mai aiutato nessuno a smuovermi dalla mia posizione».
Mary sorride. Poi ridacchia. Ha gli occhi accesi di una scintilla (gioia) che confonde Sherlock. Aggrotta la fronte. Non capisce «John ha sempre detto che sei cocciuto» poggia i cd su una sedia. «Parla sempre così tanto di te. Voglio dire, sì, John racconta sempre la tua parte migliore».
Sherlock volta il viso. Deglutisce.
«E sai una cosa? È proprio merito suo se non ti trovo una persona insopportabile»

Torna il giorno dopo.
(Tredici giorni, dieci ore, quaranta minuti, trenta secondi dal matrimonio).
«La mia risposta continua a essere no, Miss. Morstan» dice, prima che la donna apra bocca. Pizzica le corde del violino. Vorrebbe non aver mai accettato il suo caso. Ma l'ha fatto. Era un caso troppo bello per rifiutarlo. Era un caso da otto. Sherlock non sa dire di no a un caso da otto.
Mary ha portato un altro cd. Imperterrita, entra nell'appartamento (Sherlock è sicuro di aver detto a Mrs. Hudson di non lasciarla entrare. Perché continua ad aprirle la porta?) e lo inserisce nel lettore.
Una disgustosa musica mal suonata inizia a diffondersi nel salotto.  
Poi si mette al centro della stanza. Sherlock la osserva con la coda dell'occhio.
«Farò qualsiasi cosa» dice «Qualsiasi cosa. Ti prego. Aiutami».
Sherlock sogghigna. «Non dire cose di cui ti pentiresti»
Mary prende un piccolo respiro. Deve convincerlo. Deve. «Davvero. Qualsiasi cosa»
«Allora lascia John»
C'è silenzio. Mary se lo aspettava. Sherlock no. Le parole gli sono solo sfuggite dalla bocca. Lascialo. Pensa. Anche se John è felice. Lascialo. Abbandonalo. Vattene. Era meglio quando non c'eri.
Sherlock ha paura di quei pensieri.
«Sei un egoista, Sherlock»
«Lo so» dice. Spegne lo stereo, senza guardarla in faccia, comportandosi da codardo, e poi inizia a suonare. Ma Mary non se ne va. Si sposta in cucina e prepara un tea. Due tazze. Quello di Mary è senza zucchero e senza latte. Poi si siede in una poltrona e rimane ad ascoltarlo.

Sherlock non sente John da giorni. Perché John è occupato con i preparativi. La scusa è quella. La verità è che Sherlock non vuole sentire John.
Il tea che ha fatto Mary si è raffreddato e si è addormentata sulla poltrona (quella di John). Pensa che se non tornerà a casa, John si preoccuperà. Pensa che potrebbe anche fraintendere perché la sua fidanzata sia a casa del suo migliore amico. È l'ora di pranzo, e il dottore ha un turno in ambulatorio.
Ogni giorno gli manda dei messaggi in diverse parti del giorno. Sono sempre gli stessi.

Vedi di venire al matrimonio – JW
E non perdere le fedi – JW
E non mi interessa se qualche pazzo serial killer decide di compiere un genocidio il giorno delle nozze o se il Dottore fa atterrare il TARDIS a Buckingham Palace. Può' aspettare la durata della cerimonia – JW

Rispettivamente alle tredici, alle quattordici e alle quattordici e venti.
Quel giorno, i messaggi sono diversi.
Il primo arriva mentre Sherlock sta buttando il tea (Grazie – JW) nel lavandino. Il secondo, mentre sta tirando fuori il microscopio (Di esserci stato, intendo. È stupido da dire? - JW). Il terzo, mentre Sherlock legge il primo (Ero così solo. E tu sei stato un amico. Forse amico è poco. Per cui grazie. Ti devo così tanto – JW).
Il buco nel petto di Sherlock si allarga fino a farlo cadere dentro.
Risponde (Il matrimonio ti sta facendo diventare sentimentale. Più del solito – SH) mentre sveglia Mary.
Perché Mary darà a John tutto ciò che Sherlock non è mai riuscito a dargli. Tutto ciò che non potrà mai dargli. È giusto. È così. Sherlock odia che sia così. Odia fare la cosa giusta. Odia vedere John felice non a causa sua. Però ama che John sia felice.
I sentimenti (Mary si sveglia stropicciandosi gli occhi. Crede che Sherlock voglia mandarla via. Non è così) non sono un vantaggio. Ne ha fatto a meno per così tanto tempo. Ora non si ricorda più com'è non averne.



