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Autore: LyraB    15/02/2013    2 recensioni
I miei passi non facevano rumore sull'erba fresca; l'unico suono che si sentiva era il fruscio delle foglie attorno a me e un rombo lontano, indistinto, il rumore di qualcosa che non riuscivo a identificare perchè non l'avevo mai udito prima. Tendendo il più possibile le mie orecchie al di sopra dei fruscii e dei ronzii degli ultimi insetti ancora a caccia di fiori sentii il suono delle sue lacrime.
Erano perle d'argento che scivolavano su guance rosa, minuscole scaglie di luce fatte sparire dalle sue piccole dita. Potevo sentirne il sapore sulle labbra e sentivo una mano stringermi forte quello che avevo dentro la pancia.
Genere: Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Fairytale




L'avevo conosciuta in un pomeriggio d'autunno.

Le foglie erano d'oro, ambra e bronzo e volteggiavano come petali di fiori nell'aria calda e ferma prima di posarsi sui prati ancora colorati dal brillante verde dell'estate.
Come ogni pomeriggio mi ero affacciato nel suo cortile aspettandomi di vederla piroettare nel prato intonando una filastrocca con quella voce che sembrava fatta di campanelli d'argento... ma lei non c'era. Il cortile era vuoto e silenzioso e la sua bambola era abbandonata sull'erba con i capelli arruffati e il vestitino spiegazzato.
Non avrei dovuto avvicinarmi, lo sapevo.
Non avrei dovuto parlare con lei, mi avrebbe stregato e portato con sé, e non avrei mai più rivisto la mia famiglia. Lo sapevo. Me lo ripetevano ogni giorno.
Ma in quel momento non mi importava.
Aggirai il cespuglio dietro al quale mi nascondevo per spiarla e feci qualche passo nel cortile deserto. La casa aveva le imposte chiuse e sembrava non ci fosse nessuno nei dintorni, ma era la normalità: non avevo mai visto nessuno con lei. Mai nessuno, come se non avesse una famiglia, come se nessuno volesse prendersene cura. Nessuno a parte me.
I miei passi non facevano rumore sull'erba fresca; l'unico suono che si sentiva era il fruscio delle foglie attorno a me e un rombo lontano, indistinto, il rumore di qualcosa che non riuscivo a identificare perchè non l'avevo mai udito prima.
Tendendo il più possibile le mie orecchie al di sopra dei fruscii e dei ronzii degli ultimi insetti ancora a caccia di fiori sentii il suono delle sue lacrime.
Erano perle d'argento che scivolavano su guance rosa, minuscole scaglie di luce fatte sparire dalle sue piccole dita. Potevo sentirne il sapore sulle labbra e sentivo una mano stringermi forte quello che avevo dentro la pancia.
Rapido, senza pensare, mi avvicinai alla fonte di quella sensazione: era un gigantesco noce ancora carico di foglie e dal prato dove mi ero fermato l'oro e l'ambra la nascondevano bene, tanto che tra le fronde si vedevano solo due deliziosi piedini.
- Perchè piangi? - Domandai, stupendomi di come la mia voce suonasse strana, lì fuori.
Le lacrime smisero improvvisamente di scorrere e riuscii a sentire le mani che le asciugavano rapidamente. Un attimo dopo la sua voce d'argento ruppe il silenzio.
- Tutti mi prendono in giro. -
- Cosa vuol dire? - Domandai.
La risposta fu un sonoro singhiozzo e il sapore delle lacrime si posò di nuovo sulle mie labbra.
- Cosa vuol dire? - Chiesi ancora, con la voce più roca, sapendo di essere io la causa di quel male che sentivo crescere dentro di lei e dentro di me.
- Che non mi vogliono bene. Che ridono quando arrivo. -
- Perché? - Domandai ancora, avvicinandomi al tronco per sperare di vederla. Volevo vederla. Avevo bisogno di vederla. O forse speravo che lei vedesse me, ora che avevo avuto abbastanza coraggio da farmi scoprire.
- Perché ho un solo vestito. Perché sono sempre a piedi scalzi. Perché mangio solo ogni tanto. Perché canto e rido e ballo. - La sua voce si incrinò e invece di mille campanelle sembrava di sentire il suono di rami che si spezzavano.
E in quel momento capii. La sua voce spezzata e quello che mi aveva detto.
Lei stessa, che ballava e cantava nel suo abito arancione e a piedi nudi, in quel cortile.
- Non piangere. - Dissi, sorridendo. Avevo capito. Mi sembrava così semplice, in quel momento, che mi chiesi perchè non ci avevo pensato prima. - Non piangere, perchè tu sei speciale. -
- Io speciale? - Fu il fruscio di campanelle di risposta.
- Sì. - Dissi, appoggiando la mano al tronco del noce e alzando gli occhi. Come richiamata dal mio tocco sul tronco, lei apparve alla mia vista.
Il visetto tondo, i grandi occhi neri, i capelli che sembravano colorati dall'autunno, tanto erano caldi e intensi nei loro marroni, le labbra rosee e le guance tonde. L'abito arancione che tanto amavo e le sue piccole mani che si sfregavano ancora gli occhi, cercando di nascondere le tracce del pianto.
- Hai un solo vestito e sei sempre scalza. Non mangi quasi mai ma canti, ridi e balli sempre. - Dissi, rendendomi conto che più la guardavo più mi sentivo riempire della stessa sensazione che facevano sbocciare in me i primi fiori - E sono sicuro che ami le cose che brillano. -
- Mi piacciono tanto. - Fu la sua risposta.
Aggrappandomi prima a un ramo e poi all'altro, salii fin dove c'era lei, sentendomi incredibilmente strano nel vederla da vicino. Le sue mani erano simili alle mie, così piccole e morbide. Il suo naso, le sue labbra... tutto, in lei, era incredibilmente simile a quello che c'era in me. Ma era anche profondamente diversa. I suoi occhi sembravano laghi profondissimi in cui annegare, mentre i miei erano pozzanghere d'argento come dipinte nel bosco dagli acquazzoni dell'estate. Allungai una mano sulla sua testa, stupendomi di come i suoi capelli colorati d'autunno fossero morbidi.
Sorrisi, vedendo le sue guance colorarsi a quel tocco.
- Tu non sei strana. - Dissi avvicinandomi ancora di più a lei per vedere solo i suoi grandi occhi. - Sei una fata. -
Pronunciai quelle parole in un sussurro, temendo di spezzare l'incantesimo che contenevano, rendendomi conto di quanto fosse grande la magia che avevo appena pronunciato.
E, come a dare ragione al mio pensiero, lei comprese la grandezza della mio coraggio, stupendosi e spalancando occhi e bocca in un'espressione adorabile.
Con gli occhi neri colmi di uno stupore che aveva cancellato anche le ultime tracce di lacrime, mi guardava fisso. E all'improvviso tese lei una mano verso di me, toccandomi la punta del naso.
Speravo che vedesse quanto fossimo simili, in modo da farsi spuntare le ali e venire con me nel bosco, senza tornare mai più in quel prato dove era obbligata a essere sola. A essere diversa.
Rimanemmo in silenzio per qualche minuto, circondati dalle fronde di ogni colore come da un muro incantato che ci univa e ci separava dal resto del mondo, osservandoci a vicenda scoprendo sempre più quanto fossimo simili. Il sole era tiepido, l'aria calda e dolce, il mondo sembrava essersi fermato attorno a noi e avrei voluto far durare quell'attimo per sempre.

