L’ABC della storia (da tradursi con “lasciate ogni
speranza o voi ch’entrate”):
Oddio, non
lo credevo possibile, non così presto perlomeno: ho postato la mia prima
fiction sugli SHINee** Confesso di essere emozionata come una bambina dentro a
un negozio di giocattoli.
Dunque che
dire? Vado coi warnings? Ma sì, non sia mai che manchino all’inizio di una mia
storia u.u
1)
Jongkey: Perché sì. È stato il mio primo OTP all’interno
del gruppo e, come dicono di questi tempi, il primo amore non si scorda mai.
Poi è inutile che ce la rigiriamo: Jonghyun e Key insieme sono tanta roba,
punto u.u
2)
Struttura della shot: Ah, state
freschi, è una vera e propria epopea. L’idea di base era quella di creare venti flashfic che, come narrato
nell’introduzione, riassumessero venti momenti diversi della love story fra
Jonghyun e Key. Il concetto chiave qui è
“idea di base”: mi vergogno da morire ad ammetterlo ma la sottoscritta e la
sintesi vengono da due pianeti paralleli destinati a non incrociarsi mai.
Conclusione: nessuna delle flashfic che state per leggere conta cinquecento
parole o meno, viaggiano tutte fra le cinquecento e le mille.
3)
Trama: Nessuno spoiler, tranquille. Voglio solo
specificare una cosa e togliermi così ogni responsabilità: non sapevo che diavolo stavo scrivendo e soprattutto perché lo stavo
facendo. Detto così suona brutto, lo so, ma è la verità. Questa shot si è
scritta da sola, ho lasciato pascolare ogni sentimento verso lidi sconosciuti
che l’hanno condotta, vista crescere, quindi chiudersi come il papiro
interminabile di bla-bla-bla qua sotto riportato. In teoria ha una trama… ma sì che ce l’ha, convincetevene prima di
cominciare a leggere, sta qui il segreto.
4)
Rating: Un arancione che più falso non si può. Io la
collocherei fra giallo e arancione, ma non esiste, che so, un azzurro
intermedio;.; In ogni caso il rating è alto per alcune esclamazioni non
propriamente eleganti dei protagonisti e una mezza scena non approfondita e
all’acqua di rose di sesso.
5)
L’OOC: Non mi arrogo mai il vanto di azzeccare la
caratterizzazione di PG che esistono nella realtà, sarebbe un terno all’otto. Oltretutto,
ognuno di noi ha una visuale diversa di come sono, cosa fanno e cosa pensano.
Secondo il mio opinabile parere il Key della mia shot è abbastanza IC. Jonghyun
no, è partito per la tangenziale, rassegnatevi.
6)
Dedica: Qualche giorno fa ho ricevuto un messaggio privato
che mi ha emozionato e commosso come mai prima d’ora. Se ho deciso di dedicare
questa shot a questa persona è per disinteressata riconoscenza e gratitudine
nei suoi confronti. La cosa buffa è che non so neanche se conosce gli SHINee, se
gradisce la coppia o che ne so, visto che attualmente mi segue su un altro
k-pop fandom. Fatto sta che sentivo il bisogno di dedicargliela: mi spiace solo
che la storia non sia nulla di che, scritta a cuor sereno, senza aspettative e
le seghe mentali che stanno a priori di ogni mio scritto. A Kuroichan vanno i miei più sentiti ringraziamenti.
Sperando
riusciate ad arrivare alla fine, vi lascio alla lettura. Grazie in anticipo a
chi ce la farà ;.;
P.S. Riporto qua
sotto la canzone che mi ha aiutata a scrivere, mi ha accompagnato e
letteralmente strappato fuori ogni parola. Se avete voglia cercatela,
ascoltatela mentre leggete: vi giuro che è bellissima**
Colonna
sonora:
Utada Hikaru: Sakura Nagashi
(Grazie, Maika)
Il
ragazzo delle MS
1.
Jonghyun aveva guardato a lungo il pacchetto
di MS incastrarsi tra le sue dita, la plastica trasparente sezionare la luce ed
irradiarla negli occhi del ragazzo che gli stava innanzi. Aspettavano entrambi
una sua risposta, un cenno che dissipasse la convinzione che si era costruito
quella mattina quando, andando a comprare le sigarette, si era sentito dire che
avevano finito le Malboro: quella sarebbe stata una pessima giornata. Si era
dovuto accontentare di una marca da, come li definiva lui, finti fumatori.
Aveva scelto sinceramente a caso, forse per simpatia, non si saprebbe
rispondere, e aveva assaporato il sapore acre dell’insoddisfazione una volta
uscito dal tabaccaio, un pacchetto di MS nero pece in mano e dieci minuti per
arrivare al Namsan Park a disposizione.
Con lentezza esasperante, aveva cominciato a graffiare
la linguetta precariamente attaccata al resto dell’imballo. Aveva annusato
l’aria densa di nicotina e smog seulese prima di portarsi una sigaretta alle
labbra, mordicchiare il filtro ed arricciare il naso indispettito. Poi se l’era
accesa, inspirando a fondo, pensando che era anche peggio di quanto avesse
immaginato. Non era così che avrebbe voluto inaugurare quella storia, non era
così che faceva di solito. L’abitudine è una brutta bestia, si era detto
guardando il cielo plumbeo: neanche lui gli dava soddisfazioni quel giorno.
< Allora? Facciamo coppia? >
La voce del ragazzo aveva rigato l’orizzonte
pregna di timore. Una smorfia nervosa deturpava le sue labbra, piene e
femminee, affondate in uno sciarpone di lana nero.
Jonghyun aveva studiato in silenzio il
ticchettare nervoso dei suoi piedi sull’asfalto, la timidezza corposa gravargli
sulle spalle e quell’alone d’innocenza troppo abbagliante che tratteggiava il
suo corpo, troppo perfetto per essere vero.
Aveva annuito, senza porsi però alcuna
aspettativa, senza il benché minimo interesse. Il tabacco delle MS era troppo
insipido per i suoi gusti, esattamente come quel ragazzino, quel… come aveva
detto che si chiamava? Kim Bum? Kim Kong? Ah! Kim Kibum, già. Come aveva fatto
a dimenticarselo? A sette anni i suoi gli avevano regalato un volpino con una
targhetta al collo recante lo stesso nome. Tra l’altro, quel tipo aveva un po’
l’aria del cagnolino, quello che per una grattatina alle orecchie avrebbe
accettato qualsiasi umiliazione.
< Ci scambiamo i numeri? Ti va? >
Gli aveva dato il suo cellulare, un
vecchissimo Motorola ormai fuori produzione, continuando a fumare senza
proferir verbo. Lo aveva lasciato fare, abbozzare qualche discorso atto a incrinare
la nube d’imbarazzo che, a suo vedere, doveva metterli a disagio. Kim Kibum
tutto sommato gli faceva pena: era un bravo ragazzo, aveva sentito dire che
frequentava la Sogang University, che era uno studente modello. Doveva essere
proprio sfortunato, però, per aver incrociato la strada con la sua pochi giorni
fa. Dopotutto lo sapevano anche i muri, no?, che la sua fama era malata quanto
le acque putride del fiume Han.
< Ok… allora… ci sentiamo, sì. > aveva
detto lanciandogli un’ultima occhiata prima di scappare a gambe levate.
Jonghyun lo aveva guardato allontanarsi, i
contorni storcersi nel fumo fino a dilatarsi, opacizzarsi.
Fare coppia, aveva detto. Peccato che per lui
Kim Kibum fosse solo una scopata e nulla più.
2.
Avvertiva distintamente ogni vertebra danzare
sotto le sue dita, le scapole schiudersi come le ali di un angelo, la pelle
lacerarsi al contatto con le sue unghie.
Jonghyun osservava ammaliato il corpo perfetto
di Kibum brillare di luce propria, catalizzare in ogni stilla di sudore la luce
fioca sfuggita al blocco degli infissi e il torace stretto alzarsi, abbassarsi,
quindi rialzarsi affannosamente, seguendo il ritmo del battito del suo cuore.
Le guance poi, velate di un rosso innocente, esaltavano la vergogna pudica di
chi fa di tutto per nascondere la paura della prima volta. Qualche ciuffo di
capelli castano, umido come le loro lingue occupate a ricorrersi in un gioco
senza vincitori né vinti, gli incorniciava gli angoli degli occhi a mandorla
leggermente dischiusi.
Jonghyun aveva assaporato appieno la
consistenza della sua pelle, l’aveva trovata morbida come i petali di una rosa.
Senza fretta, senza pressioni. E non aveva potuto reprimere il desiderio di
affondare i denti nel suo polso, mordere fino a farlo sanguinare, incurante
delle urla di dolore che gli giungevano ovattate all’orecchio: ogni cosa di
Kibum lo estasiava, tutto sembrava essere nato per incastrarsi al suo corpo.
Erano come due pezzi di puzzle, predestinati per stare insieme, o meglio, per
scopare.
Aveva provato ad allargargli le gambe senza
guardarlo o rispondere al richiamo tacito che, da povero ingenuo, gli stava
rivolgendo. Si era ritagliato uno spazio coi fianchi tra le sue cosce, li aveva
adagiati incurante sulle ossa scoperte dell’amante strappandogli un gemito di
dolore, che lui aveva volutamente reinterpretato scambiandolo per eccitazione.
E lo aveva penetrato senza preamboli, senza preparazione, senza parole dolci a
rassicurare la bestiola indifesa che, spaventata, si stringeva al suo petto.
Era stato meraviglioso, la migliore scopata
della sua vita. Nessun uomo o donna del passato, e sospettava del futuro,
avrebbero potuto reggere il confronto. Nessuno.
Una volta finito, si era staccato dal suo
corpo provato pescando una sigaretta dal pacchetto abbandonato a terra. Se
l’era accesa senza preoccuparsi di chiedere il permesso, o assicurarsi che
Kibum stesse bene: lo sentiva respirare, mugugnare tra le lenzuola sporche di
desiderio e sesso, quindi morto non poteva essere.
< Come… come…? > aveva annaspato, rivolgendogli
un’occhiata fugace.
Jonghyun aveva ammiccato, stiracchiando le
gambe indolenzite e i muscoli addormentati.
< Com’è stato? > aveva concluso. <
Passabile direi. >
Che gran bugiardo. Che grandissimo pezzo di
merda.
Kibum aveva sospirato grattandosi la punta
del naso con l’indice destro.
< Sai… era la mia prima volta con- >
< Un uomo? >
< Sì. >
< Eri vergine quindi. >
< Beh, no. >
< No? >
< Ho avuto una ragazza. >
Jonghyun aveva contratto la mandibola in una
morsa furiosa.
< Una ragazza? > aveva ripetuto.
Kibum lo aveva guardato con occhi dapprima
sorpresi, poi preoccupati, infine divertiti. Quindi era scoppiato a ridere, gli
aveva colpito l’avambraccio con forza e si era avvinghiato al suo petto ancora
nudo.
< Si può sapere che cavolo stai facendo?
