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Autore: Shinushio    16/02/2013    21 recensioni
A Kuroichan
[…]
< Sempre a puntualizzare. Gay, bisex… non cambia il fatto che ora stai col sottoscritto. >
< Appunto. Tu sei l’incarnazione dell’accidia mestruale delle donne. >
[…]
Venti sigarette per venti momenti diversi. Incontrarsi, conoscersi, sopportarsi ed infine innamorarsi.
[JongKey]
Genere: Fluff, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jonghyun, Key, Minho, Taemin
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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L’ABC della storia (da tradursi con “lasciate ogni speranza o voi ch’entrate”):

 

Oddio, non lo credevo possibile, non così presto perlomeno: ho postato la mia prima fiction sugli SHINee** Confesso di essere emozionata come una bambina dentro a un negozio di giocattoli.

Dunque che dire? Vado coi warnings? Ma sì, non sia mai che manchino all’inizio di una mia storia u.u

 

1)       Jongkey: Perché sì. È stato il mio primo OTP all’interno del gruppo e, come dicono di questi tempi, il primo amore non si scorda mai. Poi è inutile che ce la rigiriamo: Jonghyun e Key insieme sono tanta roba, punto u.u

2)       Struttura della shot: Ah, state freschi, è una vera e propria epopea. L’idea di base era quella di creare venti flashfic che, come narrato nell’introduzione, riassumessero venti momenti diversi della love story fra Jonghyun e Key. Il concetto chiave qui è “idea di base”: mi vergogno da morire ad ammetterlo ma la sottoscritta e la sintesi vengono da due pianeti paralleli destinati a non incrociarsi mai. Conclusione: nessuna delle flashfic che state per leggere conta cinquecento parole o meno, viaggiano tutte fra le cinquecento e le mille.

3)       Trama: Nessuno spoiler, tranquille. Voglio solo specificare una cosa e togliermi così ogni responsabilità: non sapevo che diavolo stavo scrivendo e soprattutto perché lo stavo facendo. Detto così suona brutto, lo so, ma è la verità. Questa shot si è scritta da sola, ho lasciato pascolare ogni sentimento verso lidi sconosciuti che l’hanno condotta, vista crescere, quindi chiudersi come il papiro interminabile di bla-bla-bla qua sotto riportato. In teoria ha una trama… ma sì che ce l’ha, convincetevene prima di cominciare a leggere, sta qui il segreto.

4)       Rating: Un arancione che più falso non si può. Io la collocherei fra giallo e arancione, ma non esiste, che so, un azzurro intermedio;.; In ogni caso il rating è alto per alcune esclamazioni non propriamente eleganti dei protagonisti e una mezza scena non approfondita e all’acqua di rose di sesso.

5)       L’OOC: Non mi arrogo mai il vanto di azzeccare la caratterizzazione di PG che esistono nella realtà, sarebbe un terno all’otto. Oltretutto, ognuno di noi ha una visuale diversa di come sono, cosa fanno e cosa pensano. Secondo il mio opinabile parere il Key della mia shot è abbastanza IC. Jonghyun no, è partito per la tangenziale, rassegnatevi.

6)       Dedica: Qualche giorno fa ho ricevuto un messaggio privato che mi ha emozionato e commosso come mai prima d’ora. Se ho deciso di dedicare questa shot a questa persona è per disinteressata riconoscenza e gratitudine nei suoi confronti. La cosa buffa è che non so neanche se conosce gli SHINee, se gradisce la coppia o che ne so, visto che attualmente mi segue su un altro k-pop fandom. Fatto sta che sentivo il bisogno di dedicargliela: mi spiace solo che la storia non sia nulla di che, scritta a cuor sereno, senza aspettative e le seghe mentali che stanno a priori di ogni mio scritto. A Kuroichan vanno i miei più sentiti ringraziamenti.

 

Sperando riusciate ad arrivare alla fine, vi lascio alla lettura. Grazie in anticipo a chi ce la farà ;.;

 

P.S. Riporto qua sotto la canzone che mi ha aiutata a scrivere, mi ha accompagnato e letteralmente strappato fuori ogni parola. Se avete voglia cercatela, ascoltatela mentre leggete: vi giuro che è bellissima**

 

 

 

 

Colonna sonora:

 

Utada Hikaru: Sakura Nagashi

(Grazie, Maika)

 

 

 

Il ragazzo delle MS

 

1.

Jonghyun aveva guardato a lungo il pacchetto di MS incastrarsi tra le sue dita, la plastica trasparente sezionare la luce ed irradiarla negli occhi del ragazzo che gli stava innanzi. Aspettavano entrambi una sua risposta, un cenno che dissipasse la convinzione che si era costruito quella mattina quando, andando a comprare le sigarette, si era sentito dire che avevano finito le Malboro: quella sarebbe stata una pessima giornata. Si era dovuto accontentare di una marca da, come li definiva lui, finti fumatori. Aveva scelto sinceramente a caso, forse per simpatia, non si saprebbe rispondere, e aveva assaporato il sapore acre dell’insoddisfazione una volta uscito dal tabaccaio, un pacchetto di MS nero pece in mano e dieci minuti per arrivare al Namsan Park a disposizione.

Con lentezza esasperante, aveva cominciato a graffiare la linguetta precariamente attaccata al resto dell’imballo. Aveva annusato l’aria densa di nicotina e smog seulese prima di portarsi una sigaretta alle labbra, mordicchiare il filtro ed arricciare il naso indispettito. Poi se l’era accesa, inspirando a fondo, pensando che era anche peggio di quanto avesse immaginato. Non era così che avrebbe voluto inaugurare quella storia, non era così che faceva di solito. L’abitudine è una brutta bestia, si era detto guardando il cielo plumbeo: neanche lui gli dava soddisfazioni quel giorno.

< Allora? Facciamo coppia? >

La voce del ragazzo aveva rigato l’orizzonte pregna di timore. Una smorfia nervosa deturpava le sue labbra, piene e femminee, affondate in uno sciarpone di lana nero.

Jonghyun aveva studiato in silenzio il ticchettare nervoso dei suoi piedi sull’asfalto, la timidezza corposa gravargli sulle spalle e quell’alone d’innocenza troppo abbagliante che tratteggiava il suo corpo, troppo perfetto per essere vero.

Aveva annuito, senza porsi però alcuna aspettativa, senza il benché minimo interesse. Il tabacco delle MS era troppo insipido per i suoi gusti, esattamente come quel ragazzino, quel… come aveva detto che si chiamava? Kim Bum? Kim Kong? Ah! Kim Kibum, già. Come aveva fatto a dimenticarselo? A sette anni i suoi gli avevano regalato un volpino con una targhetta al collo recante lo stesso nome. Tra l’altro, quel tipo aveva un po’ l’aria del cagnolino, quello che per una grattatina alle orecchie avrebbe accettato qualsiasi umiliazione.

< Ci scambiamo i numeri? Ti va? >

Gli aveva dato il suo cellulare, un vecchissimo Motorola ormai fuori produzione, continuando a fumare senza proferir verbo. Lo aveva lasciato fare, abbozzare qualche discorso atto a incrinare la nube d’imbarazzo che, a suo vedere, doveva metterli a disagio. Kim Kibum tutto sommato gli faceva pena: era un bravo ragazzo, aveva sentito dire che frequentava la Sogang University, che era uno studente modello. Doveva essere proprio sfortunato, però, per aver incrociato la strada con la sua pochi giorni fa. Dopotutto lo sapevano anche i muri, no?, che la sua fama era malata quanto le acque putride del fiume Han.

< Ok… allora… ci sentiamo, sì. > aveva detto lanciandogli un’ultima occhiata prima di scappare a gambe levate.

Jonghyun lo aveva guardato allontanarsi, i contorni storcersi nel fumo fino a dilatarsi, opacizzarsi.

Fare coppia, aveva detto. Peccato che per lui Kim Kibum fosse solo una scopata e nulla più.

 

2.

Avvertiva distintamente ogni vertebra danzare sotto le sue dita, le scapole schiudersi come le ali di un angelo, la pelle lacerarsi al contatto con le sue unghie.

Jonghyun osservava ammaliato il corpo perfetto di Kibum brillare di luce propria, catalizzare in ogni stilla di sudore la luce fioca sfuggita al blocco degli infissi e il torace stretto alzarsi, abbassarsi, quindi rialzarsi affannosamente, seguendo il ritmo del battito del suo cuore. Le guance poi, velate di un rosso innocente, esaltavano la vergogna pudica di chi fa di tutto per nascondere la paura della prima volta. Qualche ciuffo di capelli castano, umido come le loro lingue occupate a ricorrersi in un gioco senza vincitori né vinti, gli incorniciava gli angoli degli occhi a mandorla leggermente dischiusi.

Jonghyun aveva assaporato appieno la consistenza della sua pelle, l’aveva trovata morbida come i petali di una rosa. Senza fretta, senza pressioni. E non aveva potuto reprimere il desiderio di affondare i denti nel suo polso, mordere fino a farlo sanguinare, incurante delle urla di dolore che gli giungevano ovattate all’orecchio: ogni cosa di Kibum lo estasiava, tutto sembrava essere nato per incastrarsi al suo corpo. Erano come due pezzi di puzzle, predestinati per stare insieme, o meglio, per scopare.

Aveva provato ad allargargli le gambe senza guardarlo o rispondere al richiamo tacito che, da povero ingenuo, gli stava rivolgendo. Si era ritagliato uno spazio coi fianchi tra le sue cosce, li aveva adagiati incurante sulle ossa scoperte dell’amante strappandogli un gemito di dolore, che lui aveva volutamente reinterpretato scambiandolo per eccitazione. E lo aveva penetrato senza preamboli, senza preparazione, senza parole dolci a rassicurare la bestiola indifesa che, spaventata, si stringeva al suo petto.

Era stato meraviglioso, la migliore scopata della sua vita. Nessun uomo o donna del passato, e sospettava del futuro, avrebbero potuto reggere il confronto. Nessuno.

Una volta finito, si era staccato dal suo corpo provato pescando una sigaretta dal pacchetto abbandonato a terra. Se l’era accesa senza preoccuparsi di chiedere il permesso, o assicurarsi che Kibum stesse bene: lo sentiva respirare, mugugnare tra le lenzuola sporche di desiderio e sesso, quindi morto non poteva essere.

< Come… come…? > aveva annaspato, rivolgendogli un’occhiata fugace.

Jonghyun aveva ammiccato, stiracchiando le gambe indolenzite e i muscoli addormentati.

< Com’è stato? > aveva concluso. < Passabile direi. >

Che gran bugiardo. Che grandissimo pezzo di merda.

Kibum aveva sospirato grattandosi la punta del naso con l’indice destro.

< Sai… era la mia prima volta con- >

< Un uomo? >

< Sì. >

< Eri vergine quindi. >

< Beh, no. >

< No? >

< Ho avuto una ragazza. >

Jonghyun aveva contratto la mandibola in una morsa furiosa.

< Una ragazza? > aveva ripetuto.

Kibum lo aveva guardato con occhi dapprima sorpresi, poi preoccupati, infine divertiti. Quindi era scoppiato a ridere, gli aveva colpito l’avambraccio con forza e si era avvinghiato al suo petto ancora nudo.

< Si può sapere che cavolo stai facendo? > gli aveva chiesto irritato, la cenere della sigaretta a bruciare sull’inguine scoperto.

Lui aveva continuato a ridere prendendogli la mano e baciandola.

< Fai tanto il duro, il freddo, insomma, lo stronzo sociopatico, e poi mi cadi così sul più bello? Cos’è, sei dispiaciuto per non essere stato il primo? >

Jonghyun non lo avrebbe mai ammesso perché sconvolto, oltre che irrazionalmente orgoglioso. Si chiede tuttora se le cose sarebbero andate diversamente se solo avesse accettato quelle parole come un dato di fatto e non le avesse saggiate per sabbia al vento.

 

3.

Kim Kibum sostava davanti alla bacheca dove, affissi come innumerevoli margherite, pendevano le valutazioni dell’ultimo esame di beni culturali. Gli occhi incollati sul registro vagliavano veloci la lista di nomi nero china, stampe impersonali di un pc che forse non avrebbe mai visto. Si mordicchiava le pellicine delle dita con fare laconico, torturava i ruderi d’imposizione traditi dalla ruga di preoccupazione stigmatizzata sulla fronte. Jonghyun lo guardava a debita distanza, seduto su un muretto di sassi appunti che gli schiacciava i tendini delle caviglie. Per ingannare l’attesa aveva cominciato a fumare e a lanciare qualche occhiata languida ai sederi delle ragazze fasciati in gonne a pieghe che, a ogni passo, accarezzavano le loro gambe nivee e lisce. Non erano poi tanto diverse da quelle di Kibum, di una grazia e bellezza rara, delicate quanto le foglie secche e rosse d’autunno. Qualcuna gli aveva rivolto un cenno compiaciuto e un saluto caloroso, un invito a raggiungerle e una probabile notte di fuoco. Forse le avrebbe chiamate, forse avrebbe ceduto, se Kibum non gli si fosse gettato tra le braccia con un sorriso grato stampato in faccia.