«Ho detto prima il piede sinistro, poi quello destro» sbotta Sherlock, arruffandosi i capelli, maledicendosi per la propria benevolenza. Mary sbaglia – di nuovo, e si chiede cosa ci sia di sbagliato in lei. Sta cercando di insegnarle uno dei balli più semplici, ma si muove come un pezzo di legno. Sherlock si sta trattenendo dall'urlarle contro.
«Ho capito» risponde Mary, stringendo i denti, ma sbaglia di nuovo. Si muove in mezzo alla sala, stringendo un compagno immaginario, mentre Sherlock la osserva seduto sul divano, immerso nella sua costosa vestaglia azzurra.
La mancanza di serial killer dell'ultimo mese è niente in confronto ai tre giorni passati cercando di educare quella donna al ballo.
«Se magari ti alzassi dal divano» propone «E venissi tu stesso a farmi vedere come si fa» continua, sapendo di starsi spingendo troppo in là. Mary fa sempre cose che la portano a spingersi troppo in là, anche se non dovrebbe. Sua madre la rimproverava sempre per questo. John – invece – lo adora. «Forse apprenderei più in fretta».
«Mai»
«Più in fretta apprendo, meno tempo dovrò passare con te».
E Sherlock è subito in piedi. Quando la afferra, attirandola per le braccia, è rude. Fa una smorfia di puro disgusto, ma inizia comunque a fare quello che qualsiasi insegnante di ballo farebbe. «Seguimi» dice, e Mary lo fa. Ora è facile. Anche se odia come Sherlock la guarda, non solo perché la ripugna. Odia il suo sguardo perché la fa sentire in colpa. Assurdo, vero? Per aver distrutto cosa, poi? Non ha distrutto niente, no? Quindi cerca di sorridere. Non è colpa mia, si ripete, e riesce a rilassare le spalle.
Rimangono in silenzio, e la musica che Sherlock odia tanto copre i suoi pensieri. Ha la sensazione che Sherlock li senta chiari e forti, però. È agghiacciante quanto sorprendente. Poi lui si ferma. Dice solo «Fai qualcosa – qualsiasi cosa – che io possa ritenere inadeguata o sbagliata nei confronti di John, e sulla mia prossima scena del crimine sarai tu ad essere la vittima» e sembra la cosa più difficile che Sherlock abbia detto in tutta la sua vita.
«Lo amo»
E Sherlock pensa che non è abbastanza.


Mancano tre giorni, otto ore, sei minuti, venti secondi al matrimonio di John.
Mary sa ballare. Più o meno. Pesta i piedi a Sherlock più volte, ma è accettabile, o qualcosa di vagamente decente per permettere a Sherlock di smettere di darle lezioni di ballo.
«Ti ringrazio davvero tanto».
Sherlock non stacca gli occhi dal microscopio. Annota qualcosa sul quaderno con la mano sinistra.
«Voglio che tu sappia che non cambierà niente, tra te e John».
Sherlock regola il microscopio.
«Non potrei mai tenerlo lontano dai suoi amati casi».
Sherlock non dice niente. Non sa neanche cosa stia ingrandendo con quelle lenti. Non sa neanche perché non la zittisca.
Mary se ne va, e con lei anche l'ultima parte di John che era rimasta a Baker Street.


Mancano due ore, tre minuti, cinquantasette secondi al matrimonio di John.
Sherlock osserva il proprio riflesso nello specchio del bagno. È vestito come tutti si dovrebbero vestire per un matrimonio (a quanto dice Mrs. Hudson) con un completo nero. E la cravatta. Sherlock l'ha sempre odiata. Lascia i lembi appesi sotto il colletto della camicia, perché non sa neanche da dove cominciare a fare il nodo.
John ha dormito a Baker Street. Dice che porta male vedere la sposa il giorno prima del matrimonio.
Assurdo. Stupido. Ci convive. Ci ha fatto sesso. Perché non vederla il giorno prima? Non capisce.
«Sei pronto?»
John entra nel bagno con il suo smoking e il suo farfallino perfettamente annodato. Dice anche che deve assicurarsi che Sherlock venga, ed è per questo che non riesce a lasciarlo da solo.
Lo guarda dall'alto in basso. «Sì» risponde brontolando. Fa per togliersi la cravatta, ma le mani di John lo fermano. Sorride. Non riesce a smettere di sorridere. Gli solleva il colletto, sfiorandogli la pelle del collo, e sistema il nodo della cravatta. Abbassa il colletto, raddrizza la cravatta.
«Ora lo sei davvero» gli da una pacca sulla spalla «Andiamo. Sotto c'è un taxi che ci aspetta».
Sherlock annuisce. Perché Mary lo ama. John ama Mary. Ed è giusto. Ed è abbastanza.

   
 
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