> gli aveva chiesto irritato, la cenere della sigaretta a bruciare sull’inguine
scoperto.
Lui aveva continuato a ridere prendendogli la
mano e baciandola.
< Fai tanto il duro, il freddo, insomma,
lo stronzo sociopatico, e poi mi cadi così sul più bello? Cos’è, sei dispiaciuto
per non essere stato il primo? >
Jonghyun non lo avrebbe mai ammesso perché
sconvolto, oltre che irrazionalmente orgoglioso. Si chiede tuttora se le cose
sarebbero andate diversamente se solo avesse accettato quelle parole come un
dato di fatto e non le avesse saggiate per sabbia al vento.
3.
Kim Kibum sostava davanti alla bacheca dove,
affissi come innumerevoli margherite, pendevano le valutazioni dell’ultimo
esame di beni culturali. Gli occhi incollati sul registro vagliavano veloci la
lista di nomi nero china, stampe impersonali di un pc che forse non avrebbe mai
visto. Si mordicchiava le pellicine delle dita con fare laconico, torturava i
ruderi d’imposizione traditi dalla ruga di preoccupazione stigmatizzata sulla
fronte. Jonghyun lo guardava a debita distanza, seduto su un muretto di sassi
appunti che gli schiacciava i tendini delle caviglie. Per ingannare l’attesa
aveva cominciato a fumare e a lanciare qualche occhiata languida ai sederi
delle ragazze fasciati in gonne a pieghe che, a ogni passo, accarezzavano le
loro gambe nivee e lisce. Non erano poi tanto diverse da quelle di Kibum, di
una grazia e bellezza rara, delicate quanto le foglie secche e rosse d’autunno.
Qualcuna gli aveva rivolto un cenno compiaciuto e un saluto caloroso, un invito
a raggiungerle e una probabile notte di fuoco. Forse le avrebbe chiamate, forse
avrebbe ceduto, se Kibum non gli si fosse gettato tra le braccia con un sorriso
grato stampato in faccia.
Cosa ci faceva di preciso lui lì? Perché si
era fatto incastrare in quella cosa da fidanzatini melensi? La sua concezione
di storia, specie se con un uomo, non andava al di là di una o due scopate, o
meglio di un pacchetto di sigarette. Com’era che adesso si ritrovava a
scorrazzare il suo trastullo sessuale dove questo gli chiedeva?
< Cento!! > aveva urlato Kibum baciandolo
davanti a tutti e prendendogli le mani.
Jonghyun lo aveva allontanato subito,
infastidito dagli sguardi allibiti, altri disgustati, degli studenti: non gli
piaceva essere al centro dell’attenzione, men che meno per questioni private
come quella.
< Ora possiamo andare? > aveva chiesto
cercando nelle tasche del giubbotto le chiavi della sua moto.
< Andiamo a festeggiare? >
< Se per festeggiare intendi scopare,
allora sì. >
Kibum aveva scosso la testa seccato e piegato
gli angoli della bocca in un sorriso sadico.
< No, intendo dire uscire assieme, andare
a mangiare i noodles, poi il cinema ed infine lo shopping. >
< Devi essere completamente impazzito. Ti
ho già accompagnato a scuola, cosa ti fa credere che io accetti di stare a
questo tuo stupido gioco? >
< Il fatto che non scoperò più con te se
non lo fai? >
Quello era stato il momento in cui si era
reso conto per la prima volta di chi fosse davvero Kim Kibum. Sotto la maschera
da bravo ragazzo, quella di una timidezza sconfinata e di bon-ton francese, si
nascondeva un ragazzo impertinente e senza peli sulla lingua, uno di quelli che
ciò che decretava doveva essere accordato ed eseguito. Non un agnello, non un
leprotto, bensì un gatto capriccioso che tesseva inganni a regola d’arte sul
suo manto liscio come la seta, fulvido di colori accecanti.
Jonghyun aveva sbuffato porgendogli il suo
casco con l’entusiasmo di chi sapeva che stava andando incontro alle pene
dell’inferno.
< Dove andiamo? > aveva chiesto.
Kibum aveva sorriso vittorioso, gli occhi
piegati in due ali di gabbiano.
< Ora sì che ragioniamo. >
Stretto del giubbotto di pelle bruciata,
Jonghyun aveva pensato che forse la situazione stava cominciando a sfuggirgli
di mano.
4.
Il plico di fogli abbarbicato sulla mensola
sopra la testa di Jonghyun minacciava di cadere da un momento all’altro. Si
trattava per lo più di volantini pubblicitari, persi fra varie offerte di
lavoro che aveva accatastato seguendo un ordine impreciso e privo di logica.
Assomigliava un po’ alla torre di Babele, un enigma senza risposte che
aspettava solo una sua presa di posizione.
Steso a gambe aperte sul divano di casa e con
lo stecco di un ghiacciolo ormai sciolto sulla lingua, Jonghyun guardava la
televisione ignorando il muovere concitato del suo coinquilino, Minho. Lo
infastidiva il fruscio del vento serpeggiare tra i rami del noce fuori, l’alito
primaverile accarezzargli la pelle accaldata. Odiava anche il profumo fragrante
di cannella che veniva dalla cucina, che occultava l’aria viziata di cui era
pregno il plaid ai suoi piedi. La canotta bianca aderiva perfettamente al suo
addome bagnato. Avrebbe dovuto levarsi di dosso quell’impaccio, come avrebbe
dovuto togliersi dalla testa il sorriso troppo dolce di Kim Kibum. Ma per
quanto ci provasse, per quanto lottasse per ricacciare indietro la voce
melliflua e le immagini seducenti del suo corpo nudo, queste tornavano a
stuzzicare puntualmente la sua immaginazione portandolo a desiderare la sua
presenza accanto.
Aveva solo bisogno di una sana scopata,
niente di più, niente di meno, si era detto. O almeno così aveva decretato. Che
poi fosse vero o no, aveva deciso di non considerarlo.
< Ma dai, non ti ho mai visto in
condizioni così pietose. >
Si era voltato a guardare Minho, più i libri
posti in fila indiana sul tavolo dietro al quale si era seduto: anche Minho,
come Kibum, era uno studente universitario. Gente spocchiosa predisposta
all’egocentrismo. Per loro era facile catalizzare le invidie di quelli come
lui, poveri disgraziati che per sbarcare il lunario si umiliavano in impieghi
degradanti. Non che fosse cattivo, per carità: era il contesto di perfezione
che decorava i suoi giorni a essere ingiusto.
< Di cosa stai parlando? > aveva
chiesto.
< Del tuo sguardo perso nel vuoto, o del
fatto che stai guardando Boys Before Flowers senza cambiare canale, o
semplicemente della sbandata colossale che hai preso per la tua nuova fiamma,
come l’avevi chiamata? Il ragazzo delle MS, Kim Kibum mi pare. >
< Ma che- >
< Sì, sì, nega pure, lo fai sempre quando
devi ammettere che ho ragione. > Minho aveva calato lo sguardo sulle pagine
degli scritti, sfogliando distrattamente alcuni appunti presi durante le
lezioni.
< Pensa a quello che ti pare, non
m’importa. >
< Oh, giusto, dimenticavo le tue battute
saccenti. >
< Guarda che di saccente qui c’è solo la
tua ostinazione. >
< Come preferisci, tanto non sono io
quello che si sta bevendo il cervello davanti a un Drama per ragazzine. >
Si ricorda di aver nascosto le mani dietro
alla schiena per impedirsi di scattare sull’attenti e strangolarlo. Non aveva
bisogno di una nuova coscienza: per quanto compromessa, voleva continuare a fare
affidamento sulla sua.
< Quando esci, porta giù la spazzatura.
Devi vederti con Kibum tra mezzora, no? >
Come dimenticarlo, non faceva altro che
pensarci da un’ora a questa parte.
< Non puoi farlo tu scusa? >
< Non so se hai notato, ma sarei un tantino impegnato: domani ho un esame
sulla nomenclatura IUPAC e quella tradizionale, non posso farmelo andare male.
> E non poteva per davvero se voleva mantenere la sua media del cento su
cento, facoltà medicina.
Jonghyun aveva sbuffato alzandosi in piedi,
la schiena avviluppata in un nodo di dolori. Era irritato, non tanto con Minho,
chiaro, quanto con se stesso, per motivi che neanche lui conosceva e che,
sapeva, facevano meglio a rimanere occultati. Indossata una felpa col
cappuccio, aveva oltrepassato Minho decretando così chiusa la conversazione, il
pacchetto di sigarette già pronto in mano: doveva smorzare il malumore, non era
il caso di guastare gratuitamente quella che, sentiva, sarebbe stata una bella
giornata. No, meglio, lo sarebbe diventata incontrando Kibum.
Chiavi in tasca, sacco dell’immondizia pronto:
Jonghyun aveva pensato che sarebbe stato giusto buttarsi assieme alla
spazzatura dentro al bidone della raccolta differenziata. Categoria: vetro.
Tagliente.
5.
Kim Kibum sorseggiava il caffè ormai gelido
preso da Starbucks sui gradoni del parco, avvolto come di consueto nella sua
sciarpa preferita e col cappello poggiato sulle ginocchia magre. La vecchia
polaroid di nonno Kim, una SX-70 Land Camera Alpha, giaceva immobile al suo
fianco: era di un grigio scuro non dissimile dal colore del cemento delle
strade, guardandola avresti detto che veniva da un universo parallelo
sconosciuto all’uomo. Nonno Kim gli aveva raccontato che quella bellezza aveva
visto le gambe di Marylin Monroe in tempi migliori. Non aveva mai dubitato
della veridicità delle sue parole, neanche quando aveva scoperto che quel
modello era uscito in commercio dopo la morte dell’allora giovane attrice.
< Ancora non ci credo, è già passato un
mese. > aveva detto a un annoiato Jonghyun. < Un mese che stiamo insieme,
è tanto non credi? >
< Mh. >
Jonghyun aveva annuito senza sbilanciarsi, senza confessargli che quella era la
storia più lunga della sua vita. Aveva taciuto per difendere la corazza
d’impassibilità che, giorno dopo giorno, la gentilezza di Kibum modellava in un
morbido deterioramento, come le onde scavano gli scogli più irti e porosi.
< Ti ho preso una cosina. > gli aveva
detto porgendogli un pacchetto confezionato a regola d’arte. Un fiocco dorato un
po’ troppo pacchiano ghermiva la scatola conferendogli un sapore amaro, di
prigionia. Lo aveva guardato sorpreso, non sapendo cosa dire: quella era la
prima volta che si trovava a fronteggiare una situazione del genere, nessuno
dei suoi ex gli aveva mai comprato qualcosa. La cosa sconcertante, però, era
stato rendersi conto non solo di averlo gradito, ma di non aver pensato neanche
per un attimo di vendere il contenuto per racimolare un pugno di Won.
< Per… me? > aveva chiesto, malgrado il
pacchetto fosse già tra le sue mani, leggero come una piuma.