Cosa ci faceva di preciso lui lì? Perché si era fatto incastrare in quella cosa da fidanzatini melensi? La sua concezione di storia, specie se con un uomo, non andava al di là di una o due scopate, o meglio di un pacchetto di sigarette. Com’era che adesso si ritrovava a scorrazzare il suo trastullo sessuale dove questo gli chiedeva?

< Cento!! > aveva urlato Kibum baciandolo davanti a tutti e prendendogli le mani.

Jonghyun lo aveva allontanato subito, infastidito dagli sguardi allibiti, altri disgustati, degli studenti: non gli piaceva essere al centro dell’attenzione, men che meno per questioni private come quella.

< Ora possiamo andare? > aveva chiesto cercando nelle tasche del giubbotto le chiavi della sua moto.

< Andiamo a festeggiare? >

< Se per festeggiare intendi scopare, allora sì. >

Kibum aveva scosso la testa seccato e piegato gli angoli della bocca in un sorriso sadico.

< No, intendo dire uscire assieme, andare a mangiare i noodles, poi il cinema ed infine lo shopping. >

< Devi essere completamente impazzito. Ti ho già accompagnato a scuola, cosa ti fa credere che io accetti di stare a questo tuo stupido gioco? >

< Il fatto che non scoperò più con te se non lo fai? >

Quello era stato il momento in cui si era reso conto per la prima volta di chi fosse davvero Kim Kibum. Sotto la maschera da bravo ragazzo, quella di una timidezza sconfinata e di bon-ton francese, si nascondeva un ragazzo impertinente e senza peli sulla lingua, uno di quelli che ciò che decretava doveva essere accordato ed eseguito. Non un agnello, non un leprotto, bensì un gatto capriccioso che tesseva inganni a regola d’arte sul suo manto liscio come la seta, fulvido di colori accecanti.

Jonghyun aveva sbuffato porgendogli il suo casco con l’entusiasmo di chi sapeva che stava andando incontro alle pene dell’inferno.

< Dove andiamo? > aveva chiesto.

Kibum aveva sorriso vittorioso, gli occhi piegati in due ali di gabbiano.

< Ora sì che ragioniamo.  >

Stretto del giubbotto di pelle bruciata, Jonghyun aveva pensato che forse la situazione stava cominciando a sfuggirgli di mano.

 

4.

Il plico di fogli abbarbicato sulla mensola sopra la testa di Jonghyun minacciava di cadere da un momento all’altro. Si trattava per lo più di volantini pubblicitari, persi fra varie offerte di lavoro che aveva accatastato seguendo un ordine impreciso e privo di logica. Assomigliava un po’ alla torre di Babele, un enigma senza risposte che aspettava solo una sua presa di posizione.

Steso a gambe aperte sul divano di casa e con lo stecco di un ghiacciolo ormai sciolto sulla lingua, Jonghyun guardava la televisione ignorando il muovere concitato del suo coinquilino, Minho. Lo infastidiva il fruscio del vento serpeggiare tra i rami del noce fuori, l’alito primaverile accarezzargli la pelle accaldata. Odiava anche il profumo fragrante di cannella che veniva dalla cucina, che occultava l’aria viziata di cui era pregno il plaid ai suoi piedi. La canotta bianca aderiva perfettamente al suo addome bagnato. Avrebbe dovuto levarsi di dosso quell’impaccio, come avrebbe dovuto togliersi dalla testa il sorriso troppo dolce di Kim Kibum. Ma per quanto ci provasse, per quanto lottasse per ricacciare indietro la voce melliflua e le immagini seducenti del suo corpo nudo, queste tornavano a stuzzicare puntualmente la sua immaginazione portandolo a desiderare la sua presenza accanto.

Aveva solo bisogno di una sana scopata, niente di più, niente di meno, si era detto. O almeno così aveva decretato. Che poi fosse vero o no, aveva deciso di non considerarlo.

< Ma dai, non ti ho mai visto in condizioni così pietose. >

Si era voltato a guardare Minho, più i libri posti in fila indiana sul tavolo dietro al quale si era seduto: anche Minho, come Kibum, era uno studente universitario. Gente spocchiosa predisposta all’egocentrismo. Per loro era facile catalizzare le invidie di quelli come lui, poveri disgraziati che per sbarcare il lunario si umiliavano in impieghi degradanti. Non che fosse cattivo, per carità: era il contesto di perfezione che decorava i suoi giorni a essere ingiusto.

< Di cosa stai parlando? > aveva chiesto.

< Del tuo sguardo perso nel vuoto, o del fatto che stai guardando Boys Before Flowers senza cambiare canale, o semplicemente della sbandata colossale che hai preso per la tua nuova fiamma, come l’avevi chiamata? Il ragazzo delle MS, Kim Kibum mi pare. >

< Ma che- >

< Sì, sì, nega pure, lo fai sempre quando devi ammettere che ho ragione. > Minho aveva calato lo sguardo sulle pagine degli scritti, sfogliando distrattamente alcuni appunti presi durante le lezioni.

< Pensa a quello che ti pare, non m’importa. >

< Oh, giusto, dimenticavo le tue battute saccenti. >

< Guarda che di saccente qui c’è solo la tua ostinazione. >

< Come preferisci, tanto non sono io quello che si sta bevendo il cervello davanti a un Drama per ragazzine. >

Si ricorda di aver nascosto le mani dietro alla schiena per impedirsi di scattare sull’attenti e strangolarlo. Non aveva bisogno di una nuova coscienza: per quanto compromessa, voleva continuare a fare affidamento sulla sua.

< Quando esci, porta giù la spazzatura. Devi vederti con Kibum tra mezzora, no? >

Come dimenticarlo, non faceva altro che pensarci da un’ora a questa parte.

< Non puoi farlo tu scusa? >

< Non so se hai notato, ma sarei un tantino impegnato: domani ho un esame sulla nomenclatura IUPAC e quella tradizionale, non posso farmelo andare male. > E non poteva per davvero se voleva mantenere la sua media del cento su cento, facoltà medicina.

Jonghyun aveva sbuffato alzandosi in piedi, la schiena avviluppata in un nodo di dolori. Era irritato, non tanto con Minho, chiaro, quanto con se stesso, per motivi che neanche lui conosceva e che, sapeva, facevano meglio a rimanere occultati. Indossata una felpa col cappuccio, aveva oltrepassato Minho decretando così chiusa la conversazione, il pacchetto di sigarette già pronto in mano: doveva smorzare il malumore, non era il caso di guastare gratuitamente quella che, sentiva, sarebbe stata una bella giornata. No, meglio, lo sarebbe diventata incontrando Kibum.

Chiavi in tasca, sacco dell’immondizia pronto: Jonghyun aveva pensato che sarebbe stato giusto buttarsi assieme alla spazzatura dentro al bidone della raccolta differenziata. Categoria: vetro. Tagliente. 

 

5.

Kim Kibum sorseggiava il caffè ormai gelido preso da Starbucks sui gradoni del parco, avvolto come di consueto nella sua sciarpa preferita e col cappello poggiato sulle ginocchia magre. La vecchia polaroid di nonno Kim, una SX-70 Land Camera Alpha, giaceva immobile al suo fianco: era di un grigio scuro non dissimile dal colore del cemento delle strade, guardandola avresti detto che veniva da un universo parallelo sconosciuto all’uomo. Nonno Kim gli aveva raccontato che quella bellezza aveva visto le gambe di Marylin Monroe in tempi migliori. Non aveva mai dubitato della veridicità delle sue parole, neanche quando aveva scoperto che quel modello era uscito in commercio dopo la morte dell’allora giovane attrice.

< Ancora non ci credo, è già passato un mese. > aveva detto a un annoiato Jonghyun. < Un mese che stiamo insieme, è tanto non credi? >

< Mh. > Jonghyun aveva annuito senza sbilanciarsi, senza confessargli che quella era la storia più lunga della sua vita. Aveva taciuto per difendere la corazza d’impassibilità che, giorno dopo giorno, la gentilezza di Kibum modellava in un morbido deterioramento, come le onde scavano gli scogli più irti e porosi.

< Ti ho preso una cosina. > gli aveva detto porgendogli un pacchetto confezionato a regola d’arte. Un fiocco dorato un po’ troppo pacchiano ghermiva la scatola conferendogli un sapore amaro, di prigionia. Lo aveva guardato sorpreso, non sapendo cosa dire: quella era la prima volta che si trovava a fronteggiare una situazione del genere, nessuno dei suoi ex gli aveva mai comprato qualcosa. La cosa sconcertante, però, era stato rendersi conto non solo di averlo gradito, ma di non aver pensato neanche per un attimo di vendere il contenuto per racimolare un pugno di Won.

< Per… me? > aveva chiesto, malgrado il pacchetto fosse già tra le sue mani, leggero come una piuma.

< E per chi se no? >

Si era sentito annegare, sprofondare nella vergogna più rancida. Intrappolato dentro a un uragano di “se”, “perché?” e “come”, aveva scartato il regalo e preso l’accendino Dupont a forma di disco volante in argento incastrato nella fodera sul fondo. Una catenina pendeva dalle due estremità, il gancio metallico accarezzava la superficie incisa dell’oggetto. C’erano dei numeri, che aveva riconosciuto e arrangiato a colpo d’occhio nella data del giorno in cui si erano fidanzati. 07/03/13.

< Io… non so bene cosa dire. > aveva ammesso imbarazzato, senza distogliere l’attenzione dal presente perché spaventato dalla prospettiva di un confronto con Kibum.

Kibum si era sciolto nell’ennesimo sorriso. Lo faceva spesso, ma mai come quella volta ne aveva assaporato l’affetto prima.

< Un semplice grazie potrebbe andare, credo. >

< Io… non ti ho preso niente. >

< Ah, lo sospettavo, per questo mi sono organizzato. >

Kibum aveva raccattato la polaroid puntandola in sua direzione e scattandogli una foto a tradimento. Si era lasciato catturare così, senza capire cose stesse succedendo, senza avere il tempo per assemblare una protesta di senso compiuto.

< Che stai facendo? >

< Non è evidente? Voglio delle tue foto, e soprattutto nostre. > Gli si era avvicinato avvinghiandosi al suo braccio, alzando la macchina al cielo e rivolgendo l’obiettivo in loro direzione. < Fai cheese. >

Jonghyun non amava le fotografie, come non amava tante cose che Kibum gli aveva proposto di fare insieme da quando si erano fidanzati. È per cortesia che aveva acconsentito, permettendogli di immortalare ogni carezza, smorfia e parola vissuta quel giorno. Ridendo, giocando, protestando per scherzo alle sue richieste sdolcinate. Sapeva di avere toccato il fondo, oltre che razziato il suo buon nome e i dogmi inscalfibili che reggevano ogni concezione di decenza, quando lo aveva lasciato salvare sullo schermo del cellulare una loro foto. Ma non era stato quello il peggio, no: il peggio si era materializzato sul monitor del suo Motorola, incarnato nello stesso scatto salvato da Kibum sul suo. Ancora zucchero sulla loro storia, gli sarebbe venuto il diabete. Ciò non cancellava la foto che, in seguito a numerose lamentele, aveva salvato sullo schermo accennando un sorriso sincero.

 

6.

La commessa li guardava a braccia conserte da occhio e croce due ore, enfatizzando l’insofferenza di cui era saturo ogni gesto con smorfie di disappunto e frecciatine taglienti. Il tacco dodici rosso scarlatto picchettava il pavimento lucido scandendo lo scorrere del tempo imperioso: di tanto in tanto cambiava piede perché il primo indolenzito, quindi ricominciava daccapo arrabbiata. Anche Jonghyun viveva quell’esasperazione, fatta di pile d’abiti affastellati l’uno sopra l’altro e scarpe abbandonate sul tappetino indiano sotto le panche, con lo stesso stato d’animo. Accasciato e privo di forze su una sedia a caso, viaggiava con lo sguardo per vetrine cercando una via di fuga.

< Che ne pensi di questo? >

Kibum era uscito dal camerino con addosso un improbabile completo monocromatico rosa shocking. L’unica stonatura era costituita da un paio mocassini di vernice bianca su cui erano state cucite (?) due file di paillette nere (???).

< Orrendo, come gli ultimi trentasette. > aveva risposto cadendo sul bracciolo, il gomito puntellato sul legno di faggio. < Bum non ce la faccio più, ti prego possiamo uscire? > “prima che la commessa faccia delle borse in pelle usandoci come materia prima?” L’ultima parte l’aveva tenuta per sé, conscio che pronunciarsi non avrebbe portato a nulla di buono: conosceva abbastanza bene Kibum per poter dire a cuor sereno che se c’era una cosa sulla quale non transigeva, beh, quella era proprio lo shopping. Mai mettergli fretta tra un cambio e l’altro. Pena, la prolunga della tortura.