Invece adesso sono qui, arrampicato tra le fronde verdi dello stesso noce. I miei piedi e le mie mani sono rimasti quelli di allora, il mio naso sente ancora il suo tocco gentile.
La guardo al di là della tenda senza riconoscerla, senza quasi riuscire più a vedere i suoi occhi, nascosti sotto lo spesso strato di oscurità che si dipinge sugli occhi ogni giorno. Le sue labbra non sono più quelle che conoscevo, ora che sono dipinte con l'intenso rosso dei mattini che annunciano pioggia. Niente più abito arancione, niente più piedini nudi. Ora indossa strani abiti sempre diversi, che mi fanno paura, così scuri e di forma strana, che sembrano lasciarla nuda anche se la ricoprono.
Non esce più in cortile, non alza gli occhi verso il noce, non canta e non balla. La sua bambola è nascosta chissà dove, è tanto tempo che non la vedo più.
Il tempo è passato, ma non me ne sono accorto.
Io mi sono limitato a continuare a farmi trovare qui, ai piedi del noce, ogni pomeriggio. Ma lentamente, lei ha smesso di venire. Prima mancava una volta ogni tanto, poi sempre più spesso. All'inizio mi diceva una bugia, mi raccontava che doveva studiare, che era stata ammalata... ma poi ha smesso anche di giustificarsi. A volte mi vedeva qui fermo e si allontanava dalla finestra, tirava la tenda e non si riaffacciava più per il resto del tempo.
È cambiata, sì. Cambiata perchè le sue dita non sono più rosee e paffute, le sue guance non sono più tonde, i suoi capelli del colore delle castagne ora sono lunghi e spettinati.
Ma lei c'è ancora, e io lo so.
Lo so perchè quando mi avvicino a lei la sera, quando le luci sono spente e lei toglie quegli strani abiti per infilare una veste bianca, quando l'oscurità dipinta sui suoi occhi e il mattino che colora le sue labbra si cancellano... allora è ancora lei, e io la riconosco. Scivolo accanto al suo letto e la guardo dormire, riconoscendo in lei quella che amavo. Quella che amo.
Un pomeriggio di qualche tempo fa - poco o tanto non lo so più - lei mi ha toccato il petto e mi ha chiesto se avevo lì dentro quello che aveva lei.
Io le ho risposto di sì:
fate e faerici sono uguali, anche se all'apparenza paiono diversi.
Lei allora si è chinata verso di me e mi ha posato le sue piccole labbra rosa sulla guancia.
Non mi ero mai sentito in quel modo e mai più mi sentirò così nella mia vita.

Il segno del suo tocco si è dipinto sulla mia pelle tanto da impedirmi di nascondere quello che avevo fatto e la mia famiglia mi ha allontanato. La mia gente ora mi considera un diverso, non mi vuole più bene e ride di me quando arrivo.
Sono fermo su questo albero da tanto tempo e continuo a sperare che lei si avvicini, che salga quassù per raggiungermi e per dirmi che non sono strano. Che sono solo umano.









Questa storia è stata scritta per una specie di contest del fanfiction.blogfree,
un forum di una mia amica che frequento abbastanza spesso.
La canzone che mi ha ispirata è
Fairytale di Alexander Rybak,
anche se l'idea di fondo l'avevo in mente da tempo.
Spero che possa piacere, anche se i suoi toni sono un po' troppo tristi per i miei gusti.
Grazie per aver letto

Flora
   
 
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