< E per chi se no? >
Si era sentito annegare, sprofondare nella
vergogna più rancida. Intrappolato dentro a un uragano di “se”, “perché?” e
“come”, aveva scartato il regalo e preso l’accendino Dupont a forma di disco
volante in argento incastrato nella fodera sul fondo. Una catenina pendeva
dalle due estremità, il gancio metallico accarezzava la superficie incisa
dell’oggetto. C’erano dei numeri, che aveva riconosciuto e arrangiato a colpo
d’occhio nella data del giorno in cui si erano fidanzati. 07/03/13.
< Io… non so bene cosa dire. > aveva
ammesso imbarazzato, senza distogliere l’attenzione dal presente perché
spaventato dalla prospettiva di un confronto con Kibum.
Kibum si era sciolto nell’ennesimo sorriso.
Lo faceva spesso, ma mai come quella volta ne aveva assaporato l’affetto prima.
< Un semplice grazie potrebbe andare,
credo. >
< Io… non ti ho preso niente. >
< Ah, lo sospettavo, per questo mi sono
organizzato. >
Kibum aveva raccattato la polaroid puntandola
in sua direzione e scattandogli una foto a tradimento. Si era lasciato
catturare così, senza capire cose stesse succedendo, senza avere il tempo per
assemblare una protesta di senso compiuto.
< Che stai facendo? >
< Non è evidente? Voglio delle tue foto, e
soprattutto nostre. > Gli si era avvicinato avvinghiandosi al suo braccio,
alzando la macchina al cielo e rivolgendo l’obiettivo in loro direzione. <
Fai cheese. >
Jonghyun non amava le fotografie, come non
amava tante cose che Kibum gli aveva proposto di fare insieme da quando si
erano fidanzati. È per cortesia che aveva acconsentito, permettendogli di
immortalare ogni carezza, smorfia e parola vissuta quel giorno. Ridendo,
giocando, protestando per scherzo alle sue richieste sdolcinate. Sapeva di
avere toccato il fondo, oltre che razziato il suo buon nome e i dogmi
inscalfibili che reggevano ogni concezione di decenza, quando lo aveva lasciato
salvare sullo schermo del cellulare una loro foto. Ma non era stato quello il
peggio, no: il peggio si era materializzato sul monitor del suo Motorola,
incarnato nello stesso scatto salvato da Kibum sul suo. Ancora zucchero sulla
loro storia, gli sarebbe venuto il diabete. Ciò non cancellava la foto che, in
seguito a numerose lamentele, aveva salvato sullo schermo accennando un sorriso
sincero.
6.
La commessa li guardava a braccia conserte da
occhio e croce due ore, enfatizzando l’insofferenza di cui era saturo ogni
gesto con smorfie di disappunto e frecciatine taglienti. Il tacco dodici rosso
scarlatto picchettava il pavimento lucido scandendo lo scorrere del tempo
imperioso: di tanto in tanto cambiava piede perché il primo indolenzito, quindi
ricominciava daccapo arrabbiata. Anche Jonghyun viveva quell’esasperazione,
fatta di pile d’abiti affastellati l’uno sopra l’altro e scarpe abbandonate sul
tappetino indiano sotto le panche, con lo stesso stato d’animo. Accasciato e privo
di forze su una sedia a caso, viaggiava con lo sguardo per vetrine cercando una
via di fuga.
< Che ne pensi di questo? >
Kibum era uscito dal camerino con addosso un
improbabile completo monocromatico rosa shocking. L’unica stonatura era
costituita da un paio mocassini di vernice bianca su cui erano state cucite (?)
due file di paillette nere (???).
< Orrendo, come gli ultimi trentasette.
> aveva risposto cadendo sul bracciolo, il gomito puntellato sul legno di
faggio. < Bum non ce la faccio più, ti prego possiamo uscire? > “prima
che la commessa faccia delle borse in pelle usandoci come materia prima?”
L’ultima parte l’aveva tenuta per sé, conscio che pronunciarsi non avrebbe
portato a nulla di buono: conosceva abbastanza bene Kibum per poter dire a cuor
sereno che se c’era una cosa sulla quale non transigeva, beh, quella era
proprio lo shopping. Mai mettergli fretta tra un cambio e l’altro. Pena, la
prolunga della tortura.
< Non mi sei di nessuno aiuto. > aveva
decretato scorrendo dei nuovi completi issati su una barra di metallo: giacche
variopinte di gusto discutibile fluivano come le acque di un fiume davanti ai
suoi occhi vivi di gioia. < Se non altro, bisogna ammettere che sei sincero
e che non fai come gli altri uomini. >
< Ovvero? >
< Oh, ti dicono che stai bene con
qualsiasi cosa addosso pur di uscire. E no, non pensare di usare lo stesso escamotage
ora che te l’ho svelato perché non ci casco. >
Jonghyun si era dato dello stupido: perché
non ci aveva pensato prima? Che colpe aveva, però, se era un ingenuo? Avrebbe
dovuto lavorarci su, quell’imperfezione lo stava distruggendo. E Kibum era bravo
a marciarci sopra, a portarlo sull’orlo di una crisi di nervi.
< E questo? >
< Questa… cosa non può essere definita un capo d’abbigliamento. > aveva
ribattuto innanzi alla maglia caleidoscopica con un pagliaccio manga
multicolore sul petto. Mostruosa.
Tirato un sospiro prettamente svilito si era
alzato: aveva consumato ogni residuo di pazienza, urgeva trovare una soluzione
al più presto.
< Tieni, prova questi per l’amor di dio.
>
Kibum aveva preso al volo i vestiti che gli
stava porgendo, che poi sarebbero stati quelli che avrebbe comprato. I primi
che gli erano capitati sotto il naso, ma che tutto sommato gli stavano davvero
bene. Se non altro potevano essere scambiati per qualcosa di sobrio e non per
un attentato terroristico.
< E comunque... > Aveva aggiunto una
volta arrivati alla cassa, con somma soddisfazione della commessa sopracitata.
< Non importa cosa tu indossi, saresti bello anche con un sacco
dell’immondizia legato alla vita a mo’ di gonna. >
Gli era uscita così, semplicemente spontanea.
Kibum lo aveva abbracciato euforico
saltellando sul posto, con quella nota d’infantilità che di tanto in tanto
mischiava alle parole.
< Questa è la cosa più bella che mi
abbiano mai detto. Io l’ho sempre saputo che sotto sotto, ma davvero sotto, hai
un cuore tenero Hyung. >
Forse, si era ritrovato a pensare, non tanto
sotto quanto lui credeva.
7.
Minho era tornato a casa annunciando a gran
voce il suo ultimo cento su cento preso all’esame sugli acetati. Jonghyun lo
aveva trovato irritante, più irritante dell’ultimo tour de force impostogli da
Kibum per negozi, il che era tutto dire. Se aveva deciso di non pronunciarsi
era stato per ribrezzo, non certo per gentilezza: ultimamente si stava
comportando da vero e proprio nevrotico, colpa del malessere che gli cingeva le
interiora ogni qualvolta si soffermava a pensare alle ore trascorse con Kibum.
Neanche scopare con lui aveva portato alcun giovamento.
< Allora? Come procede col ragazzo MS?
> gli aveva chiesto Minho buttando un occhio alla televisione. < Oh,
Secret Garden. Vedo dei miglioramenti. >
< Fai poco lo spiritoso. >
< Scusa ma io non ti capisco. Se ti
disturba così tanto la vostra relazione, perché non ti sbrighi a finire quel
pacchetto e a dirgli che è finita? >
Jonghyun era rimasto in silenzio, le mani
intrecciate sotto il mento: in genere faceva così, se una storia lo turbava più
del necessario cominciava a fumare una sigaretta dietro l’altra fino ad
arrivare all’ultima. Era in quel modo che misurava i suoi flirt, scandiva i
giorni nell’arco di tempo che gli occorreva, o si imponeva, per bruciare tutte
e venti le sigarette. Un lasso di tempo più che generoso se si considerava che
a lui non piaceva fumare (anche se comprava così tanti pacchetti che credere a
una simile bislaccheria suonava troppo antiscientifico). Era una specie di rito
prendere le Malboro a ogni nuovo inizio: una liberazione finirlo. Perché ora le
cose gli sembravano diverse?
< Perché non mi dispiace, non
completamente almeno. > aveva ammesso.
Minho aveva riso divertito accomodandosi
sulla poltrona di fianco a lui: reggeva una bottiglietta d’acqua mezza vuota
tra le mani, l’etichetta quasi completamente staccata. Chissà se Kibum
l’avrebbe vista mezza piena…
< Ma dai, questa sì che è bella. Non è che
ti stai innamorando? >
< … >
Nessuna risposta. Minho si era fatto serio.
< No… ma davvero? Cioè, tu vuoi farmi credere che questo sarà il tuo ultimo
pacchetto? Quale divinità devo ringraziare per questo miracolo? >
< Tu corri troppo. > aveva smentito
prontamente, le mani sudate per la menzogna. < Ok, stavolta è diverso, ma la
colpa è della marca. Ho dovuto prendere le MS, non immagini neanche che schifo
siano. >
< Ceeerto.
> Minho aveva tirato fuori dalla tracolla di pelle finta una rivista di
medicina, l’aveva aperta a caso e cominciato a leggiucchiare un articolo sul
DNA e RNA.
< Dico davvero. >
< Cosa vuoi sentirti dire precisamente,
Jonghyun? Che hai ragione? Va bene, hai ragione, tanto che te la riconosca o
meno non cambia la sostanza. La prossima volta cerca perlomeno di trovare una
scusa che stia in piedi. >
Jonghyun aveva estratto le sigarette dalla
tasca dei pantaloni guardandole intensamente, quasi aspettandosi di trovare una
risposta incisa sulla superfice cartacea.
Era colpa della marca, aveva detto. O almeno,
ci aveva provato.
8.
La carrozzeria della moto brillava dei colori
del mare sfumati a quelli del cielo. Stucchi vaporosi e riccioli d’onde
disegnavano i contorni degli specchietti, le ruote, due soli neri coi raggi
circoscritti d’argento, bruciavano l’asfalto. La Yamaha fendeva l’aria come la
pinna di un delfino traccia l’acqua, percorreva le strade accalcate di Seoul
evitando ogni ostacolo frapposto tra lei e la sua meta, qualunque essa fosse.
A occhi chiusi e con la fronte incastrata tra
le scapole di Jonghyun, Kibum respirava il tram tram della città, le risate
della folla intrappolate sui marciapiedi, i profumi sfuggire ai forni dei
ristornati e delle pasticcerie. Le mani, intrecciate all’addome del fidanzato,
tremavano di freddo ed eccitazione, esploravano i solchi tra i suoi muscoli
appagate.
< Dove stiamo andando? > aveva urlato infrangendo
le pareti del casco.