< Non mi sei di nessuno aiuto. > aveva decretato scorrendo dei nuovi completi issati su una barra di metallo: giacche variopinte di gusto discutibile fluivano come le acque di un fiume davanti ai suoi occhi vivi di gioia. < Se non altro, bisogna ammettere che sei sincero e che non fai come gli altri uomini. >

< Ovvero? >

< Oh, ti dicono che stai bene con qualsiasi cosa addosso pur di uscire. E no, non pensare di usare lo stesso escamotage ora che te l’ho svelato perché non ci casco. >

Jonghyun si era dato dello stupido: perché non ci aveva pensato prima? Che colpe aveva, però, se era un ingenuo? Avrebbe dovuto lavorarci su, quell’imperfezione lo stava distruggendo. E Kibum era bravo a marciarci sopra, a portarlo sull’orlo di una crisi di nervi.

< E questo? >

< Questa… cosa non può essere definita un capo d’abbigliamento. > aveva ribattuto innanzi alla maglia caleidoscopica con un pagliaccio manga multicolore sul petto. Mostruosa.

Tirato un sospiro prettamente svilito si era alzato: aveva consumato ogni residuo di pazienza, urgeva trovare una soluzione al più presto.

< Tieni, prova questi per l’amor di dio. >

Kibum aveva preso al volo i vestiti che gli stava porgendo, che poi sarebbero stati quelli che avrebbe comprato. I primi che gli erano capitati sotto il naso, ma che tutto sommato gli stavano davvero bene. Se non altro potevano essere scambiati per qualcosa di sobrio e non per un attentato terroristico.

< E comunque... > Aveva aggiunto una volta arrivati alla cassa, con somma soddisfazione della commessa sopracitata. < Non importa cosa tu indossi, saresti bello anche con un sacco dell’immondizia legato alla vita a mo’ di gonna. >

Gli era uscita così, semplicemente spontanea.

Kibum lo aveva abbracciato euforico saltellando sul posto, con quella nota d’infantilità che di tanto in tanto mischiava alle parole.

< Questa è la cosa più bella che mi abbiano mai detto. Io l’ho sempre saputo che sotto sotto, ma davvero sotto, hai un cuore tenero Hyung. >

Forse, si era ritrovato a pensare, non tanto sotto quanto lui credeva.

 

7.

Minho era tornato a casa annunciando a gran voce il suo ultimo cento su cento preso all’esame sugli acetati. Jonghyun lo aveva trovato irritante, più irritante dell’ultimo tour de force impostogli da Kibum per negozi, il che era tutto dire. Se aveva deciso di non pronunciarsi era stato per ribrezzo, non certo per gentilezza: ultimamente si stava comportando da vero e proprio nevrotico, colpa del malessere che gli cingeva le interiora ogni qualvolta si soffermava a pensare alle ore trascorse con Kibum. Neanche scopare con lui aveva portato alcun giovamento.

< Allora? Come procede col ragazzo MS? > gli aveva chiesto Minho buttando un occhio alla televisione. < Oh, Secret Garden. Vedo dei miglioramenti. >

< Fai poco lo spiritoso. >

< Scusa ma io non ti capisco. Se ti disturba così tanto la vostra relazione, perché non ti sbrighi a finire quel pacchetto e a dirgli che è finita? >

Jonghyun era rimasto in silenzio, le mani intrecciate sotto il mento: in genere faceva così, se una storia lo turbava più del necessario cominciava a fumare una sigaretta dietro l’altra fino ad arrivare all’ultima. Era in quel modo che misurava i suoi flirt, scandiva i giorni nell’arco di tempo che gli occorreva, o si imponeva, per bruciare tutte e venti le sigarette. Un lasso di tempo più che generoso se si considerava che a lui non piaceva fumare (anche se comprava così tanti pacchetti che credere a una simile bislaccheria suonava troppo antiscientifico). Era una specie di rito prendere le Malboro a ogni nuovo inizio: una liberazione finirlo. Perché ora le cose gli sembravano diverse?

< Perché non mi dispiace, non completamente almeno. > aveva ammesso.

Minho aveva riso divertito accomodandosi sulla poltrona di fianco a lui: reggeva una bottiglietta d’acqua mezza vuota tra le mani, l’etichetta quasi completamente staccata. Chissà se Kibum l’avrebbe vista mezza piena…

< Ma dai, questa sì che è bella. Non è che ti stai innamorando? >

< … >

Nessuna risposta. Minho si era fatto serio. < No… ma davvero? Cioè, tu vuoi farmi credere che questo sarà il tuo ultimo pacchetto? Quale divinità devo ringraziare per questo miracolo? >

< Tu corri troppo. > aveva smentito prontamente, le mani sudate per la menzogna. < Ok, stavolta è diverso, ma la colpa è della marca. Ho dovuto prendere le MS, non immagini neanche che schifo siano. >

< Ceeerto. > Minho aveva tirato fuori dalla tracolla di pelle finta una rivista di medicina, l’aveva aperta a caso e cominciato a leggiucchiare un articolo sul DNA e RNA.

< Dico davvero. >

< Cosa vuoi sentirti dire precisamente, Jonghyun? Che hai ragione? Va bene, hai ragione, tanto che te la riconosca o meno non cambia la sostanza. La prossima volta cerca perlomeno di trovare una scusa che stia in piedi. >

Jonghyun aveva estratto le sigarette dalla tasca dei pantaloni guardandole intensamente, quasi aspettandosi di trovare una risposta incisa sulla superfice cartacea.

Era colpa della marca, aveva detto. O almeno, ci aveva provato.

 

8.

La carrozzeria della moto brillava dei colori del mare sfumati a quelli del cielo. Stucchi vaporosi e riccioli d’onde disegnavano i contorni degli specchietti, le ruote, due soli neri coi raggi circoscritti d’argento, bruciavano l’asfalto. La Yamaha fendeva l’aria come la pinna di un delfino traccia l’acqua, percorreva le strade accalcate di Seoul evitando ogni ostacolo frapposto tra lei e la sua meta, qualunque essa fosse.

A occhi chiusi e con la fronte incastrata tra le scapole di Jonghyun, Kibum respirava il tram tram della città, le risate della folla intrappolate sui marciapiedi, i profumi sfuggire ai forni dei ristornati e delle pasticcerie. Le mani, intrecciate all’addome del fidanzato, tremavano di freddo ed eccitazione, esploravano i solchi tra i suoi muscoli appagate.

< Dove stiamo andando? > aveva urlato infrangendo le pareti del casco.

< Non lo so. > gli aveva risposto Jonghyun. < Dove vorresti andare? >

< Non saprei, in nessun posto credo. >

< E allora perché mi hai chiesto di fare un giro in moto? >

< Perché non lo avevo mai fatto. > Il semaforo rosso all’incrocio li aveva costretti a una pausa. < Cioè, non mi era mai capitato di andare su un motorino dietro. >

<  Lo sai, vero, che non ti capiterà più di darmi le spalle? >

Kibum aveva riso, o meglio ammiccato, cogliendo l’allusione sessuale tra le righe.

< Nah, tranquillo, non voglio rubarti il ruolo di Seme Alpha. >

< Buono a sapersi. Tu ce l’hai una moto? >

Verde. Partenza.

< Uno scooter, me l’ha regalato mio zio. > La visiera di plastica trasparente si stava appannando davanti ai suoi occhi. Da un secondo all’altro il mondo si era fatto dapprima inconsistente, etereo, sfocando in una coltre nebulosa dal sapore mistico, quello dopo si era sbrinato incorniciando l’orizzonte di pennellate decise. < Ci facevo il figo con le ragazze, e funzionava. >

< Non stento a crederlo… >

< Devo ammettere però che così è cento volte meglio. >

Jonghyun gli aveva lanciato un’occhiata interrogativa dallo specchietto retrovisore, distrattamente ignorata dal destinatario.

< Perché? > aveva chiesto spazientito. < Hai capito di essere nato per farti scorrazzare in giro? >

Kibum gli aveva pizzicato il fianco strappandogli un gemito di dolore.

< Un giorno mi spiegherai cos’ho fatto di male per meritarmi queste frecciatine. >

< Ma ho detto la verità! Sei una mocciosa viziata che si atteggia a gran diva hollywoodiana Bum! >

< Anche fosse, che c’è di male? >

< C’è di male che sto buttando via lo stipendio di questo mese per girare senza meta per Seoul! Dimmi almeno un posto dove ti piacerebbe andare! >

< Andrebbe bene ovunque. > gli aveva baciato la schiena chiudendo nuovamente gli occhi. < Non mi interessa, l’importante è che ci sia tu a viaggiare con me. >

Quel giorno, la Yamaha di Kim Jonghyun aveva viaggiato senza sosta per ore ed ore senza mai fermarsi. A bordo, due ragazzi avevano toccato capolinea incorporei sulle cartine della città, fatte di complicità e tenerezza, scherzi e risate.

 

9.

< Io non capisco… >

Kim Kibum guardava i disegni di china sfilare davanti agli occhi stampati su carta ruvida e giallognola. Le pagine del manga profumavano di plastica, impregnavano l’aria di novità ed avventure shonen-ai, shuriken e ninja. Di tanto in tanto inarcava le sopracciglia tentando di cogliere la logica inesistente della storia. Spesi cinque minuti si stufava, tornava a crogiolarsi nell’abbraccio di Jonghyun senza volersi sottrarre a quel tiepido calore.

Avevano appena fatto l’amore. Sì, ok, Jonghyun lo avrebbe chiamato sesso: fortuna che non era così pignolo da impuntarsi su questioni di nomenclatura. In tutti quei mesi aveva imparato a conoscere ogni lato del suo carattere, cosa lo irritasse, cosa gli facesse piacere, ed affini. Se ne stavano lì, avvolti nelle coperte di lino, completamente nudi e abbracciati: qualche volta il naso di Jonghyun gli solleticava le orecchie, il respiro di entrambi si mischiava in un’unica brezza che animava i loro capelli.

< Cosa c’è da capire? Spiegati. >

< No, voglio dire, sarò scemo io, ma non ce la vedo proprio la logica dietro a questa carneficina. Dulcius in fundo, decide di salvare suo fratello, Sasuke. >

Jonghyun aveva annuito voltando pagina; poggiato sul suo avambraccio, Kibum inveiva animatamente contro Itachi. < Quindi, correggimi se sbaglio, un giorno questo pirla  si sveglia col desiderio di ammazzare tutti e di risparmiare suo fratello solo per mettersi alla prova? Per capire quanto è forte? >

< Pressappoco. Quindi? >

< Ecco, è proprio questo il punto. Se voleva uccidere tutti, perché ha risparmiato un moccioso? >

Jonghyun aveva sospirato afflitto, per nulla entusiasta all’idea di dover ripetere tutto daccapo: certe volte Kibum sapeva essere davvero logorroico, specie quando non voleva in alcun modo tornare sulle sue convinzioni.

< Bum, non c’è niente da capire al di là di quello che hai letto: Itachi ha permesso a Sasuke di vivere solo per potersi confrontare con lui un giorno, avere un degno avversario e rubargli così i poteri. >

< Ma che bisogno c’era? Era già il più forte! È ovvio che non lo ha ucciso perché gli voleva bene. >

< Sei troppo romantico Bum, pretendi di vedere il tenero ovunque, persino nei cattivi dei manga. >

< No, sei tu che sei asettico. > Si era sistemato meglio tra le sue gambe, accaparrandosi di diritto il giornale ed esibendo l’aria del gran intenditore. < Vogliamo scommettere? >

< Cosa? >

< Che ho ragione, che altrimenti? >

Jonghyun aveva soffocato una risata esausta in un sospiro e stretto a sé il corpo esile dell’altro: non importava quanti mesi fossero trascorsi, Kibum continuava a esercitare sulla sua mente un potere devastante. E peggiorava di volta in volta: con immenso stupore aveva dovuto ammettere che sì, il sesso era grandioso come sempre, ma che quello che voleva, quello che si aspettava al finire di ogni amplesso, erano le risate che caratterizzavano quei momenti di vuoto. Gli scherzi, le confessioni, i segreti sussurrati tra le lenzuola all’orecchio dell’altro… molte volte non facevano niente, si stendevano sul divano, ignoravano le occhiate bieche di Minho e guardavano Strong Heart alla TV commentando i balletti hot di Yunho. Non sapeva dare un nome a quello che facevano, certo era che non aveva niente a che spartire coi trascorsi delle sue vecchie storie. Aveva provato a porsi davanti a uno specchio per cercare una risposta: inutile dire che era stato un buco nell’acqua. Le domande, però, persistevano, come il gocciare di un rubinetto impertinente: cosa rappresentava per lui Kim Kibum? E poi: perché quando non ce l’aveva intorno desiderava vederlo a tutti i costi? Infine: era sicuro di volere delle risposte?

< Allora? >

Jonghyun era ricaduto bruscamente nel vortice di considerazioni viziate del fidanzato.