< Non lo so. > gli aveva risposto
Jonghyun. < Dove vorresti andare? >
< Non saprei, in nessun posto credo. >
< E allora perché mi hai chiesto di fare
un giro in moto? >
< Perché non lo avevo mai fatto. > Il
semaforo rosso all’incrocio li aveva costretti a una pausa. < Cioè, non mi
era mai capitato di andare su un motorino dietro. >
< Lo
sai, vero, che non ti capiterà più di darmi le spalle? >
Kibum aveva riso, o meglio ammiccato,
cogliendo l’allusione sessuale tra le righe.
< Nah, tranquillo, non voglio rubarti il
ruolo di Seme Alpha. >
< Buono a sapersi. Tu ce l’hai una moto?
>
Verde. Partenza.
< Uno scooter, me l’ha regalato mio zio.
> La visiera di plastica trasparente si stava appannando davanti ai suoi
occhi. Da un secondo all’altro il mondo si era fatto dapprima inconsistente,
etereo, sfocando in una coltre nebulosa dal sapore mistico, quello dopo si era
sbrinato incorniciando l’orizzonte di pennellate decise. < Ci facevo il figo
con le ragazze, e funzionava. >
< Non stento a crederlo… >
< Devo ammettere però che così è cento
volte meglio. >
Jonghyun gli aveva lanciato un’occhiata
interrogativa dallo specchietto retrovisore, distrattamente ignorata dal
destinatario.
< Perché? > aveva chiesto spazientito.
< Hai capito di essere nato per farti scorrazzare in giro? >
Kibum gli aveva pizzicato il fianco
strappandogli un gemito di dolore.
< Un giorno mi spiegherai cos’ho fatto di
male per meritarmi queste frecciatine. >
< Ma ho detto la verità! Sei una mocciosa
viziata che si atteggia a gran diva hollywoodiana Bum! >
< Anche fosse, che c’è di male? >
< C’è di male che sto buttando via lo
stipendio di questo mese per girare senza meta per Seoul! Dimmi almeno un posto
dove ti piacerebbe andare! >
< Andrebbe bene ovunque. > gli aveva
baciato la schiena chiudendo nuovamente gli occhi. < Non mi interessa,
l’importante è che ci sia tu a viaggiare con me. >
Quel giorno, la Yamaha di Kim Jonghyun aveva
viaggiato senza sosta per ore ed ore senza mai fermarsi. A bordo, due ragazzi
avevano toccato capolinea incorporei sulle cartine della città, fatte di
complicità e tenerezza, scherzi e risate.
9.
< Io non capisco… >
Kim Kibum guardava i disegni di china sfilare
davanti agli occhi stampati su carta ruvida e giallognola. Le pagine del manga
profumavano di plastica, impregnavano l’aria di novità ed avventure shonen-ai,
shuriken e ninja. Di tanto in tanto inarcava le sopracciglia tentando di cogliere
la logica inesistente della storia. Spesi cinque minuti si stufava, tornava a
crogiolarsi nell’abbraccio di Jonghyun senza volersi sottrarre a quel tiepido
calore.
Avevano appena fatto l’amore. Sì, ok,
Jonghyun lo avrebbe chiamato sesso: fortuna che non era così pignolo da
impuntarsi su questioni di nomenclatura. In tutti quei mesi aveva imparato a
conoscere ogni lato del suo carattere, cosa lo irritasse, cosa gli facesse
piacere, ed affini. Se ne stavano lì, avvolti nelle coperte di lino, completamente
nudi e abbracciati: qualche volta il naso di Jonghyun gli solleticava le
orecchie, il respiro di entrambi si mischiava in un’unica brezza che animava i
loro capelli.
< Cosa c’è da capire? Spiegati. >
< No, voglio dire, sarò scemo io, ma non
ce la vedo proprio la logica dietro a questa carneficina. Dulcius in fundo,
decide di salvare suo fratello, Sasuke. >
Jonghyun aveva annuito voltando pagina;
poggiato sul suo avambraccio, Kibum inveiva animatamente contro Itachi. <
Quindi, correggimi se sbaglio, un giorno questo
pirla si sveglia col desiderio di
ammazzare tutti e di risparmiare suo fratello solo per mettersi alla prova? Per
capire quanto è forte? >
< Pressappoco. Quindi? >
< Ecco, è proprio questo il punto. Se
voleva uccidere tutti, perché ha risparmiato un moccioso? >
Jonghyun aveva sospirato afflitto, per nulla
entusiasta all’idea di dover ripetere tutto daccapo: certe volte Kibum sapeva
essere davvero logorroico, specie quando non voleva in alcun modo tornare sulle
sue convinzioni.
< Bum, non c’è niente da capire al di là
di quello che hai letto: Itachi ha permesso a Sasuke di vivere solo per potersi
confrontare con lui un giorno, avere un degno avversario e rubargli così i
poteri. >
< Ma che bisogno c’era? Era già il più
forte! È ovvio che non lo ha ucciso perché gli voleva bene. >
< Sei troppo romantico Bum, pretendi di
vedere il tenero ovunque, persino nei cattivi dei manga. >
< No, sei tu che sei asettico. > Si era
sistemato meglio tra le sue gambe, accaparrandosi di diritto il giornale ed
esibendo l’aria del gran intenditore. < Vogliamo scommettere? >
< Cosa? >
< Che ho ragione, che altrimenti? >
Jonghyun aveva soffocato una risata esausta
in un sospiro e stretto a sé il corpo esile dell’altro: non importava quanti
mesi fossero trascorsi, Kibum continuava a esercitare sulla sua mente un potere
devastante. E peggiorava di volta in volta: con immenso stupore aveva dovuto
ammettere che sì, il sesso era grandioso come sempre, ma che quello che voleva,
quello che si aspettava al finire di ogni amplesso, erano le risate che
caratterizzavano quei momenti di vuoto. Gli scherzi, le confessioni, i segreti
sussurrati tra le lenzuola all’orecchio dell’altro… molte volte non facevano
niente, si stendevano sul divano, ignoravano le occhiate bieche di Minho e
guardavano Strong Heart alla TV commentando i balletti hot di Yunho. Non sapeva dare un nome a quello che facevano, certo
era che non aveva niente a che spartire coi trascorsi delle sue vecchie storie.
Aveva provato a porsi davanti a uno specchio per cercare una risposta: inutile
dire che era stato un buco nell’acqua. Le domande, però, persistevano, come il
gocciare di un rubinetto impertinente: cosa rappresentava per lui Kim Kibum? E
poi: perché quando non ce l’aveva intorno desiderava vederlo a tutti i costi?
Infine: era sicuro di volere delle
risposte?
< Allora? >
Jonghyun era ricaduto bruscamente nel vortice
di considerazioni viziate del fidanzato.
< Allora che? >
< Come che? Ma mi ascolti quando parlo? La
scommessa! > Kibum lo aveva colpito col manga sulla testa, lottando senza
troppa convinzione per districarsi dal nodo delle sue braccia. < Facciamo
così: se ho ragione io, quando ti sarai stufato di me potrai cacciarmi a calci
in culo dalla tua vita, io non obietterò. >
< E cosa ci guadagneresti di preciso? >
Lo aveva guardato a lungo senza capire, scompigliandogli i capelli con un gesto
scaramantico della mano. < Non ti conviene, che so, scommettere una giornata
di shopping? >
< Non ti offendere Hyung, ma non
rischierei MAI una giornata per negozi, neanche quando sono sicuro al cento per
cento di avere ragione. >
< E preferisci mettere in gioco la nostra
storia? Lasciarmi carta bianca? >
Il giovane aveva riso serafico poggiando la
fronte sulla sua e baciandogli teneramente le labbra.
< Sicuro. > Lo aveva baciato ancora, e
ancora. < Perché so che mi amerai a tal punto da non volermi perdere di
vista neanche quando devo andare al bagno, figuriamoci rompere. Sono in una
botte di ferro. >
Jonghyun aveva perso uno o due battiti quel
giorno, lo stomaco gli si era attorcigliato in un nodo di spine e rovi fino a
fargli male. Oggi si chiede cos’abbia spinto Kibum a giocare alla roulette col
destino quel caldissimo 8 giugno. Non passa minuto della sua vita senza
desiderare un checkup temporale. Per poter correggere l’errore di aver
accettato. Per impedirsi di perdere completamente la testa com’è successo. Più
semplicemente per dargli ragione senza scommettere su Itachi. D’altro canto,
che garanzie poteva offrire un fumetto per ragazzini come Naruto?
10.
< Credo di amarti, Hyung. >
Jonghyun si era più e più volte immaginato
quel momento, quello in cui qualcuno gli si sarebbe dichiarato a cuor sereno
aspettandosi un responso positivo. Gli era sempre piaciuto credere che, da
bravo bad-petty boy quale era e
sapeva di essere, avrebbe risolto la faccenda con una risata seguita dalla
celeberrima frase “I’m sorry
you’ve got the wrong number”, che parafrasando
stava a significare “scusami tesoro, ma hai scelto la persona sbagliata”. Non
aveva mai neanche preso in considerazione l’ipotesi che suddetta confessione
potesse svolgersi dentro a un ristorante di ramen, più nello specifico mentre
stava mangiando una ciotola di noodles a suo parere scotti. Cose da rimanerci
secchi, per intenderci. Se non era morto soffocato lo doveva alla misericordia di
un dio nel quale non aveva mai creduto, o più semplicemente al pronto soccorso
di Kibum, che gli aveva fatto sputare tutto il sputabile in un fazzoletto.
Con fatica disumana si era posto un contegno,
drizzando la schiena in una postura, sperava, autoritaria.
< Hai detto “credo”? Ma che razza di
confessione è? Se non ne sei convinto tu per primo, perché venire a parlarne a
me? > Di tutte le stronzate che si sarebbe aspettato di sentirsi dire,
quella era la più stupida universalmente nota. No, pensandoci bene, di peggio
c’era solo… < …perché di grazia? >
Ecco, per l’appunto.
Kibum aveva chinato lo sguardo imbarazzato,
le guance gli si erano tinte di un rosso violento. A vederlo era impossibile
non paragonarlo al Kibum degli inizi, quel cucciolo spaurito che, incapace di
fronteggiarlo, aveva preferito scappare a gambe levate.
< È perché non riesco a capirci niente da
solo che ho deciso di chiedere aiuto a te, stupido! > aveva strillato
impugnando le bacchette e ficcandole in malo modo dentro la sua ciotola.
< A me? E come pensi ti possa aiutare?
Mica ti leggo nel pensiero, stai certo che se lo facessi eviterei molte delle
rotture che mi propini. Vedi lo shopping, le scampagnate nei parchi, i rodeo
per la cit- >
< Va bene, ho capito. Lasciamo perdere, ok?
Ho sbagliato. >
< Col cavolo. > Jonghyun gli aveva
afferrato immediatamente i polsi. Non avrebbe saputo spiegare perché: d’altro
canto, erano così tante le cose a cui non sapeva dare una risposta che una in
più non avrebbe turbato quel che rimaneva del suo equilibrio psichico. <
Piantala di fare scenate e tira fuori gli attributi. Cosa intendevi dire poco
fa? >
Lui si era stretto le spalle,
rimpicciolendosi contro lo schienale della sedia dove stava accucciato.
< Quanti significati pensi abbia la frase
“credo di amarti”? Vuoi che ti faccia uno spelling? Magari un’analisi logica?
>
< Ti
pare il momento di scherzare? Forse non ti rendi conto di quello che hai detto:
hai appena confessato che credi di
amarmi. >
< E allora? >
< Come sarebbe a dire “e allora?” >
< Basta, sei logorroico. > Kibum si era
alzato abbandonando il pasto a metà, il sapore dei noodles ancora incrostato
fra i denti. < Volevo essere sincero, al contrario di te. Che poi parli
tanto di tirare fuori gli attributi quando tu per primo non riesci ad ammettere
che nutri qualcosa nei miei confronti. >
Jonghyun si stava arrabbiando, o meglio,
irritando. La conversazione stava prendendo una piega che, sapeva, li avrebbe
condotti al loro primo litigio. Non era tanto quella prospettiva a metterlo a
disagio, quanto la consapevolezza che quegli scambi di battute testimoniavano
un attaccamento più serio del dovuto nei suoi confronti.
Quand’era successo? Quando Kim Kibum si era
trasformato in qualcuno di così importante da spingerlo ad alzare le difese
anziché lasciar perdere come aveva sempre fatto?
< Non ho finito con te! > aveva
esclamato in preda all’ansia. < Non ti azzardare a scappare senza prima
avermi detto chiaramente se mi ami o meno. Capito? >
< Va bene, ti amo, contento? > aveva
sospirato lui costringendo le labbra in una smorfia addolorata. < Ti cambia davvero
qualcosa saperlo? >
Non aveva avuto le forze né il coraggio per
trattenerlo: lo aveva semplicemente lasciato andare, seguendone i passi
ovattati fino a sentirli svanire avvolti dalla coltre di smog cittadino. Al
momento, un’unica certezza infastidiva il suo subconscio, no, anzi, il suo
portafoglio: Kibum aveva lasciato di nuovo a lui il conto da pagare.
11.
Erano entrati in quel periodo in cui le
foglie, ormai prossime a tingersi di rosso, assumevano la consistenza delicata
della carta velina o di quella stagnola.
L’autunno era alle porte. Quell’anno era
arrivato prima cogliendo i turisti di sorpresa con le prime piogge di cambio
stagione e i cieli più scuri durante la notte. Jonghyun ammirava i ciliegi
mutare in un coagulo di sangue rappreso fra i rami da un po’ di tempo ormai,
poggiato al corrimano che dava sul promontorio est della città. Tra le labbra,
l’ennesima sigaretta accesa per placare l’angoscia, l’accozzaglia di pensieri
negativi che nelle due ultime settimane l’aveva seguito come un’ombra, dal
giorno in cui aveva litigato con Kibum al ristorante di ramen. Veniva spesso a
riflettere in quel posto, collezionando di volta in volta buchi nell’acqua:
avrebbe detto che persisteva perché certo che prima o poi i ciliegi gli
avrebbero indicato la via, quando invece non faceva altro che scappare da un
confronto peraltro necessario. Non era così diverso da Kibum come cercava di
illudersi, dopotutto.
Era da due settimane che non lo vedeva o
sentiva. E gli mancava, inutile negarlo. La questione, però, era complicata:
entrambi erano troppo testardi ed orgogliosi per tornare sui loro passi senza
puntare il dito e rinfacciare gli sbagli altrui. A dividerli c’era la mancanza
totale di iniziativa, quel desiderio che comunemente muove le persone
innamorate a chiedere scusa al loro partner anche quando non hanno niente di
cui doversi scusare. Forse la verità era che non si amavano affatto, che quello
era solo l’ennesimo flirt in cui era incappato. Allora perché non poteva fare a
meno di seguirlo di nascosto? Dio, a dirla così sembrava roba da stalker o
gente poco affidabile, ma tra loro c’era pur sempre una sorta di legame, no?
Che motivi aveva per sentirsi in colpa? In ogni caso, ammesso e non concesso,
Jonghyun era stufo dell’evolversi dei giorni, terribilmente vuoti e deprimenti
senza la risata della sua controparte a dare loro un senso. Perché qualunque
cosa avesse detto, fatto o pensato Kibum, aveva trasformato la monotonia di
quei mesi in un viaggio dentro il Paese delle Meraviglie.
Jonghyun aveva espirato l’ultimo rantolo di
fumo prima di spegnere il mozzicone di sigaretta dentro al suo posacenere,
richiuderlo e ficcarselo in tasca. Si stava addirittura abituando al sapore di
quella robaccia, delle MS. Lo consolava un pochino sapere che se qualcuno gli
avesse offerto una Malboro avrebbe accettato a cuor sereno pensando “ah,
finalmente una sigaretta come dio comanda!”. Poi, all’improvviso, il rintocco
delle cinque. Si era accorto così di aver
buttato via un altro giorno, e per cosa? Niente, non aveva ancora
trovato nessuna soluzione. Continuava a buttare l’occhio sul cellulare sperando
di scorgere un’icona a forma di busta, un messaggio, invano.
Un fallito, ecco cos’era.
A trenta metri da terra, le stelle sembrano
più vicine di quanto avvertisse Kibum in quei giorni. Tendendo le mani avrebbe
potuto catturarne una ventina: riprendersi Kibum non sarebbe stato altrettanto
semplice.
12.
< Che ci fai qui? >
Jonghyun non ricorda esattamente come e
perché i suoi piedi lo abbiano condotto quel lontano 23 ottobre da Kibum. Sa
che pioveva, e che faceva un gran freddo. Sa che aveva corso quanto più
velocemente le gambe gli avevano permesso. Sa anche che tutto il coraggio
racimolato durante il tragitto era scemato quando i loro occhi si erano
incontrati dopo tanto tempo per la prima volta. Quello che non sa, invece, era
cosa lo avesse spinto a uscire di casa senza prendere la moto, o perché avesse
corso chilometri e chilometri per incontrarlo. Di contro era certo che lo
avrebbe scoperto una volta lì con lui.
< Hyung fa un freddo cane, possiamo almeno
entrare e parlarne davanti a una cioccolata calda? > gli aveva chiesto Kibum
stringendosi in un abbraccio.
Quel briciolo di razionalità rimastagli in
seguito all’Odissea seulese era andata a farsi benedire. Il corpo si era mosso
da solo, si era gettato su quello caldo ed invitante dell’altro facendoli
capitolare a terra tra le pozzanghere.
Splat. Continuava a piovere. Splat. Il cuore
gli batteva come un martello pneumatico strappandogli gemiti di dolore. Splat.
Non avvertiva più né il freddo né il fango imprigionato dentro agli anfibi
borchiati. Splat. I jeans gli si erano strappati sulle ginocchia. Splat. Era
sangue quel filo rosso che si diramava sull’asfalto?
Splat.
< No. > aveva risposto in un sussurro.
< Devo parlarti ora. Ho paura che… che se rimando di anche solo un secondo
non riuscirò più a dirti quello che ti dovevo dire. >
< Ma tu scotti, hai la febbre alta! >
Kibum aveva cercato di sorreggerlo come meglio poteva: non era particolarmente
muscoloso, motivo per cui i suoi genitori non facevano che ripetergli che
avrebbe dovuto andare in palestra o a nuotare per rafforzare almeno i pettorali.
< Non ti fa bene bagnarti, ti prego entriam- >
< Ho detto di no! >
< Smettila di fare il bambino! > era
disperato, inginocchiato in quella posizione, col corpo inerme del suo ragazzo
schiacciato contro il proprio. < Dio santissimo, ma si può sapere cosa ti
passa per la testa? Che cavolo hai combinato stavolta? >
< Perché devo aver per forza combinato
qualcosa? Pensi sia venuto fin qui per elemosinare il tuo aiuto? >
< Se ti rispondo di sì possiamo entrare?
>
Jonghyun era scoppiato a ridere, un latrato
sofferente che tutto si poteva dire tranne che sincero.
< Sei davvero incredibile… dici di amarmi,
poi scompari per più di un mese e quando ci rivediamo cosa fai? Cerchi di
litigare? > Non lo stava dicendo a Kibum, non lo stava dicendo a nessuno in
particolare. Neanche a se stesso. < Perché… dimmi perché? >
Lui lo aveva guardato a lungo senza sapere
cosa ribattere, mordendosi avidamente il labbro inferiore fino a farlo
sanguinare.
< Perché cosa? >
< Perché non riesco a toglierti dalla
testa? >
< Eh? >
< E perché sono venuto qui? >
< Dovrei saperlo io scusa? >
< Sei così dannatamente fastidioso, sembri
una gallina per la miseria! >
< Un’altra parola, Hyung, e giuro che ti
faccio sputare il fegat- >
< Cosa ci ho visto di tanto bello per
innamorarmi di te? >
Kibum aveva sgranato gli occhi incredulo, le
gocce intrappolate tra i radi ciuffi scompigliati della frangia pizzicavano le
sue labbra. Aveva preso il volto sofferente del ragazzo portandolo all’altezza
del proprio.
< C-cos’hai detto? > Difficile crederci,
difficile trattenere le lacrime commosse. < Ripetilo. >
Jonghyun aveva tossito sputandogli in faccia.
< Ho detto di amarti, cazzo! Cazzo, cazzo
e ancora cazzo! Non doveva andare a finire così, non avrei dovuto… > aveva
cominciato a piangere accasciandosi sulla sua spalla, soffocando i singulti
dietro a una maschera screpolata fatta d’orgoglio e disperazione. <
…innamorarmi di te. >
< Hyung… > Non c’erano parole per
quantificare la sua gioia, neanche gesti. < Ti… ti amo tanto anch’io. Non
avere paura, d’accordo? Ci sono io. Ci sarò sempre.
>
Ne era davvero convinto quando l’aveva detto
per la prima volta.
Se potesse tornare indietro, Jonghyun
fermerebbe il tempo su quel “sempre”: perché quel giorno, il sempre di cui gli aveva parlato Kibum
era sinceramente eterno.
13.
< È permesso? >
Jonghyun combatteva stoicamente contro la
macchinetta del caffè da una ventina di minuti quando la porta del locale,
pressoché deserto, si era aperta e Kibum era apparso sulla soglia. La chiave
inglese che teneva tra le mani gli era scivolata planando dritta sul suo piede:
che ci faceva lì? Eppure glielo aveva detto che non gli piaceva ritrovarselo
davanti sul lavoro. Tra l’altro, era passato troppo poco tempo dal loro ultimo
faccia a faccia: vuoi la febbre, vuoi il rifiuto categorico del suo subconscio,
ma stava di fatto che la tragedia di quella notte l’aveva rimossa o chiusa a
lucchetto dentro a un angolo remoto della sua testa. La pellicola del film era
stata recisa da un taglio netto di forbici rendendogli impossibile revisionare
le espressioni di Kibum, cos’avessero fatto o più semplicemente si fossero
detti. Riusciva a ricordare un solo istante, quello che con tutta probabilità
era stato il più imbarazzante della serata: la sua dichiarazione d’amore,
seguita, stando al risveglio traumatico e all’emicrania post-sbornia del
mattino seguente, da ore ed ore di sesso sfrenato.