< Allora che? >

< Come che? Ma mi ascolti quando parlo? La scommessa! > Kibum lo aveva colpito col manga sulla testa, lottando senza troppa convinzione per districarsi dal nodo delle sue braccia. < Facciamo così: se ho ragione io, quando ti sarai stufato di me potrai cacciarmi a calci in culo dalla tua vita, io non obietterò. >

< E cosa ci guadagneresti di preciso? > Lo aveva guardato a lungo senza capire, scompigliandogli i capelli con un gesto scaramantico della mano. < Non ti conviene, che so, scommettere una giornata di shopping? >

< Non ti offendere Hyung, ma non rischierei MAI una giornata per negozi, neanche quando sono sicuro al cento per cento di avere ragione. >

< E preferisci mettere in gioco la nostra storia? Lasciarmi carta bianca? >

Il giovane aveva riso serafico poggiando la fronte sulla sua e baciandogli teneramente le labbra.

< Sicuro. > Lo aveva baciato ancora, e ancora. < Perché so che mi amerai a tal punto da non volermi perdere di vista neanche quando devo andare al bagno, figuriamoci rompere. Sono in una botte di ferro. >

Jonghyun aveva perso uno o due battiti quel giorno, lo stomaco gli si era attorcigliato in un nodo di spine e rovi fino a fargli male. Oggi si chiede cos’abbia spinto Kibum a giocare alla roulette col destino quel caldissimo 8 giugno. Non passa minuto della sua vita senza desiderare un checkup temporale. Per poter correggere l’errore di aver accettato. Per impedirsi di perdere completamente la testa com’è successo. Più semplicemente per dargli ragione senza scommettere su Itachi. D’altro canto, che garanzie poteva offrire un fumetto per ragazzini come Naruto?

 

10.

< Credo di amarti, Hyung. >

Jonghyun si era più e più volte immaginato quel momento, quello in cui qualcuno gli si sarebbe dichiarato a cuor sereno aspettandosi un responso positivo. Gli era sempre piaciuto credere che, da bravo bad-petty boy quale era e sapeva di essere, avrebbe risolto la faccenda con una risata seguita dalla celeberrima frase “I’m sorry you’ve got the wrong number”, che parafrasando stava a significare “scusami tesoro, ma hai scelto la persona sbagliata”. Non aveva mai neanche preso in considerazione l’ipotesi che suddetta confessione potesse svolgersi dentro a un ristorante di ramen, più nello specifico mentre stava mangiando una ciotola di noodles a suo parere scotti. Cose da rimanerci secchi, per intenderci. Se non era morto soffocato lo doveva alla misericordia di un dio nel quale non aveva mai creduto, o più semplicemente al pronto soccorso di Kibum, che gli aveva fatto sputare tutto il sputabile in un fazzoletto.

Con fatica disumana si era posto un contegno, drizzando la schiena in una postura, sperava, autoritaria.

< Hai detto “credo”? Ma che razza di confessione è? Se non ne sei convinto tu per primo, perché venire a parlarne a me? > Di tutte le stronzate che si sarebbe aspettato di sentirsi dire, quella era la più stupida universalmente nota. No, pensandoci bene, di peggio c’era solo… < …perché di grazia? >

Ecco, per l’appunto.

Kibum aveva chinato lo sguardo imbarazzato, le guance gli si erano tinte di un rosso violento. A vederlo era impossibile non paragonarlo al Kibum degli inizi, quel cucciolo spaurito che, incapace di fronteggiarlo, aveva preferito scappare a gambe levate.

< È perché non riesco a capirci niente da solo che ho deciso di chiedere aiuto a te, stupido! > aveva strillato impugnando le bacchette e ficcandole in malo modo dentro la sua ciotola.

< A me? E come pensi ti possa aiutare? Mica ti leggo nel pensiero, stai certo che se lo facessi eviterei molte delle rotture che mi propini. Vedi lo shopping, le scampagnate nei parchi, i rodeo per la cit- >

< Va bene, ho capito. Lasciamo perdere, ok? Ho sbagliato. >

< Col cavolo. > Jonghyun gli aveva afferrato immediatamente i polsi. Non avrebbe saputo spiegare perché: d’altro canto, erano così tante le cose a cui non sapeva dare una risposta che una in più non avrebbe turbato quel che rimaneva del suo equilibrio psichico. < Piantala di fare scenate e tira fuori gli attributi. Cosa intendevi dire poco fa? >

Lui si era stretto le spalle, rimpicciolendosi contro lo schienale della sedia dove stava accucciato.

< Quanti significati pensi abbia la frase “credo di amarti”? Vuoi che ti faccia uno spelling? Magari un’analisi logica? >

<  Ti pare il momento di scherzare? Forse non ti rendi conto di quello che hai detto: hai appena confessato che credi di amarmi. >

< E allora? >

< Come sarebbe a dire “e allora?” >

< Basta, sei logorroico. > Kibum si era alzato abbandonando il pasto a metà, il sapore dei noodles ancora incrostato fra i denti. < Volevo essere sincero, al contrario di te. Che poi parli tanto di tirare fuori gli attributi quando tu per primo non riesci ad ammettere che nutri qualcosa nei miei confronti. >

Jonghyun si stava arrabbiando, o meglio, irritando. La conversazione stava prendendo una piega che, sapeva, li avrebbe condotti al loro primo litigio. Non era tanto quella prospettiva a metterlo a disagio, quanto la consapevolezza che quegli scambi di battute testimoniavano un attaccamento più serio del dovuto nei suoi confronti.

Quand’era successo? Quando Kim Kibum si era trasformato in qualcuno di così importante da spingerlo ad alzare le difese anziché lasciar perdere come aveva sempre fatto?

< Non ho finito con te! > aveva esclamato in preda all’ansia. < Non ti azzardare a scappare senza prima avermi detto chiaramente se mi ami o meno. Capito? >

< Va bene, ti amo, contento? > aveva sospirato lui costringendo le labbra in una smorfia addolorata. < Ti cambia davvero qualcosa saperlo? >

Non aveva avuto le forze né il coraggio per trattenerlo: lo aveva semplicemente lasciato andare, seguendone i passi ovattati fino a sentirli svanire avvolti dalla coltre di smog cittadino. Al momento, un’unica certezza infastidiva il suo subconscio, no, anzi, il suo portafoglio: Kibum aveva lasciato di nuovo a lui il conto da pagare.

 

11.

Erano entrati in quel periodo in cui le foglie, ormai prossime a tingersi di rosso, assumevano la consistenza delicata della carta velina o di quella stagnola.

L’autunno era alle porte. Quell’anno era arrivato prima cogliendo i turisti di sorpresa con le prime piogge di cambio stagione e i cieli più scuri durante la notte. Jonghyun ammirava i ciliegi mutare in un coagulo di sangue rappreso fra i rami da un po’ di tempo ormai, poggiato al corrimano che dava sul promontorio est della città. Tra le labbra, l’ennesima sigaretta accesa per placare l’angoscia, l’accozzaglia di pensieri negativi che nelle due ultime settimane l’aveva seguito come un’ombra, dal giorno in cui aveva litigato con Kibum al ristorante di ramen. Veniva spesso a riflettere in quel posto, collezionando di volta in volta buchi nell’acqua: avrebbe detto che persisteva perché certo che prima o poi i ciliegi gli avrebbero indicato la via, quando invece non faceva altro che scappare da un confronto peraltro necessario. Non era così diverso da Kibum come cercava di illudersi, dopotutto.

Era da due settimane che non lo vedeva o sentiva. E gli mancava, inutile negarlo. La questione, però, era complicata: entrambi erano troppo testardi ed orgogliosi per tornare sui loro passi senza puntare il dito e rinfacciare gli sbagli altrui. A dividerli c’era la mancanza totale di iniziativa, quel desiderio che comunemente muove le persone innamorate a chiedere scusa al loro partner anche quando non hanno niente di cui doversi scusare. Forse la verità era che non si amavano affatto, che quello era solo l’ennesimo flirt in cui era incappato. Allora perché non poteva fare a meno di seguirlo di nascosto? Dio, a dirla così sembrava roba da stalker o gente poco affidabile, ma tra loro c’era pur sempre una sorta di legame, no? Che motivi aveva per sentirsi in colpa? In ogni caso, ammesso e non concesso, Jonghyun era stufo dell’evolversi dei giorni, terribilmente vuoti e deprimenti senza la risata della sua controparte a dare loro un senso. Perché qualunque cosa avesse detto, fatto o pensato Kibum, aveva trasformato la monotonia di quei mesi in un viaggio dentro il Paese delle Meraviglie.

Jonghyun aveva espirato l’ultimo rantolo di fumo prima di spegnere il mozzicone di sigaretta dentro al suo posacenere, richiuderlo e ficcarselo in tasca. Si stava addirittura abituando al sapore di quella robaccia, delle MS. Lo consolava un pochino sapere che se qualcuno gli avesse offerto una Malboro avrebbe accettato a cuor sereno pensando “ah, finalmente una sigaretta come dio comanda!”. Poi, all’improvviso, il rintocco delle cinque. Si era accorto così di aver  buttato via un altro giorno, e per cosa? Niente, non aveva ancora trovato nessuna soluzione. Continuava a buttare l’occhio sul cellulare sperando di scorgere un’icona a forma di busta, un messaggio, invano.

Un fallito, ecco cos’era.

A trenta metri da terra, le stelle sembrano più vicine di quanto avvertisse Kibum in quei giorni. Tendendo le mani avrebbe potuto catturarne una ventina: riprendersi Kibum non sarebbe stato altrettanto semplice.

 

12.

< Che ci fai qui? >

Jonghyun non ricorda esattamente come e perché i suoi piedi lo abbiano condotto quel lontano 23 ottobre da Kibum. Sa che pioveva, e che faceva un gran freddo. Sa che aveva corso quanto più velocemente le gambe gli avevano permesso. Sa anche che tutto il coraggio racimolato durante il tragitto era scemato quando i loro occhi si erano incontrati dopo tanto tempo per la prima volta. Quello che non sa, invece, era cosa lo avesse spinto a uscire di casa senza prendere la moto, o perché avesse corso chilometri e chilometri per incontrarlo. Di contro era certo che lo avrebbe scoperto una volta lì con lui.

< Hyung fa un freddo cane, possiamo almeno entrare e parlarne davanti a una cioccolata calda? > gli aveva chiesto Kibum stringendosi in un abbraccio.

Quel briciolo di razionalità rimastagli in seguito all’Odissea seulese era andata a farsi benedire. Il corpo si era mosso da solo, si era gettato su quello caldo ed invitante dell’altro facendoli capitolare a terra tra le pozzanghere.

Splat. Continuava a piovere. Splat. Il cuore gli batteva come un martello pneumatico strappandogli gemiti di dolore. Splat. Non avvertiva più né il freddo né il fango imprigionato dentro agli anfibi borchiati. Splat. I jeans gli si erano strappati sulle ginocchia. Splat. Era sangue quel filo rosso che si diramava sull’asfalto?

Splat.

< No. > aveva risposto in un sussurro. < Devo parlarti ora. Ho paura che… che se rimando di anche solo un secondo non riuscirò più a dirti quello che ti dovevo dire. >

< Ma tu scotti, hai la febbre alta! > Kibum aveva cercato di sorreggerlo come meglio poteva: non era particolarmente muscoloso, motivo per cui i suoi genitori non facevano che ripetergli che avrebbe dovuto andare in palestra o a nuotare per rafforzare almeno i pettorali. < Non ti fa bene bagnarti, ti prego entriam- >

< Ho detto di no! >

< Smettila di fare il bambino! > era disperato, inginocchiato in quella posizione, col corpo inerme del suo ragazzo schiacciato contro il proprio. < Dio santissimo, ma si può sapere cosa ti passa per la testa? Che cavolo hai combinato stavolta? >

< Perché devo aver per forza combinato qualcosa? Pensi sia venuto fin qui per elemosinare il tuo aiuto? >

< Se ti rispondo di sì possiamo entrare? >

Jonghyun era scoppiato a ridere, un latrato sofferente che tutto si poteva dire tranne che sincero.

< Sei davvero incredibile… dici di amarmi, poi scompari per più di un mese e quando ci rivediamo cosa fai? Cerchi di litigare? > Non lo stava dicendo a Kibum, non lo stava dicendo a nessuno in particolare. Neanche a se stesso. < Perché… dimmi perché? >

Lui lo aveva guardato a lungo senza sapere cosa ribattere, mordendosi avidamente il labbro inferiore fino a farlo sanguinare.

< Perché cosa? >

< Perché non riesco a toglierti dalla testa? >

< Eh? >

< E perché sono venuto qui? >

< Dovrei saperlo io scusa? >

< Sei così dannatamente fastidioso, sembri una gallina per la miseria! >

< Un’altra parola, Hyung, e giuro che ti faccio sputare il fegat- >

< Cosa ci ho visto di tanto bello per innamorarmi di te? >

Kibum aveva sgranato gli occhi incredulo, le gocce intrappolate tra i radi ciuffi scompigliati della frangia pizzicavano le sue labbra. Aveva preso il volto sofferente del ragazzo portandolo all’altezza del proprio.

< C-cos’hai detto? > Difficile crederci, difficile trattenere le lacrime commosse. < Ripetilo. >

Jonghyun aveva tossito sputandogli in faccia.