Era stata la prima volta in cui lo avevano
fatto a casa sua. Di solito utilizzavano il suo appartamento, con o senza Minho
a ricordargli quanto fosse fastidioso sentirli urlare mentre stava studiando.
< Ciao. > lo aveva salutato Kibum
accomodandosi su uno sgabello a caso davanti al bancone.
< …ciao. > aveva risposto chinando lo
sguardo.
Poi, il silenzio. Un cliché. Tipico, sapeva
sarebbe successo. Fortuna che tra i due, malgrado le posizioni e i ruoli a
letto, fosse Kibum quello con le palle.
< Ti dà tanto fastidio vedermi? Guarda che
posso sempre tornare da dove sono venuto, eh. >
< Non… è quello. > aveva risposto
legandosi alla cinta uno straccio e cominciando a lavare i bicchieri sporchi.
Tutto pur di non doverlo fronteggiare. < Sono solo… diciamo sorpreso di
vederti qui. >
< Se non mi facevo avanti io dubito lo
avresti fatto tu. Non ti credevo così codardo. >
< Modera i termini. > L’acqua scorreva tra
le sue dita sanando il formicolio nervoso di cui erano vittime. < Avevo
bisogno di qualche giorno per metabolizzare la cosa. Tutto qui. >
< Tutto qui? Due settimane e nessun
messaggio tu li semplifichi con un “tutto qui”? >
< Questa è bella, parli proprio tu che per
un mese sei scomparso. >
< Avevamo litigato. >
< No, TU hai voluto litigare, è diverso.
>
< Te l’ha mai detto nessuno che sei un
oratore nato? Cavoli, saresti capace di convincere il primo disgraziato che gli
asini volano o che Lee Joon fa i fanservice con Mir! >
< Ma Lee Joon FA i fanservice con Mir! >
< Dettagli. >
Si erano guardati negli occhi per un po’, in
silenzio. Poi qualcosa si era sciolto, un peso opprimente era diventato
inspiegabilmente leggero portandoli a ridere senza motivo. E avevano riso così
a lungo, così forte che il proprietario del locale si era avvicinato per
sincerarsi che tutto fosse al suo posto. Jonghyun si era dovuto sorbire una
lavata di capo come poche, ma n’era valsa la pena.
< Va meglio? > gli aveva chiesto Kibum
dondolandosi sulla seggiola.
Aveva annuito passandosi una mano sulla
fronte per alleviare la tensione.
< Sì, penso proprio di sì. >
< Deduco che sei di buon umore quindi.
>
< Ma che stai- un attimo. > A un tratto si era bloccato. Un monito tetro bisbigliava
diffidente al suo orecchio mettendolo all’erta. < Tu… cosa devi dirmi? >
< Assolutamente niente. Semmai darti. >
Un gigantesco punto interrogativo tempestato
di luci al neon si era materializzato come per magia sopra la sua testa.
< Darmi?
> aveva ripetuto.
È stato allora che si era reso conto della
sporta poggiata sulle piastrelle accanto alla tracolla di Kibum. Per quel che
ne sapeva, ci teneva dentro i libri di scuola e il Mac: l’altro pacchetto non
sapeva di averlo mai visto e, presagio o meno, gli suggeriva solo il peggio.
< Beh… sai, sapendo che avremmo fatto pace
– le doti divinatorie di quel ragazzo lo angustiavano a volte – e, più
importante, saremmo diventati una coppietta a tutti gli effetti, ho pensato…
> Si era chinato a prendere il suggello dei suoi tormenti psicologici. <
…che sarebbe stato carino comprarti qualcosa che ci decretasse come tali. >
Quindi aveva estratto il contenuto riversandolo sul bancone.
Jonghyun avrebbe potuto giurare di aver perso
sette anni di vita.
< Te lo puoi scordare. > aveva
decretato con voce lapidaria.
< Ma Hyung… >
< Quale parte del “te lo puoi scordare”
non ti è chiara? Dio, è semplicemente… ridicolo! >
< Osi definire ridicolo il mio pegno
d’amore nei tuoi confronti? >
Non ci aveva visto più. Prese tra le mani le
due felpe, perfettamente uguali come si confaceva alla tradizionale usanza del
“indossa gli stessi abiti del tuo/a ragazzo/a” - cosa che faceva tanto studenti
delle medie -, le aveva restituite a uno stizzito Kibum, che tutto sembrava
tranne disposto a sobbarcarsi un rifiuto.
< Ti ho accompagnato a scuola, per negozi,
mi sono lasciato fotografare, ho consumato tutto il serbatoio di benzina della
mia moto, ho ammesso di amarti… non ti pare che abbia già fatto abbastanza?
Vuoi proprio buttare la mia reputazione in pasto ai cani? >
Kibum aveva arricciato le labbra senza
degnarlo di risposta.
Jonghyun aveva capito che le sue proteste non
sarebbero servite a nulla. Poco dopo, aveva realizzato che avrebbe accettato
ben di peggio se a chiederglielo fosse stato lui. Si sarebbe lamentato, chiaro,
ma alla fine avrebbe sempre e comunque accettato.
Qualcosa non quadrava.
14.
Kim Kibum palesava il suo dissenso per lo più
con smorfie o gesti seccati delle mani che Jonghyun conosceva come si conosce e
tasta il contenuto delle proprie tasche. Per quieto vivere non gli aveva mai
proposto di fare qualcosa che lo irritasse: quando però lo stesso Kibum gli
aveva chiesto di provare insieme qualcosa che gli piacesse, aveva accettato
nell’immediato.
< Non ci capisco una mazza. > Kibum
aveva preso il libretto delle istruzioni con fare impetuoso, rileggendo i
comandi e le spiegazioni su questo riportate per la decima volta. < Se
schiaccio X e il cerchio assieme… o era il triangolo? > si era affrettato a
controllare nuovamente lo scritto, salvo poi sbottare un seccato: < Basta,
così non vado da nessuna parte. Insegnami tu. >
Jonghyun aveva riso appollaiandosi sulla sua
spalla e mordicchiandogli l’orecchio. Poco dopo, aveva poggiato le mani sulle
sue strette in una morsa ferrea attorno al joystick della PlayStation 3.
< Il segreto sta nella coordinazione. Devi
premerli contemporaneamente per effettuare una presa. >
Kibum aveva annuito cacciandosi la lingua tra
i denti e ammiccando con lo sguardo. Lo aveva trovato ridicolo, così
concentrato su Tekken da tremare sotto le sue dita. Allo stesso tempo lo aveva
guardato come si guarda alla cosa più adorabile che ti si mai capitata davanti
agli occhi.
< Mi spieghi perché ti piacciono questi affari?
Non è meglio lo shopping? >
< Fingerò di non aver sentito. >
< Ma sono noiosi! >
< Guarda che non ti avrei mai chiesto di
giocarci se non fossi stato tu a chiedermelo. > Si era seduto al suo fianco
sul tappeto prendendolo tra le braccia ed inglobandolo a sé. < E comunque
credo tu sia l’unico uomo sulla faccia della terra a preferire lo shopping ai
videogames, lascia fare. >
< Ma che ne sai tu! Scommetto che Taemin
sarebbe felicissimo di accompagnarmi al centro commerciale. >
Quella era stata la prima e ultima volta in
cui Kibum gli aveva parlato di Taemin. Non avrebbero più rivangato il suo nome
in futuro, anche se da parte sua non c’era stato il benché minimo accenno di
gelosia. A pensarci bene, non c’era mai stato un perché quel ragazzo fosse
diventato un tabù: l’aveva stabilito Kibum, come aveva stabilito un sacco di
regole nella loro storia che marcavano i confini di cosa fosse lecito o non
dire-fare-baciare-lettera-testamento. E lui glielo aveva permesso, come sempre.
Chissà quante volte aveva già sbagliato lasciandogli carta bianca.
< Taemin? E chi sarebbe? >
< Mh, una
matricola. L’ho conosciuto qualche giorno fa durante la cerimonia d’apertura
del nuovo anno accademico. È un tipo ok, un po’ scialbo forse. Non mi dice
molto. >
< E tu vuoi darmi a intendere che questo
Taemin preferirebbe una giornata di shopping piuttosto che dieci minuti davanti
alla play? È gay? >
< Da che pulpito! >
< Tutte le ragazze con cui sono stato
prima di te avrebbero di che ridire al riguardo. >
< Sempre a puntualizzare. Gay, bisex… non
cambia il fatto che ora stai col sottoscritto. >
< Appunto. Tu sei l’incarnazione
dell’accidia mestruale delle donne. >
Kibum aveva inarcato il sopracciglio sottilissimo
in un tacito rimprovero.
< Voglio sperare fosse un complimento.
>
Jonghyun aveva riso strappandogli un bacio
lampo.
< Più o meno Bummie, più o meno… >
< Torniamo a giocare? > Così dicendo
aveva ripreso in mano il joystick e il libretto delle istruzioni più che mai
determinato ad accaparrarsi la sua prima, agonizzata vittoria. < Vedrai,
stavolta ti faccio nero. >
< L’importante è crederci, Bum… >
15.
Ricordava.
Ricordava come fosse ieri il vento freddo e
la neve sporca fra i capelli bagnati.
Ricordava le risate dei bambini, ovattate e
troppo distanti per poter essere distinte l’una dall’altra.
Ricordava il fango nelle scarpe, l’odore di
pino silvestre solleticargli il naso.
Ricordava le rive del fiume deserte, adornate
di luci al neon blu e rosa.
Ricordava il banco di nebbia entro cui erano
preclusi, i cumuli cinerei sopra le loro teste.
Infine, ricordava quelle poche parole con
precisione chirurgica, e la sensazione di aver perso qualcosa di insostituibile
nel momento in cui queste erano scivolate come veleno fuori dalle labbra di
Kibum.
< Perché fumi? >
La sigaretta incastrata fra le labbra di
Jonghyun era caduta ai suoi piedi con lentezza surreale, vittima del senso di
colpa che imbrattava ogni muscolo del suo corpo. In cuor suo lo aveva sempre
saputo, per la precisione aveva sempre temuto quel confronto. Aveva
stupidamente sperato che Kibum non ci avesse fatto caso: erano così poche le
volte in cui fumava che chiunque avrebbe pensato a un passatempo cretino
consumato così, per ammazzare il tempo. Che balla avrebbe dovuto propinargli
per nascondergli la verità suonando convincente?
< Non c’è un perché. Ci sono dei giorni in
cui sento la necessità di farlo, tutto qui. >
< Del tipo? >
Aveva pensato attentamente a cosa ribattere,
ovvio: il più piccolo errore gli sarebbe costato caro. Gli era già capitato in
passato e la faccenda non aveva avuto risvolti propriamente positivi. Non
poteva permettere che accadesse di nuovo, non con Kibum, non prima di aver
gustato appieno i giorni che rimanevano a loro disposizione. A dirla tutta, si
augurava sarebbero stati eterni e che la ventesima sigaretta sarebbe rimasta
per sempre dentro al pacchetto.
Perché fumava, gli aveva chiesto. Quello che
invece si chiedeva lui era perché continuasse vista la voglia che aveva di
rimanere accanto a lui per tutta la vita.
Perché non riusciva a smettere? Perché
c’erano momenti come quelli dove le sigarette gli imponevano la loro volontà
obbligandolo a fumarle?
< Boh, tipo quando sono nervoso, o troppo
felice, o annoiato, o tu mi fai queste domande senza senso. >
< Ma non hai il vizio. >
< Cosa te lo fa credere? >
< Il fatto che tu stia ancora fumando il
pacchetto che hai cominciato il giorno in cui ci siamo messi assieme. >
Un altro pugno allo stomaco, stavolta più
violento. A Kibum non era sfuggito neanche quel particolare.
< Ci metto un po’ a finirle. > aveva
ammesso riluttante.
< Perché ho come l’impressione che tu mi
stia nascondendo qualcosa? >
Altro dolore indicibile alla testa.
< Perché devi vedere misteri dove non ci
sono? > aveva scherzato accennando un sorriso rassicurante. Beh, più o meno.
Kibum lo aveva studiato di sottecchi
spostando poi lo sguardo sulle loro mani intrecciate. Se le era portate davanti
al volto baciandole e ribaciandole volgendo infine l’attenzione alle acque del
fiume.
< Noi… staremo sempre insieme, vero? >
< Perché ti fai venire questi dubbi adesso?
>
< Non lo so… è solo una sensazione, o
qualcosa del genere… >
< Che fine ha fatto quel cafone che mi ha
consegnato il destino della nostra storia scommettendo su Itachi? Non ti fidi
più per caso? >
Lui aveva sospirato nascondendosi sotto la
cuffia di lana: nel cielo, la luna era stata schiacciata dai grattacieli di
Seoul.
< Ma sì… > aveva detto rincuorato. <
Non so nemmeno io che mi è preso, non farci caso. >
16.
< Sei penoso. >
Il tanfo nauseabondo di tabacco e
disillusione permeava ogni anfratto della casa.
Accomodato sul divano e con l’ennesimo libro
di fisica sulle gambe, Minho guardava il cadavere di Jonghyun steso a terra
davanti a sé: una sigaretta ormai prossima a spegnersi traballava serrata fra i
suoi denti; nel mentre, la cenere incandescente si depositava sulla sua pelle
stigmatizzandola. Piangeva, Jonghyun, soffocava i gemiti di dolore dentro al
cumulo di polvere intrappolato nel tappeto.
< Perché? Perché non riesco a smettere?
>
< Fondamentalmente perché sei un cretino.
> aveva risposto tornando a concentrarsi sugli studi.
< Non voglio… non voglio arrivare alla
ventesima sigaretta. >
< E allora non lo fare! Infischiatene
delle tue tradizioni del cazzo: chi l’ha stabilito che un pacchetto cominciato
va finito a tutti i costi? Che poi, anche se lo finisci, perché deve
necessariamente finire anche la storia tra te e Kibum? >
Jonghyun aveva accolto quelle parole a cuore
aperto: per qualche istante erano state capaci di restituirgli un respiro
regolare, inframezzato da considerazioni più o meno pertinenti su cosa stava
facendo e soprattutto perché. Non ricordava neanche come fosse nato quell’hobby:
forse per impedirsi di soffrire, forse per evitare di legarsi a qualcuno per
poi guardarlo sfuggire da davanti ai suoi occhi, non lo sapeva. Kibum aveva
ragione a pensare di lui le peggiori cose, tanto per dirne una, che fosse un
codardo. Aveva ragione da vendere.
< Avrei dovuto capirlo quel giorno, quando
sono arrivato dal tabaccaio e non ho trovato le Malboro. Era un segno… >
< …della tua immane deficienza. Sì,
suppongo tu abbia ragione. >
< Se solo non avessi comprato nessun
pacchetto… >
< …a quest’ora riuscirei a studiare la
notte anziché venire disturbato da guaiti animaleschi. >
Jonghyun aveva latrato raggomitolandosi su se
stesso.
< Sono una merda. >
< Oh, la prima cosa intelligente che ti
sento dire oggi! > Minho aveva chiuso il libro poggiandolo sul tavolo. Gli
capitava spesso di essere brutale con Jonghyun. Non che gli piacesse: se avesse
potuto, ne avrebbe fatto volentieri a meno. Il fatto era che Jonghyun aveva
bisogno di qualcuno più forte di lui che lo comandasse a bacchetta. Sotto la
scorza ermeticamente chiusa d’arroganza e menefreghismo si nascondeva un
cucciolo bastonato troppo impaurito per muovere un solo passo senza il consenso
del padrone. Minho lo sapeva bene, come sapeva bene che quel padrone, l’uomo a
cui avrebbe scodinzolato e ubbidito da lì alla fine dei suoi giorni, era Kibum.
Non lui.
< Ascoltami… > gli si era inginocchiato
accanto adagiando le mani sulla sua fronte. < …tu ami Kibum, vero? >
Quanto dolore provava nell’interpretare la
parte dell’amico fidato, quello che, cascasse il mondo, avrebbe prestato la
spalla per lenire le sofferenze dell’altro.
Jonghyun si era limitato ad annuire.
< Allora non farti condizionare da
qualcosa di così stupido. Può darsi che quando hai cominciato a frequentare
Kibum non avevi la più pallida idea di cos’avresti provato per lui… >
< Togli il forse… >
< In ogni caso… > Odiava essere interrotto,
gli faceva perdere il filo del discorso. < …quello che senti per lui è più
importante di uno stupido pacchetto di sigarette, no? Cazzo, ti sei innamorato,
state assieme da più di un anno! Non significa niente per te? >
< … > Jonghyun aveva respirato a fondo
prima di rispondere, snocciolato ogni timore e sradicato paure e tormenti dalla
testa. Quindi aveva annuito. Di nuovo. < …hai ragione. Anche se finirò il
pacchetto, potrò pur sempre comprarne un altro, e un altro ancora. >
< Non era proprio questo quello che avevo
in mente ma sì, credo possa funzionare… >
< Io… > si era alzato puntando gli
occhi in quelli dell’amico: Minho aveva dovuto combattere con tutte le sue
forze per non chinare il capo ed arrossire di vergogna. < Grazie Minho, sei
un amico. >
Mai verità fu più dolorosa.
17.
< Hyung? >
< Mh? >
< Mi stavo chiedendo… >
< No. >
< Ma non mi hai neanche fatto finire di parlare!
>
< Conosco quel tono di voce e la risposta,
qualunque sia la richiesta, è no. >
< Ma non devo chiederti niente! Voglio
solo mostrarti una cosa. >
Jonghyun aveva sbuffato continuando a
raccattare gli appunti di Kibum sparsi sul pavimento. Gli esami erano ormai
alle porte e si sa, per ogni studente universitario questo significava una sola
cosa: notti in bianco all’insegna di crisi isteriche e caffè annacquati. Nella
sua infinita ingenuità, altresì detta stupidità, aveva offerto il suo aiuto a
un disperato (o era più corretto dire isterico?) Kibum, realizzando troppo
tardi cosa questo significasse. Per capirci, sopportare una settimana di
shopping forzato in sua compagnia sarebbe stato infinitamente più piacevole che
sorridere innanzi ai suoi capricci e piagnistei deleteri. Temeva segretamente
che sul finire di quelle tre settimane un viaggetto alla neuro non glielo
avrebbe negato nessuno. O al manicomio, per quel che cambiava.
< Dimmi. >
Kibum si era sfilato gli occhiali e scollato
i capelli dalla fronte imperlata di sudore, quindi aveva estratto qualcosa di
familiare dalla tasca dei pantaloni.
< Guarda. >
E così aveva fatto, incappando nel più grande
smarrimento mistico della sua vita.
< Ma che…? > Gli si era avvinato per
sincerarsi di aver visto bene, per assicurarsi che il tutto non fosse solo
l’ennesimo parto malato della sua mente stanca. < Bum, ma questo è… >
< Già. Un pacchetto di MS. >
Non era stato tanto il ritrovarsi davanti le
stesse sigarette che fumava lui a sconvolgerlo, né il fatto che Kibum avesse
comprato quello che tutta probabilità era il suo primo pacchetto. Quello che
davvero gli aveva strappato una smorfia di stupore era stato il suo sorriso
candidamente orgoglioso, l’espressione che ti aspetti di vedere sul volto di un
soldato di ritorno dalla guerra.
Per quale ancestrale motivo era così… felice?
< Questo lo vedo. Non vedo invece una
ragione apparentemente valida per essere tanto soddisfatto. >
Kibum aveva scrollato le spalle in un quieto
dissenso.
< Beh, ti ricordi di quella volta in cui
mi hai parlato di come ti senti quando fumi? >
Aveva annuito.
< Ebbene, avevi ragione. Mi aiuta
tantissimo a non impazzire in questi giorni. È probabile che smetterò una volta
finiti gli esami, ma per il momento sono un valido aiuto. E poi… > Aveva
preso un pennarello nero e il suo braccio con la chiara intenzione di
disegnarci sopra qualcosa. < …boh, ho preso la stessa marca che fumi tu,
così se le finisci posso passartele io o viceversa. No? >
Jonghyun aveva studiato il sottilissimo
strato d’inchiostro asciugarsi sulla sua pelle e ramificarsi in un cuore: la
punta del colore gli schiacciava le vene incastrandosi fra i tendini per poi
sollevarsi, fermarsi, e colpire ancora.
< Che gesto altruista… > aveva
scherzato soffiando sul disegno. < Basta che non ti fai prendere dal vizio.
>
< Ma va, per chi mi hai preso? Sono Kim
Kibum io! >
< E questo dovrebbe rassicurarmi? >
Il broncio stupidamente ostinato dell’eroe
dei poveri si era presto trasformato in una risata fragorosa a cui si era
aggregato con gioia.
Se gli avessero detto che quello sarebbe
stato uno degli ultimi giorni d’estate della loro storia, Jonghyun non ci
avrebbe mai creduto. Eppure le prime foglie accartocciate e marroni sporcavano
già la quiete e la serenità di quei momenti.
Era stato lui a non volerle vedere.
18.
Non importa quanto grandi siano i tuoi sforzi
e caparbia l’insistenza con cui chiudi gli occhi innanzi alla realtà, quel
susseguirsi di incipit languidi che svelano nuovi ed agghiaccianti perché:
prima o poi arriva per tutti il momento di accettare i mali per come si
propongono, nudi, crudi o agghindanti, non fa differenza. Jonghyun lo sapeva
bene, era un concetto che aveva assimilato con estrema sofferenza negli ultimi
tempi, minuscole postille che prese una a una erano apparentemente
insignificanti; se raggruppate, fonte di dolore indicibile.