< Ho detto di amarti, cazzo! Cazzo, cazzo e ancora cazzo! Non doveva andare a finire così, non avrei dovuto… > aveva cominciato a piangere accasciandosi sulla sua spalla, soffocando i singulti dietro a una maschera screpolata fatta d’orgoglio e disperazione. < …innamorarmi di te. >

< Hyung… > Non c’erano parole per quantificare la sua gioia, neanche gesti. < Ti… ti amo tanto anch’io. Non avere paura, d’accordo? Ci sono io. Ci sarò sempre. >

Ne era davvero convinto quando l’aveva detto per la prima volta.

Se potesse tornare indietro, Jonghyun fermerebbe il tempo su quel “sempre”: perché quel giorno, il sempre di cui gli aveva parlato Kibum era sinceramente eterno.

 

13.

< È permesso? >

Jonghyun combatteva stoicamente contro la macchinetta del caffè da una ventina di minuti quando la porta del locale, pressoché deserto, si era aperta e Kibum era apparso sulla soglia. La chiave inglese che teneva tra le mani gli era scivolata planando dritta sul suo piede: che ci faceva lì? Eppure glielo aveva detto che non gli piaceva ritrovarselo davanti sul lavoro. Tra l’altro, era passato troppo poco tempo dal loro ultimo faccia a faccia: vuoi la febbre, vuoi il rifiuto categorico del suo subconscio, ma stava di fatto che la tragedia di quella notte l’aveva rimossa o chiusa a lucchetto dentro a un angolo remoto della sua testa. La pellicola del film era stata recisa da un taglio netto di forbici rendendogli impossibile revisionare le espressioni di Kibum, cos’avessero fatto o più semplicemente si fossero detti. Riusciva a ricordare un solo istante, quello che con tutta probabilità era stato il più imbarazzante della serata: la sua dichiarazione d’amore, seguita, stando al risveglio traumatico e all’emicrania post-sbornia del mattino seguente, da ore ed ore di sesso sfrenato.

Era stata la prima volta in cui lo avevano fatto a casa sua. Di solito utilizzavano il suo appartamento, con o senza Minho a ricordargli quanto fosse fastidioso sentirli urlare mentre stava studiando.

< Ciao. > lo aveva salutato Kibum accomodandosi su uno sgabello a caso davanti al bancone.

< …ciao. > aveva risposto chinando lo sguardo.

Poi, il silenzio. Un cliché. Tipico, sapeva sarebbe successo. Fortuna che tra i due, malgrado le posizioni e i ruoli a letto, fosse Kibum quello con le palle.

< Ti dà tanto fastidio vedermi? Guarda che posso sempre tornare da dove sono venuto, eh. >

< Non… è quello. > aveva risposto legandosi alla cinta uno straccio e cominciando a lavare i bicchieri sporchi. Tutto pur di non doverlo fronteggiare. < Sono solo… diciamo sorpreso di vederti qui. >

< Se non mi facevo avanti io dubito lo avresti fatto tu. Non ti credevo così codardo. >

< Modera i termini. > L’acqua scorreva tra le sue dita sanando il formicolio nervoso di cui erano vittime. < Avevo bisogno di qualche giorno per metabolizzare la cosa. Tutto qui. >

< Tutto qui? Due settimane e nessun messaggio tu li semplifichi con un “tutto qui”? >

< Questa è bella, parli proprio tu che per un mese sei scomparso. >

< Avevamo litigato. >

< No, TU hai voluto litigare, è diverso. >

< Te l’ha mai detto nessuno che sei un oratore nato? Cavoli, saresti capace di convincere il primo disgraziato che gli asini volano o che Lee Joon fa i fanservice con Mir! >

< Ma Lee Joon FA i fanservice con Mir! >

< Dettagli. >

Si erano guardati negli occhi per un po’, in silenzio. Poi qualcosa si era sciolto, un peso opprimente era diventato inspiegabilmente leggero portandoli a ridere senza motivo. E avevano riso così a lungo, così forte che il proprietario del locale si era avvicinato per sincerarsi che tutto fosse al suo posto. Jonghyun si era dovuto sorbire una lavata di capo come poche, ma n’era valsa la pena.

< Va meglio? > gli aveva chiesto Kibum dondolandosi sulla seggiola.

Aveva annuito passandosi una mano sulla fronte per alleviare la tensione.

< Sì, penso proprio di sì. >

< Deduco che sei di buon umore quindi. >

< Ma che stai- un attimo. > A un tratto si era bloccato. Un monito tetro bisbigliava diffidente al suo orecchio mettendolo all’erta. < Tu… cosa devi dirmi? >

< Assolutamente niente. Semmai darti. >

Un gigantesco punto interrogativo tempestato di luci al neon si era materializzato come per magia sopra la sua testa.

< Darmi? > aveva ripetuto.

È stato allora che si era reso conto della sporta poggiata sulle piastrelle accanto alla tracolla di Kibum. Per quel che ne sapeva, ci teneva dentro i libri di scuola e il Mac: l’altro pacchetto non sapeva di averlo mai visto e, presagio o meno, gli suggeriva solo il peggio.

< Beh… sai, sapendo che avremmo fatto pace – le doti divinatorie di quel ragazzo lo angustiavano a volte – e, più importante, saremmo diventati una coppietta a tutti gli effetti, ho pensato… > Si era chinato a prendere il suggello dei suoi tormenti psicologici. < …che sarebbe stato carino comprarti qualcosa che ci decretasse come tali. > Quindi aveva estratto il contenuto riversandolo sul bancone.

Jonghyun avrebbe potuto giurare di aver perso sette anni di vita.

< Te lo puoi scordare. > aveva decretato con voce lapidaria.

< Ma Hyung… >

< Quale parte del “te lo puoi scordare” non ti è chiara? Dio, è semplicemente… ridicolo! >

< Osi definire ridicolo il mio pegno d’amore nei tuoi confronti? >

Non ci aveva visto più. Prese tra le mani le due felpe, perfettamente uguali come si confaceva alla tradizionale usanza del “indossa gli stessi abiti del tuo/a ragazzo/a” - cosa che faceva tanto studenti delle medie -, le aveva restituite a uno stizzito Kibum, che tutto sembrava tranne disposto a sobbarcarsi un rifiuto.  

< Ti ho accompagnato a scuola, per negozi, mi sono lasciato fotografare, ho consumato tutto il serbatoio di benzina della mia moto, ho ammesso di amarti… non ti pare che abbia già fatto abbastanza? Vuoi proprio buttare la mia reputazione in pasto ai cani? >

Kibum aveva arricciato le labbra senza degnarlo di risposta.

Jonghyun aveva capito che le sue proteste non sarebbero servite a nulla. Poco dopo, aveva realizzato che avrebbe accettato ben di peggio se a chiederglielo fosse stato lui. Si sarebbe lamentato, chiaro, ma alla fine avrebbe sempre e comunque accettato.

Qualcosa non quadrava.

 

14.

Kim Kibum palesava il suo dissenso per lo più con smorfie o gesti seccati delle mani che Jonghyun conosceva come si conosce e tasta il contenuto delle proprie tasche. Per quieto vivere non gli aveva mai proposto di fare qualcosa che lo irritasse: quando però lo stesso Kibum gli aveva chiesto di provare insieme qualcosa che gli piacesse, aveva accettato nell’immediato.

< Non ci capisco una mazza. > Kibum aveva preso il libretto delle istruzioni con fare impetuoso, rileggendo i comandi e le spiegazioni su questo riportate per la decima volta. < Se schiaccio X e il cerchio assieme… o era il triangolo? > si era affrettato a controllare nuovamente lo scritto, salvo poi sbottare un seccato: < Basta, così non vado da nessuna parte. Insegnami tu. >

Jonghyun aveva riso appollaiandosi sulla sua spalla e mordicchiandogli l’orecchio. Poco dopo, aveva poggiato le mani sulle sue strette in una morsa ferrea attorno al joystick della PlayStation 3.

< Il segreto sta nella coordinazione. Devi premerli contemporaneamente per effettuare una presa. >

Kibum aveva annuito cacciandosi la lingua tra i denti e ammiccando con lo sguardo. Lo aveva trovato ridicolo, così concentrato su Tekken da tremare sotto le sue dita. Allo stesso tempo lo aveva guardato come si guarda alla cosa più adorabile che ti si mai capitata davanti agli occhi.

< Mi spieghi perché ti piacciono questi affari? Non è meglio lo shopping? >

< Fingerò di non aver sentito. >

< Ma sono noiosi! >

< Guarda che non ti avrei mai chiesto di giocarci se non fossi stato tu a chiedermelo. > Si era seduto al suo fianco sul tappeto prendendolo tra le braccia ed inglobandolo a sé. < E comunque credo tu sia l’unico uomo sulla faccia della terra a preferire lo shopping ai videogames, lascia fare. >

< Ma che ne sai tu! Scommetto che Taemin sarebbe felicissimo di accompagnarmi al centro commerciale. >

Quella era stata la prima e ultima volta in cui Kibum gli aveva parlato di Taemin. Non avrebbero più rivangato il suo nome in futuro, anche se da parte sua non c’era stato il benché minimo accenno di gelosia. A pensarci bene, non c’era mai stato un perché quel ragazzo fosse diventato un tabù: l’aveva stabilito Kibum, come aveva stabilito un sacco di regole nella loro storia che marcavano i confini di cosa fosse lecito o non dire-fare-baciare-lettera-testamento. E lui glielo aveva permesso, come sempre. Chissà quante volte aveva già sbagliato lasciandogli carta bianca.

< Taemin? E chi sarebbe? >

< Mh, una matricola. L’ho conosciuto qualche giorno fa durante la cerimonia d’apertura del nuovo anno accademico. È un tipo ok, un po’ scialbo forse. Non mi dice molto. >

< E tu vuoi darmi a intendere che questo Taemin preferirebbe una giornata di shopping piuttosto che dieci minuti davanti alla play? È gay? >

< Da che pulpito! >

< Tutte le ragazze con cui sono stato prima di te avrebbero di che ridire al riguardo. >

< Sempre a puntualizzare. Gay, bisex… non cambia il fatto che ora stai col sottoscritto. >

< Appunto. Tu sei l’incarnazione dell’accidia mestruale delle donne. >

Kibum aveva inarcato il sopracciglio sottilissimo in un tacito rimprovero.

< Voglio sperare fosse un complimento. >

Jonghyun aveva riso strappandogli un bacio lampo.

< Più o meno Bummie, più o meno… >

< Torniamo a giocare? > Così dicendo aveva ripreso in mano il joystick e il libretto delle istruzioni più che mai determinato ad accaparrarsi la sua prima, agonizzata vittoria. < Vedrai, stavolta ti faccio nero. >

< L’importante è crederci, Bum… >

 

15.

Ricordava.

Ricordava come fosse ieri il vento freddo e la neve sporca fra i capelli bagnati.

Ricordava le risate dei bambini, ovattate e troppo distanti per poter essere distinte l’una dall’altra.

Ricordava il fango nelle scarpe, l’odore di pino silvestre solleticargli il naso.

Ricordava le rive del fiume deserte, adornate di luci al neon blu e rosa.

Ricordava il banco di nebbia entro cui erano preclusi, i cumuli cinerei sopra le loro teste.

Infine, ricordava quelle poche parole con precisione chirurgica, e la sensazione di aver perso qualcosa di insostituibile nel momento in cui queste erano scivolate come veleno fuori dalle labbra di Kibum.

< Perché fumi? >

La sigaretta incastrata fra le labbra di Jonghyun era caduta ai suoi piedi con lentezza surreale, vittima del senso di colpa che imbrattava ogni muscolo del suo corpo. In cuor suo lo aveva sempre saputo, per la precisione aveva sempre temuto quel confronto. Aveva stupidamente sperato che Kibum non ci avesse fatto caso: erano così poche le volte in cui fumava che chiunque avrebbe pensato a un passatempo cretino consumato così, per ammazzare il tempo. Che balla avrebbe dovuto propinargli per nascondergli la verità suonando convincente?

< Non c’è un perché. Ci sono dei giorni in cui sento la necessità di farlo, tutto qui. >

< Del tipo? >

Aveva pensato attentamente a cosa ribattere, ovvio: il più piccolo errore gli sarebbe costato caro. Gli era già capitato in passato e la faccenda non aveva avuto risvolti propriamente positivi. Non poteva permettere che accadesse di nuovo, non con Kibum, non prima di aver gustato appieno i giorni che rimanevano a loro disposizione. A dirla tutta, si augurava sarebbero stati eterni e che la ventesima sigaretta sarebbe rimasta per sempre dentro al pacchetto.

Perché fumava, gli aveva chiesto. Quello che invece si chiedeva lui era perché continuasse vista la voglia che aveva di rimanere accanto a lui per tutta la vita.

Perché non riusciva a smettere? Perché c’erano momenti come quelli dove le sigarette gli imponevano la loro volontà obbligandolo a fumarle?

< Boh, tipo quando sono nervoso, o troppo felice, o annoiato, o tu mi fai queste domande senza senso. >

< Ma non hai il vizio. >

< Cosa te lo fa credere? >

< Il fatto che tu stia ancora fumando il pacchetto che hai cominciato il giorno in cui ci siamo messi assieme. >

Un altro pugno allo stomaco, stavolta più violento. A Kibum non era sfuggito neanche quel particolare.

< Ci metto un po’ a finirle. > aveva ammesso riluttante.

< Perché ho come l’impressione che tu mi stia nascondendo qualcosa? >

Altro dolore indicibile alla testa.

< Perché devi vedere misteri dove non ci sono? > aveva scherzato accennando un sorriso rassicurante. Beh, più o meno.

Kibum lo aveva studiato di sottecchi spostando poi lo sguardo sulle loro mani intrecciate. Se le era portate davanti al volto baciandole e ribaciandole volgendo infine l’attenzione alle acque del fiume.

< Noi… staremo sempre insieme, vero? >

< Perché ti fai venire questi dubbi adesso? >

< Non lo so… è solo una sensazione, o qualcosa del genere… >

< Che fine ha fatto quel cafone che mi ha consegnato il destino della nostra storia scommettendo su Itachi? Non ti fidi più per caso? >

Lui aveva sospirato nascondendosi sotto la cuffia di lana: nel cielo, la luna era stata schiacciata dai grattacieli di Seoul.

< Ma sì… > aveva detto rincuorato. < Non so nemmeno io che mi è preso, non farci caso. >

 

16.

< Sei penoso. >

Il tanfo nauseabondo di tabacco e disillusione permeava ogni anfratto della casa.

Accomodato sul divano e con l’ennesimo libro di fisica sulle gambe, Minho guardava il cadavere di Jonghyun steso a terra davanti a sé: una sigaretta ormai prossima a spegnersi traballava serrata fra i suoi denti; nel mentre, la cenere incandescente si depositava sulla sua pelle stigmatizzandola. Piangeva, Jonghyun, soffocava i gemiti di dolore dentro al cumulo di polvere intrappolato nel tappeto.

< Perché? Perché non riesco a smettere? >

< Fondamentalmente perché sei un cretino. > aveva risposto tornando a concentrarsi sugli studi.

< Non voglio… non voglio arrivare alla ventesima sigaretta. >

< E allora non lo fare! Infischiatene delle tue tradizioni del cazzo: chi l’ha stabilito che un pacchetto cominciato va finito a tutti i costi? Che poi, anche se lo finisci, perché deve necessariamente finire anche la storia tra te e Kibum? >

Jonghyun aveva accolto quelle parole a cuore aperto: per qualche istante erano state capaci di restituirgli un respiro regolare, inframezzato da considerazioni più o meno pertinenti su cosa stava facendo e soprattutto perché. Non ricordava neanche come fosse nato quell’hobby: forse per impedirsi di soffrire, forse per evitare di legarsi a qualcuno per poi guardarlo sfuggire da davanti ai suoi occhi, non lo sapeva. Kibum aveva ragione a pensare di lui le peggiori cose, tanto per dirne una, che fosse un codardo. Aveva ragione da vendere.

< Avrei dovuto capirlo quel giorno, quando sono arrivato dal tabaccaio e non ho trovato le Malboro. Era un segno… >

< …della tua immane deficienza. Sì, suppongo tu abbia ragione. >

< Se solo non avessi comprato nessun pacchetto… >

< …a quest’ora riuscirei a studiare la notte anziché venire disturbato da guaiti animaleschi. >

Jonghyun aveva latrato raggomitolandosi su se stesso.

< Sono una merda. >

< Oh, la prima cosa intelligente che ti sento dire oggi! > Minho aveva chiuso il libro poggiandolo sul tavolo. Gli capitava spesso di essere brutale con Jonghyun. Non che gli piacesse: se avesse potuto, ne avrebbe fatto volentieri a meno. Il fatto era che Jonghyun aveva bisogno di qualcuno più forte di lui che lo comandasse a bacchetta. Sotto la scorza ermeticamente chiusa d’arroganza e menefreghismo si nascondeva un cucciolo bastonato troppo impaurito per muovere un solo passo senza il consenso del padrone. Minho lo sapeva bene, come sapeva bene che quel padrone, l’uomo a cui avrebbe scodinzolato e ubbidito da lì alla fine dei suoi giorni, era Kibum. Non lui.

< Ascoltami… > gli si era inginocchiato accanto adagiando le mani sulla sua fronte. < …tu ami Kibum, vero? >

Quanto dolore provava nell’interpretare la parte dell’amico fidato, quello che, cascasse il mondo, avrebbe prestato la spalla per lenire le sofferenze dell’altro.

Jonghyun si era limitato ad annuire.

< Allora non farti condizionare da qualcosa di così stupido. Può darsi che quando hai cominciato a frequentare Kibum non avevi la più pallida idea di cos’avresti provato per lui… >

< Togli il forse… >

< In ogni caso… > Odiava essere interrotto, gli faceva perdere il filo del discorso. < …quello che senti per lui è più importante di uno stupido pacchetto di sigarette, no? Cazzo, ti sei innamorato, state assieme da più di un anno! Non significa niente per te? >

< … > Jonghyun aveva respirato a fondo prima di rispondere, snocciolato ogni timore e sradicato paure e tormenti dalla testa. Quindi aveva annuito. Di nuovo. < …hai ragione. Anche se finirò il pacchetto, potrò pur sempre comprarne un altro, e un altro ancora. >

< Non era proprio questo quello che avevo in mente ma sì, credo possa funzionare… >

< Io… > si era alzato puntando gli occhi in quelli dell’amico: Minho aveva dovuto combattere con tutte le sue forze per non chinare il capo ed arrossire di vergogna. < Grazie Minho, sei un amico. >

Mai verità fu più dolorosa.

 

17.

< Hyung? >

< Mh? >

< Mi stavo chiedendo… >

< No. >

< Ma non mi hai neanche fatto finire di parlare! >

< Conosco quel tono di voce e la risposta, qualunque sia la richiesta, è no. >

< Ma non devo chiederti niente! Voglio solo mostrarti una cosa. >

Jonghyun aveva sbuffato continuando a raccattare gli appunti di Kibum sparsi sul pavimento. Gli esami erano ormai alle porte e si sa, per ogni studente universitario questo significava una sola cosa: notti in bianco all’insegna di crisi isteriche e caffè annacquati. Nella sua infinita ingenuità, altresì detta stupidità, aveva offerto il suo aiuto a un disperato (o era più corretto dire isterico?) Kibum, realizzando troppo tardi cosa questo significasse. Per capirci, sopportare una settimana di shopping forzato in sua compagnia sarebbe stato infinitamente più piacevole che sorridere innanzi ai suoi capricci e piagnistei deleteri. Temeva segretamente che sul finire di quelle tre settimane un viaggetto alla neuro non glielo avrebbe negato nessuno. O al manicomio, per quel che cambiava.

< Dimmi. >

Kibum si era sfilato gli occhiali e scollato i capelli dalla fronte imperlata di sudore, quindi aveva estratto qualcosa di familiare dalla tasca dei pantaloni.

< Guarda. >

E così aveva fatto, incappando nel più grande smarrimento mistico della sua vita.

< Ma che…? > Gli si era avvinato per sincerarsi di aver visto bene, per assicurarsi che il tutto non fosse solo l’ennesimo parto malato della sua mente stanca. < Bum, ma questo è… >

< Già. Un pacchetto di MS. >

Non era stato tanto il ritrovarsi davanti le stesse sigarette che fumava lui a sconvolgerlo, né il fatto che Kibum avesse comprato quello che tutta probabilità era il suo primo pacchetto. Quello che davvero gli aveva strappato una smorfia di stupore era stato il suo sorriso candidamente orgoglioso, l’espressione che ti aspetti di vedere sul volto di un soldato di ritorno dalla guerra.

Per quale ancestrale motivo era così… felice?

< Questo lo vedo. Non vedo invece una ragione apparentemente valida per essere tanto soddisfatto. >

Kibum aveva scrollato le spalle in un quieto dissenso.

< Beh, ti ricordi di quella volta in cui mi hai parlato di come ti senti quando fumi? >

Aveva annuito.

< Ebbene, avevi ragione. Mi aiuta tantissimo a non impazzire in questi giorni. È probabile che smetterò una volta finiti gli esami, ma per il momento sono un valido aiuto. E poi… > Aveva preso un pennarello nero e il suo braccio con la chiara intenzione di disegnarci sopra qualcosa. < …boh, ho preso la stessa marca che fumi tu, così se le finisci posso passartele io o viceversa. No? >

Jonghyun aveva studiato il sottilissimo strato d’inchiostro asciugarsi sulla sua pelle e ramificarsi in un cuore: la punta del colore gli schiacciava le vene incastrandosi fra i tendini per poi sollevarsi, fermarsi, e colpire ancora.

< Che gesto altruista… > aveva scherzato soffiando sul disegno. < Basta che non ti fai prendere dal vizio. >

< Ma va, per chi mi hai preso? Sono Kim Kibum io! >

< E questo dovrebbe rassicurarmi? >

Il broncio stupidamente ostinato dell’eroe dei poveri si era presto trasformato in una risata fragorosa a cui si era aggregato con gioia.

Se gli avessero detto che quello sarebbe stato uno degli ultimi giorni d’estate della loro storia, Jonghyun non ci avrebbe mai creduto. Eppure le prime foglie accartocciate e marroni sporcavano già la quiete e la serenità di quei momenti.

Era stato lui a non volerle vedere.

 

18.

Non importa quanto grandi siano i tuoi sforzi e caparbia l’insistenza con cui chiudi gli occhi innanzi alla realtà, quel susseguirsi di incipit languidi che svelano nuovi ed agghiaccianti perché: prima o poi arriva per tutti il momento di accettare i mali per come si propongono, nudi, crudi o agghindanti, non fa differenza. Jonghyun lo sapeva bene, era un concetto che aveva assimilato con estrema sofferenza negli ultimi tempi, minuscole postille che prese una a una erano apparentemente insignificanti; se raggruppate, fonte di dolore indicibile.

Lo schermo del pc si era oscurato per l’ennesima volta. Poco male, ormai aveva capito che i suoi stoici tentativi di prendere alla leggera quella minuzia erano prettamente inutili. Ok, forse stava vivendo quella storia un po’ troppo seriamente: Kibum aveva semplicemente oscurato la loro relazione su Facebook, erano passati da “ufficialmente fidanzati” a estranei (tecnicamente parlando, ovvio. In pratica le cose erano ben diverse e tante grazie!). Non aveva chiesto neanche spiegazioni: avrebbe detto che conosceva già le eventuali risposte, la paura di farsi scoprire gay dai propri genitori, cose così. Niente che non fosse successo a lui anni e anni fa quando, durante una cena dai suoi, si era acceso una sigaretta e aveva proclamato con voce carica di pathos di preferire il fringuello alla passera.

In verità era terrorizzato. Spendeva le giornate in completa solitudine contando i “mi piace” sotto le foto che raffiguravano Kibum in costume da bagno, leggeva i commenti e gli apprezzamenti di numerosi ragazzi con foto profilo a luci rosse, uccideva con lo sguardo le decine di amici che si faceva di settimana in settimana. Poi provava a chiamarlo, in media venti volte al giorno: sapeva che era occupato con lo studio, che ormai mancavano solo poche ore all’inizio degli esami. Lo sapeva, non era un cretino. Eppure non poteva farne a meno: aveva disperatamente bisogno di sentirsi mandare a quel paese, di ascoltarlo mentre gli spiegava che se non si parlavano da… e chi se lo ricordava più?, era perché si stava ciucciando il cervello dietro ai libri (da tradursi con “non rompete il cazzo”). Credeva gli sarebbe bastato, ed era quasi scoppiato di gioia quando –finalmente– Kibum aveva risposto alla sua chiamata.

< Che c’è? >

Ottimo esordio, non avrebbe potuto iniziare meglio.

< Ciao… > aveva forzato la voce in un suono sereno che non riflettesse ciò che provava. Inutile specificare i risultati disastrosi. < Volevo sapere… sì, come va? >

< Come pensi possa andare? Sono esausto. > E lo era per davvero a giudicare dai singhiozzi. < Hyung, ascolta, se non è importante possiamo rimandare alla fine della sessione d’esami? Sto cercando di mantenere la borsa di studio, lo sai. >

< Solo cinque minuti, per favore. >

Kibum era rimasto in silenzio: in lontananza, il frusciare dei fogli graffiava i nervi di entrambi.

< E sia. Di cosa vuoi parlare? >

Già… di cosa voleva parlare? Non ci aveva neanche pensato tanto era stato forte ed irrazionale il desiderio di sentire semplicemente la sua voce. Gli avrebbe voluto chiedere una risata, un “ti amo”, una delle sue proposte indecenti, persino un giro al centro commerciale. Tutto, purché venisse da lui.

< Io… non saprei. >

< Mi stai prendendo in giro per caso? >

< No… è che… > Poi, l’illuminazione, il colpo di genio che ti capita una o due volte nella vita. La cosa giusta al momento giusto. < …mi stavo chiedendo se avessi bisogno di qualcuno che ti prepara il caffè: tu lo bruci sempre. >

< Apprezzo il pensiero ma no, so benissimo come andrebbe a finire. Poi sono a studiare da amici, quindi il problema non sussiste. >

…amici?

< Ah… compagni di corso? > aveva chiesto amareggiato.

< E chi se no? >

Sopportava in silenzio, Jonghyun, accennava sorrisi malinconici al vuoto: Kibum era stanco, doveva essere più comprensivo nei suoi confronti. Non c’era alcun motivo per-

< Sei geloso? >

Ecco, appunto.

< No, figurati. Dovrei? >

Che bugiardo.

< Ma quando mai? Ora possiamo chiudere Hyung? Sono indietrissimo… >

< Certo. In bocca al lupo, mi raccomando, Magari passo domani mattina a farti gli auguri… >

< Preferirei di no. Non prendertela eh, sono fisime mie: non voglio vedere nessuno domani, altrimenti mi agito e- >

< Capito, non devi giustificarti. > Certo era che stava diventando un bravissimo attore. < Allora buonanotte. Fighting!! >

Kibum non gli aveva neanche risposto.

Era rimasto lì, col telefono incollato all’orecchio, sperando in un “grazie” che non era mai arrivato. Gli ci erano voluti cinque minuti per capire che la conversazione era finita: altri cinque per capire che non era più il centro del mondo per il suo ragazzo.

 

19.

I primi raggi primaverili squarciavano la cappa di nubi densa incollata come scotch sulla carta al cielo.

Seduto sullo stesso muretto dove un anno e mezzo prima si era umiliato pubblicamente grazie a Kibum, Jonghyun attendeva le due del pomeriggio contando gli studenti che gli passavano davanti al naso. Un modo stupido per passare il tempo, non era riuscito a trovare di meglio.

Quel giorno, in quel preciso istante, Kibum stava dando l’ultimo esame della sessione invernale. Presto le cose sarebbero tornate alla normalità: niente più litigi, niente più assenze eterne, niente più preoccupazioni che non gli avrebbero permesso di chiudere occhio la notte, niente più gelosie ingiustificate. Niente di niente insomma. Pregustava già il sapore di una felicità che non si ricordava nemmeno che consistenza avesse, due labbra morbide e vellutate poggiate sulle sue, il calore di due mani intrecciate. Rivoleva indietro il ragazzo che era stato capace di farlo innamorare, quegli occhi dal taglio inconfondibile che non si sarebbe mai stancato di guardare, la sua schiettezza cruda e tagliente. In parole povere, voleva riabbracciare l’uomo al quale avrebbe voluto stare accanto per tutta la vita. Non era una richiesta tanto gravosa, no?

Si era sporto più e più volte per controllare la scalinata di marmo. Aveva anche camminato avanti e indietro lungo l’androne di aiuole incastrato tra il campus e la strada al di fuori. Aveva atteso per un tempo infinito, per la precisione tre ore, undici minuti e quarantasette secondi. Ora quarantotto. Quarantanove. Cinquanta. Una figura familiare si era affacciata sul corrimano che dava sulla rampa di scale, stava venendo in sua direzione.

Kibum.

Il cuore aveva cominciato a fare le capriole, si era ritrovato a correre per raggiungerlo, quindi stringerlo e sollevarlo al cielo: dopotutto si sapeva, tra i due quello che aveva i muscoli era lui.

Toccare nuovamente i suoi capelli, la sua pelle, i suoi vestiti pregni di Chanel n.5 era stata senza dubbio l’esperienza più emozionante della sua vita (senza contare la dichiarazione d’amore, ovvio): Kibum era esattamente come se lo ricordava, nato per vivere tra le sue braccia, di una perfezione così abbagliante da sembrare costruita. Non esisteva niente di più meraviglioso di loro due, all’infuori del baco d’affetto che avevano tessuto tutt’intorno per stare uniti.

Niente.

< Mi sei mancato. > gli aveva sussurrato all’orecchio rafforzando la presa.

< Mi stai soffocando, non respiro! >

< Un modo come un altro per dire che vedermi ti ha mozzato il fiato? >

Kibum aveva riso colpendogli il braccio per scherzo, come un bambino batte i pezzi dei Lego coi palmi delle mani per incastrarli perfettamente.

< Cretino… >

E si erano baciati.

Era stato uno di quei baci eterni alla “Colazione da Tiffany”. Non si erano curati del codice morale universitario: si erano divertiti a scandalizzare quei rari studenti che, in attesa di ricevere una valutazione, cercavano di catturare i primi cinguetti della nuova stagione. La percezione che avevano del mondo e di chi stava loro attorno si era ristretta negli occhi dell’altro, ora chiusi per gustare appieno quell’irripetibile vissuto.

Si erano staccati un po’ delusi per mancanza d’ossigeno.

< Allora? Com’è andata? > aveva chiesto Jonghyun cercando le chiavi della moto nelle tasche della giacca.

< Bene credo: il tipo affianco a me a un certo punto è entrato in panico, dovevi vederlo. Credo si chiamasse Jinki… giuro, per poco non sveniva. >

< Tua madre non ti ha mai insegnato che è maleducazione prendere in giro gli altri? >

< Nahhh… era troppo occupata a spiegarmi che il leopardato non va mai abbinato al lucido. >

Jonghyun aveva alzato un sopracciglio scettico, indeciso se credere alle parole dell’altro o meno.

< Si spiegano molte cose… > aveva asserito infine.

< Che vorresti dire? >

< Niente. > Gli aveva teso il casco indicando la Yamaha parcheggiata lì vicino. < Andiamo a festeggiare? Qualche proposta? >

Kibum aveva chinato lo sguardo imbarazzato: i residui di felicità erano morti annegati dai sensi di colpa dentro ai suoi occhi.

< Veramente… avevo già in programma di andare a mangiare coi miei amici dell’università. Lo avevamo deciso mesi fa… sì… mi spiace… >

Era successo così, Jonghyun lo aveva capito. Portandosi la diciannovesima sigaretta alle labbra, aveva dato il via al countdown definitivo che avrebbe cambiato radicalmente il futuro e le sue prospettive. Quella confessione altro non era stata che l’ennesima bufera distruttrice dei suoi sogni, fragili come castelli di sabbia. E aveva lottato per sedare il malumore, la cocente delusione annichilita dentro al suo stomaco. E aveva perso. Tutto per una… sì, cazzata, perché a conti fatti era perfettamente conscio che Kibum non aveva detto niente di male. Non lo aveva respinto, né gli aveva negato niente. Aveva semplicemente preferito trascorrere i primi momenti di libertà assieme ad altri.

< Ah… >  aveva detto ostentando una serenità discrepata. < Non… importa. Abbiamo tutto il tempo di festeggiare domani, no? >

Kibum aveva annuito poco convinto.

< Sì… certo. > Si era voltato verso la scalinata adocchiando i suoi compagni, universitari infagottati in tristissimi completi da rampolli e felicità ipocrite. < Scusami Hyung ma devo andare. Ci sentiamo più tardi, ok? >

Aveva risposto qualcosa, Jonghyun, forse un sì di cui però non serba alcun ricordo oggi. Sa che è stato allora che la paura di perdere Kibum lo aveva spinto sull’orlo della pazzia, come sa che dargli le spalle e tornare da solo alla propria moto era stato tanto straziante quanto umiliante. Aveva vagato in lungo e in largo quel giorno, senza meta, immaginandosi la sua voce nelle orecchie.

Era stato l’ultimo giorno in cui aveva sognato a occhi aperti l’amore sincero che Kibum aveva posto nelle sue mani mesi or sono.

“Datti una calmata Jonghyun, stai facendo di un niente l’apocalisse” si era detto. “Domani vi vedrete, andrete a divertirvi, cazzeggerete sul divano e tutto tornerà come prima.”

Come prima.

Già.

Non si era creduto neanche per un istante.

 

20.

Jonghyun aveva estratto il pacchetto di MS dalla tasca dei pantaloni con un gesto seccato. La consistenza morbida e fragile dell’ultima sigaretta lo aveva dapprima irritato, poi appagato, specie quando incontrando lo sguardo di Kibum aveva gioito del terrore di cui erano imbevuti i suoi occhi. Se ne stava lì, Kibum, bello come la prima volta in cui lo aveva visto sulle rive del fiume intento a studiare, la matita a penzoloni tra le labbra. No, forse anche di più. Era cresciuto e aveva messo su, incredibile ma vero, qualche muscolo. Il volto poi si era fatto più maturo. Il carattere mitigato. Avrebbe potuto continuare così per ore, lo sapeva: non  sarebbe tornato sui suoi passi.

< Cosa… cos’hai detto? >

La sua voce, un caleidoscopio di emozioni sofferenti, aveva squarciato gli attimi di silenzio catartico in brandelli di dubbi e paure.

Jonghyun si era acceso la sigaretta ostentando tranquillità e pieno controllo della situazione.

< Ho detto che è finita, non voglio più continuare questa storia con te. >

Kibum aveva cominciato a piangere senza porsi freni. Non gli aveva parlato però, non aveva chiesto nessuna spiegazione, il più piccolo perché: aveva tenuto fede alla promessa fatta un anno fa, senza infangare l’orgoglio che si era costruito e di cui andava tanto fiero.

Era stato Jonghyun a sputare i suoi risentimenti, il suo odio, la sua rabbia e, soprattutto, la paura.

Jonghyun amava ancora Kibum, lo amava come ogni figlio ama la propria madre, le stelle la luna, il mare il cielo. Lo amava a tal punto che si sarebbe volentieri buttato da un ponte se lui glielo avesse ordinato. Ed era proprio perché lo amava che aveva deciso di troncare quella relazione: Kibum stava per laurearsi, presto avrebbe ereditato l’agenzia immobiliare di suo padre. Era chiaro che i suoi genitori gli avrebbero presto o tardi combinato un matrimonio. Per non parlare poi della vita e degli amici che si era fatto all’infuori di lui e con i quali trascorreva tutto il suo tempo.

Jonghyun era diventato una presenza asettica, la scopata di quindici minuti atta a placare gli istinti animali. E la cosa non gli piaceva, come non gli piaceva mentire riguardo il vero motivo per cui stava abbandonando l’uomo della sua vita.

Ma chi voleva prendere in giro? Stava troncando quella relazione per paura di vedersi lasciare da lui prima, questa era la verità. Lo terrorizzava a morte la vita sociale che si era costruito, una compagnia e un mondo a lui estraneo che stava demolendo il concetto di “noi” a favore di “io” e “lui”. Gli amici, come lo studio, la famiglia e addirittura i gruppi universitari, che Kibum aveva sempre bigiato per stare insieme, avevano cominciato a essere priorità invalicabili alle quali non poteva mancare. Jonghyun ci aveva messo poco a capirlo: presto, molto presto, le esigenze di Kibum lo avrebbero schiacciato se non si fosse deciso a muovere un passo. Non avrebbe potuto sopportare la sofferenza di vedersi piantare in asso dal ragazzo che gli aveva stravolto la vita, no: per questo lo aveva preceduto, per non dargliene l’occasione. Per sopravvivenza. Per limitare i danni. Perché era un codardo di dimensioni epocali e da tale stava scappando innanzi a qualcosa che non riusciva più a sopportare.

Kibum lo aveva guardato un’ultima volta, in piedi e davanti a lui: aveva cercato disperatamente un qualcosa nei suoi occhi che gli facesse pensare a un errore. Continuava a chiedersi perché, senza riuscire ad articolare un solo pensiero coerente o una frase di senso compiuto. Lui lo amava, e sapeva benissimo che Jonghyun condivideva lo stesso sentimento. Perché stava succedendo una cosa del genere?

Jonghyun gli si era avvicinato porgendogli il pacchetto vuoto di MS.

< Tieni. > gli aveva detto indicando la sigaretta che stringeva tra le labbra. < Con questa è finito. Puoi andare. >

L’ultimo atto, la lama della ghigliottina che recide la testa di netto senza dare l’occasione di provare dolore.

Kibum aveva guardato con occhi increduli il pacchetto vuoto, capendo finalmente alla base di cosa fosse nata la loro storia. Una relazione durata venti sigarette: Jonghyun aveva cominciato il conto alla rovescia il giorno stesso in cui si erano messi insieme.

Non era riuscito a sopportare oltre. Col cuore traboccante d’odio si era voltato, aveva dato le spalle al suo primo amore. Avrebbe dovuto dare retta a quegli antichi detti, quelli sull’origine e la fine di ogni cosa: chissà che magari così facendo non sarebbe andata diversamente.

Jonghyun aveva seguito Kibum con lo sguardo fino a quando gli era stato possibile, tra le mani il pacchetto pesava come un macigno. Era crollato in lacrime sull’asfalto graffiandosi le ginocchia, urlando, battendo i pugni e chiedendosi perché.

Perché Kibum non gli aveva detto niente?

Perché Kibum aveva smesso di amarlo?

Perché le cose erano cominciate a cambiare?

Perché?

PERCHE’?

Era rimasto abbandonato sulla strada per un tempo che gli era sembrato eterno, forse aspettando un suo ritorno. Quando però alzando la testa aveva incrociato lo sguardo rammaricato di Minho, non era più riuscito a trattenersi: era scoppiato in lacrime.

< E’… finita. > aveva detto semplicemente.

Minho non aveva risposto, aiutandolo invece a rimettersi in piedi e a sostenere il peso del proprio corpo.

< Andiamo a casa, Jonghyun. Insieme. >

 Le strade di Kibum e Jonghyun si erano divise, ramificate come le viuzze invisibili di Seoul. Non si sarebbero più rivisti, né si sarebbero cercati: avrebbero però conservato il ricordo l’uno dell’altro con cura e dedizione, intraprendendo un nuovo cammino a testa alta.

La loro storia e soprattutto la sua fine aveva dato lo scacco matto alle loro esistenze, chi per il meglio, chi per il peggio.

Quel giorno, un tiepido e timido sole aveva salutato il passato per rivolgersi al futuro traboccante di buoni propositi.

 

 

 

 

Epilogo

 

 

Un anno dopo.

Jonghyun

 

0.

Jonghyun guarda la parete tappezzata di pacchetti di sigarette con cipiglio perplesso, il cozzare di colori e scritte svuotati di ogni significato esibirsi in un lesto tentativo di prenderlo per la gola. Il tabaccaio, un uomo sulla cinquantina con un paio di baffi incolti sotto il naso e una barba da cinque del pomeriggio, gli rivolge un invito implicito attendendo un suo ordine, stupito di trovarlo di nuovo lì dopo quasi tre anni d’assenza.

< Ne è passato di tempo dall’ultima volta, eh ragazzo? >

Annuisce cacciando un saluto un po’ burbero ma sincero.

< Già… >

< Che ti è successo? Sei andato da qualche parte in giro per il mondo? >

< Abbandonare Seoul? E per quale città? No, no, niente di tutto ciò. >

L’uomo smette di insistere, crede che tutte quelle attenzioni possano infastidire il suo cliente, come effettivamente stanno facendo. Dopotutto è  risaputo che Jonghyun è un tipo che si irrita con poco, specie quando si ficca il naso nelle sue faccende.

< Il solito? Un pacchetto di Malboro? >

Jonghyun guarda a lungo prima le Malboro poi le MS esposte in ordine alfabetico proprio affianco.

< No. > prende un accendino dal vasetto di plastica posto accanto a un pupazzetto di Pororo grande quanto la sua mano. < Solo questo. >

< Niente sigarette? >

< Ho smesso di fumare. > ammette pagando l’oggetto senza volere il resto: pochi Won, non una perdita così gravosa. < Arrivederci. >

Esce dal locale nel freddo primaverile, gli occhi curiosi dell’uomo puntati come spilli sulle sue spalle. Risponde al suo saluto un po’ deluso, amareggiato per aver perso uno dei suoi migliori clienti: spera di incontrare Jonghyun di nuovo un giorno, magari parlare del niente davanti a un tè caldo. In fin dei conti gli piace quel ragazzo, trova affascinante l’alone di mistero che si è cucito in un drappeggio orlato tutt’intorno.

Jonghyun sbadiglia ignaro dell’affetto paterno che quell’uomo nutre nei suoi confronti concentrandosi invece sulla figura che, sul limitare del marciapiede, regge tra le mani due cappuccini caldi.

< Ce ne hai messo di tempo. >

La solita gentilezza di Minho.

< Tieni. > Gli porge il suo bicchierone di carta preso da Starbucks sorseggiando il proprio con fare annoiato. < Ora possiamo andare? >

< Ma sentitelo! Vado a comprargli l’accendino e mi devo sentir parlare pure così. Ritieniti fortunato se vivi ancora sotto il mio stesso tetto! >

Minho ride malignamente arpionandogli il volto tra le dita e fissandolo intensamente.

< Fortuna hai detto? Devo dedurre che possiamo limitare il numero di scopate settimanali? >

< Non ci pensare neanche. > Sorride baciandolo delicato, un contatto leggero quanto il battito d’ali di una farfalla. < Detto ciò, dovresti smettere di fumare. Sai che non fa bene. >

< Detto da te è tutto un programma. > Minho gli prende la mano cominciando a camminare. < Non è che sei preoccupato che possa fare qualcosa di simile a quello che facevi tu fino a un anno fa? Del tipo, finisco il pacchetto e ti butto nel cassetto del dimenticatoio? >

< Ma figurati. Tu lo fai perché hai il vizio. Per questo verso posso dormire sonni tranquilli. >

< Già. Sono io quello che si ritrova ad essere geloso del pacchetto di sigarette vuoto che tieni ancora dentro la tasca della giacca. >

Jonghyun si ferma all’improvviso, i piedi fusi al cemento grigio plumbeo gli impediscono di proseguire. Guarda Minho con occhi severi, gli occhi di chi sperava di non dover tornare sulla questione per quella che probabilmente era la millesima volta.

Si morde l’interno delle guance passandosi la lingua tra i denti, lava via ogni rimasuglio di frustrazione dalla bocca. Non vuole sputargli alcun rancore addosso.

< Ti ho già detto che lo tengo per ricordarmi di aver chiuso col passato. Se non fosse per LUI probabilmente a quest’ora starei ancora fumando, e tu sai meglio di me cosa vuol dire, vero? >  Chiude gli occhi ficcandosi le mani in tasca, stringe forte il pacchetto di MS ormai consunto e sgualcito che ha fatto le ragnatele dentro al suo giubbotto. < Io e te non staremmo assieme. >

Minho non risponde, non subito perlomeno. Preferisce abbracciarlo ed affondare il naso tra i suoi capelli neri.

< Lo so. E’ solo che… > respira a fatica raccapezzando le parole giuste per confessare le sue angosce. < …la verità è che ho paura di vederLO arrivare e portati via da me. >

Jonghyun schiocca la lingua sibillino, a metà fra il seccato e il lusingato. Vive di contrasti da quando ha cominciato a uscire insieme a Minho, ad andarci a letto e soprattutto a…

< Ascoltami bene. > Lo allontana da sé per riuscire a parlargli faccia a faccia. < Non potrò mai dimenticare Kibum, ficcatelo bene in testa. Questo non vuol dire assolutamente che ci tornerei assieme se mi si presentasse l’occasione. Il motivo per cui Kibum è e continuerà a essere così importante per me è perché grazie a lui sono riuscito a liberarmi dalle sigarette e, soprattutto, a cominciare una storia seria senza ansie o doppi fini con te. Sono stato chiaro idiota? In che lingua devo dirtelo che ti amo e che non scapperei da te neanche fosse quel gran bel pezzo di manzo che è T.O.P. a chiedermelo? >

< Ah beh, questa sì che la garanzia che mi serviva! > Minho scherza spingendolo indietro per gioco. < Comunque ho capito. Ora però ci conviene andare: le iscrizioni all’università non ti aspetteranno in eterno. >

Jonghyun accarezza per l’ultima volta il pacchetto di MS prima di annuire e seguirlo.

< Grazie. > dice solamente questo. Entrambi sanno che significa molto di più.

Si prendono nuovamente per mano ricominciando a camminare. Un nuovo inizio li attende, e sembra promettere le più meravigliose sorprese.

 

 

 

Un anno dopo.

Kim Kibum

 

1.

Kim Kibum scartabella l’involucro di plastica sottile con le unghie laccate di blu elettrico e borchie fatiscenti. Strappa la linguetta aprendo il pacchetto, pesca una sigaretta con fare cinico, seccato per non aver trovato le MS quella mattina dal tabaccaio. La giornata non avrebbe potuto cominciare peggio: aveva dovuto ripiegare su altro, una simpatia nata senza un perché o valido motivo che gli era costata il doppio degli Won e un’inspiegabile malinconia.

< Grazie per essere venuto, Hyung. >

Scrolla le spalle accarezzandosi le labbra screpolate coi polpastrelli freddi. Kibum ha sempre freddo, anche d’estate. Ha cominciato a viverlo quando un anno fa si fatto umiliare da quello stronzo di cui non vuole riesumare neanche il nome.

< Figurati Taemin. Di che volevi parlarmi? >

Il ragazzo è nervoso, è evidente com’è chiaro che Kibum ha già capito qual è il motivo per cui gli ha chiesto d’incontrarlo. Per questo è andato a comprare le sigarette, per salutare un nuovo inizio che avrebbe portato grandi novità nella sua vita, negli ultimi tempi piatta come una tavola da surf. La vera novità era stata però comprare un’alternativa alle MS, l’unico frammento di passato che non ha mai trovato il coraggio di buttare nel cestino.

< Hyung… tu mi piaci. > Taemin evita accuratamente il suo sguardo, scruta le panchine poste ai cigli delle vie poggiate sul ciottolato bianco. <  Ecco… è un po’ che ti osservo e ho notato che non giri più col tuo ragazzo. Vi siete lasciati? >

Annuisce in silenzio, fa attenzione a non incrinare la maschera ferrea e glaciale. Forse è stato un bene comprare delle sigarette diverse: quella potrebbe essere la svolta che gli consentirà di chiudere definitivamente con lui. Dopotutto, se fuma e prende le MS la colpa è solo sua.

< Sì, un anno fa. > ammette furibondo.

< Oh! Ma allora potresti metterti con me! > Taemin si porta le mani davanti alla bocca pallido e sudato. < Se ti va ovviamente! Non… sentirti in obbligo solo perché mi piaci. >

< Non ci ho pensato neanche per un secondo. > Kibum sbuffa seccato cercando l’accendino nella tracolla di pelle nera: pensa sempre che è arrivato il momento di cambiarla, alla fine non lo fa mai. < Va bene Taemin. Sarò il tuo ragazzo. > accetta infine trovando quel che andava cercando.

Il ragazzo gli rivolge un sorriso trentadue denti di un’innocenza disarmante, uno di quelli che ti fanno sentire un mostro a prescindere.

< Oh… io… grazie Hyung. F-farò del mio meglio, lo prometto! >

A Kibum viene quasi da ridere: poveraccio, non si rende neanche conto di essere solo un ripiego, un modo come un altro per cercare di dimenticare LUI.

Si dice che dovrebbe sentirsi in colpa, che non è giusto: sta per infliggere la stessa sofferenza vissuta da lui per mano di un coglione qualunque a un bambino. Alla fine di quella storia Taemin crollerà, com’è crollato lui mesi fa, ma non gli importa: ha smesso di interessarsi agli altri quando il cuore gli si è rotto in seno al petto.

< Lo spero. > risponde semplicemente assaporando il gusto della sua vita, fatto di un tabacco diverso da quello che prendeva Jonghyun.

Nelle tasche, un pacchetto di Malboro conta già i giorni che rimangono per decretare la fine di quella storia.

 

 

 

 

 

[The end…?]

 

 

 

***

 

 

Varie e sconclusionate eventuali:

 

Bah! Non aspettatevi nessuna spiegazione perché non saprei che propinarvi. Sono seria: non ho la più pallida idea di dove sia andata a pescare questa fiction, che tra l’altro mentre scrivevo mi ero imposta di far finire bene. Beh, non che finisca male: Jonghyun trova finalmente la felicità e la tranquillità con Minho mentre Kibum comincia lo stesso cammino intrapreso da Jonghyun due anni prima con lui. Il finale di Kibum è aperto non perché ci sarà un continuo, come il “the end” col punto di domanda: le due cose indicano semplicemente il ciclo continuo della vita e il fatto che, come lui è stato l’eccezione di Jonghyun, il ragazzo delle MS, Taemin sarà il suo ragazzo delle Malboro, quindi la persona capace di restituirgli la serenità. La cosa triste è che il nostro Kibum è convinto di essersi liberato di Jonghyun quando invece torna a legarsi a lui comprando le Malboro, ovvero le sigarette che ha sempre fumato il nostro dinosauro. Però io spero in un lieto fine per Kibum e Taemin <3 Questa è la mia interpretazione**

Ah già, i numeri all’epilogo: ovviamente si riferiscono alle sigarette. Jonghyun ha smesso di fumare, quindi il suo giro si è chiuso (= sero). L’uno per Kibum invece rappresenta l’inizio di un nuovo ciclo da venti.

 

Che posso dire ancora? Non so se tornerò a scrivere qualcosa sugli SHINee in un futuro prossimo: attualmente sono invischiata in un progetto su un altro fandom K-Pop che sta prosciugando le mie forze, indi per cui la vedo dura. E sappiate che mi dispiace perché, credetemi, scrivere su Kibum e Jonghyun è stata la cosa più dolce e naturale che mi sia mai capitata. Conto però di tornare prima o poi, sempre se avete gradito questa sciocchezza e non mi odiate a morte per la sua lunghezza e per il finale (altamente probabile ;.;). Ricordatevi di commentare se vi è piaciuto quello che avete letto: è un gesto carino che aiuta lo scrittore a migliorarsi. Se siete autori lo saprete meglio di me. Poi boh, ripongo le mie speranze nel vostro buon cuore, so che siete delle brave ragazze.

 

Grazie mille a chi commenterà, chi ha letto, chi mi manderà a quel paese patteggiando per il povero Kibum ecc ecc. <3

Alla prossima.

 

 

Shin

 

   
 
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