Lo schermo del pc si era oscurato per
l’ennesima volta. Poco male, ormai aveva capito che i suoi stoici tentativi di prendere
alla leggera quella minuzia erano prettamente inutili. Ok, forse stava vivendo
quella storia un po’ troppo
seriamente: Kibum aveva semplicemente oscurato la loro relazione su Facebook,
erano passati da “ufficialmente fidanzati” a estranei (tecnicamente parlando,
ovvio. In pratica le cose erano ben diverse e tante grazie!). Non aveva chiesto
neanche spiegazioni: avrebbe detto che conosceva già le eventuali risposte, la
paura di farsi scoprire gay dai propri genitori, cose così. Niente che non
fosse successo a lui anni e anni fa quando, durante una cena dai suoi, si era
acceso una sigaretta e aveva proclamato con voce carica di pathos di preferire
il fringuello alla passera.
In verità era terrorizzato. Spendeva le
giornate in completa solitudine contando i “mi piace” sotto le foto che
raffiguravano Kibum in costume da bagno, leggeva i commenti e gli apprezzamenti
di numerosi ragazzi con foto profilo a luci rosse, uccideva con lo sguardo le
decine di amici che si faceva di settimana in settimana. Poi provava a
chiamarlo, in media venti volte al giorno: sapeva che era occupato con lo
studio, che ormai mancavano solo poche ore all’inizio degli esami. Lo sapeva,
non era un cretino. Eppure non poteva farne a meno: aveva disperatamente
bisogno di sentirsi mandare a quel paese, di ascoltarlo mentre gli spiegava che
se non si parlavano da… e chi se lo ricordava più?, era perché si stava
ciucciando il cervello dietro ai libri (da tradursi con “non rompete il cazzo”).
Credeva gli sarebbe bastato, ed era quasi scoppiato di gioia quando
–finalmente– Kibum aveva risposto alla sua chiamata.
< Che
c’è? >
Ottimo esordio, non avrebbe potuto iniziare
meglio.
< Ciao… > aveva forzato la voce in un
suono sereno che non riflettesse ciò che provava. Inutile specificare i
risultati disastrosi. < Volevo sapere… sì, come va? >
< Come
pensi possa andare? Sono esausto. > E
lo era per davvero a giudicare dai singhiozzi. < Hyung, ascolta, se non è importante possiamo rimandare alla fine
della sessione d’esami? Sto cercando di mantenere la borsa di studio, lo sai.
>
< Solo cinque minuti, per favore. >
Kibum era rimasto in silenzio: in lontananza,
il frusciare dei fogli graffiava i nervi di entrambi.
< E sia.
Di cosa vuoi parlare? >
Già… di cosa voleva parlare? Non ci aveva
neanche pensato tanto era stato forte ed irrazionale il desiderio di sentire
semplicemente la sua voce. Gli avrebbe voluto chiedere una risata, un “ti amo”,
una delle sue proposte indecenti, persino un giro al centro commerciale. Tutto,
purché venisse da lui.
< Io… non saprei. >
< Mi stai
prendendo in giro per caso? >
< No… è che… > Poi, l’illuminazione, il
colpo di genio che ti capita una o due volte nella vita. La cosa giusta al momento giusto. < …mi stavo chiedendo
se avessi bisogno di qualcuno che ti prepara il caffè: tu lo bruci sempre. >
<
Apprezzo il pensiero ma no, so benissimo come andrebbe a finire. Poi sono a
studiare da amici, quindi il problema non sussiste. >
…amici?
< Ah… compagni di corso? > aveva
chiesto amareggiato.
< E chi
se no? >
Sopportava in silenzio, Jonghyun, accennava sorrisi
malinconici al vuoto: Kibum era stanco, doveva essere più comprensivo nei suoi
confronti. Non c’era alcun motivo per-
< Sei
geloso? >
Ecco, appunto.
< No, figurati. Dovrei? >
Che bugiardo.
< Ma
quando mai? Ora possiamo chiudere Hyung? Sono indietrissimo… >
< Certo. In bocca al lupo, mi raccomando,
Magari passo domani mattina a farti gli auguri… >
<
Preferirei di no. Non prendertela eh, sono fisime mie: non voglio vedere
nessuno domani, altrimenti mi agito e- >
< Capito, non devi giustificarti. > Certo
era che stava diventando un bravissimo attore. < Allora buonanotte.
Fighting!! >
Kibum non gli aveva neanche risposto.
Era rimasto lì, col telefono incollato
all’orecchio, sperando in un “grazie” che non era mai arrivato. Gli ci erano
voluti cinque minuti per capire che la conversazione era finita: altri cinque
per capire che non era più il centro del mondo per il suo ragazzo.
19.
I primi raggi primaverili squarciavano la
cappa di nubi densa incollata come scotch sulla carta al cielo.
Seduto sullo stesso muretto dove un anno e
mezzo prima si era umiliato pubblicamente grazie a Kibum, Jonghyun attendeva le
due del pomeriggio contando gli studenti che gli passavano davanti al naso. Un
modo stupido per passare il tempo, non era riuscito a trovare di meglio.
Quel giorno, in quel preciso istante, Kibum
stava dando l’ultimo esame della sessione invernale. Presto le cose sarebbero
tornate alla normalità: niente più litigi, niente più assenze eterne, niente
più preoccupazioni che non gli avrebbero permesso di chiudere occhio la notte, niente
più gelosie ingiustificate. Niente di niente insomma. Pregustava già il sapore di
una felicità che non si ricordava nemmeno che consistenza avesse, due labbra
morbide e vellutate poggiate sulle sue, il calore di due mani intrecciate.
Rivoleva indietro il ragazzo che era stato capace di farlo innamorare, quegli
occhi dal taglio inconfondibile che non si sarebbe mai stancato di guardare, la
sua schiettezza cruda e tagliente. In parole povere, voleva riabbracciare
l’uomo al quale avrebbe voluto stare accanto per tutta la vita. Non era una
richiesta tanto gravosa, no?
Si era sporto più e più volte per controllare
la scalinata di marmo. Aveva anche camminato avanti e indietro lungo l’androne
di aiuole incastrato tra il campus e la strada al di fuori. Aveva atteso per un
tempo infinito, per la precisione tre ore, undici minuti e quarantasette
secondi. Ora quarantotto. Quarantanove. Cinquanta. Una figura familiare si era
affacciata sul corrimano che dava sulla rampa di scale, stava venendo in sua
direzione.
Kibum.
Il cuore aveva cominciato a fare le capriole,
si era ritrovato a correre per raggiungerlo, quindi stringerlo e sollevarlo al
cielo: dopotutto si sapeva, tra i due quello che aveva i muscoli era lui.
Toccare nuovamente i suoi capelli, la sua
pelle, i suoi vestiti pregni di Chanel n.5 era stata senza dubbio l’esperienza
più emozionante della sua vita (senza contare la dichiarazione d’amore, ovvio):
Kibum era esattamente come se lo ricordava, nato per vivere tra le sue braccia,
di una perfezione così abbagliante da sembrare costruita. Non esisteva niente
di più meraviglioso di loro due, all’infuori del baco d’affetto che avevano
tessuto tutt’intorno per stare uniti.
Niente.
< Mi sei mancato. > gli aveva
sussurrato all’orecchio rafforzando la presa.
< Mi stai soffocando, non respiro! >
< Un modo come un altro per dire che
vedermi ti ha mozzato il fiato? >
Kibum aveva riso colpendogli il braccio per
scherzo, come un bambino batte i pezzi dei Lego coi palmi delle mani per
incastrarli perfettamente.
< Cretino… >
E si erano baciati.
Era stato uno di quei baci eterni alla
“Colazione da Tiffany”. Non si erano curati del codice morale universitario: si
erano divertiti a scandalizzare quei rari studenti che, in attesa di ricevere
una valutazione, cercavano di catturare i primi cinguetti della nuova stagione.
La percezione che avevano del mondo e di chi stava loro attorno si era
ristretta negli occhi dell’altro, ora chiusi per gustare appieno
quell’irripetibile vissuto.
Si erano staccati un po’ delusi per mancanza
d’ossigeno.
< Allora? Com’è andata? > aveva chiesto
Jonghyun cercando le chiavi della moto nelle tasche della giacca.
< Bene credo: il tipo affianco a me a un
certo punto è entrato in panico, dovevi vederlo. Credo si chiamasse Jinki…
giuro, per poco non sveniva. >
< Tua madre non ti ha mai insegnato che è
maleducazione prendere in giro gli altri? >
< Nahhh… era troppo occupata a spiegarmi
che il leopardato non va mai abbinato al lucido. >
Jonghyun aveva alzato un sopracciglio
scettico, indeciso se credere alle parole dell’altro o meno.
< Si spiegano molte cose… > aveva
asserito infine.
< Che vorresti dire? >
< Niente. > Gli aveva teso il casco
indicando la Yamaha parcheggiata lì vicino. < Andiamo a festeggiare? Qualche
proposta? >
Kibum aveva chinato lo sguardo imbarazzato: i
residui di felicità erano morti annegati dai sensi di colpa dentro ai suoi
occhi.
< Veramente… avevo già in programma di
andare a mangiare coi miei amici dell’università. Lo avevamo deciso mesi fa…
sì… mi spiace… >
Era successo così, Jonghyun lo aveva capito.
Portandosi la diciannovesima sigaretta alle labbra, aveva dato il via al
countdown definitivo che avrebbe cambiato radicalmente il futuro e le sue
prospettive. Quella confessione altro non era stata che l’ennesima bufera
distruttrice dei suoi sogni, fragili come castelli di sabbia. E aveva lottato
per sedare il malumore, la cocente delusione annichilita dentro al suo stomaco.
E aveva perso. Tutto per una… sì, cazzata, perché a conti fatti era
perfettamente conscio che Kibum non aveva detto niente di male. Non lo aveva
respinto, né gli aveva negato niente. Aveva semplicemente preferito trascorrere
i primi momenti di libertà assieme ad altri.
< Ah… >
aveva detto ostentando una serenità discrepata. < Non… importa.
Abbiamo tutto il tempo di festeggiare domani, no? >
Kibum aveva annuito poco convinto.
< Sì… certo. > Si era voltato verso la
scalinata adocchiando i suoi compagni, universitari infagottati in tristissimi
completi da rampolli e felicità ipocrite. < Scusami Hyung ma devo andare. Ci
sentiamo più tardi, ok? >
Aveva risposto qualcosa, Jonghyun, forse un
sì di cui però non serba alcun ricordo oggi. Sa che è stato allora che la paura
di perdere Kibum lo aveva spinto sull’orlo della pazzia, come sa che dargli le
spalle e tornare da solo alla propria moto era stato tanto straziante quanto umiliante.
Aveva vagato in lungo e in largo quel giorno, senza meta, immaginandosi la sua
voce nelle orecchie.
Era stato l’ultimo giorno in cui aveva
sognato a occhi aperti l’amore sincero che Kibum aveva posto nelle sue mani
mesi or sono.
“Datti una calmata Jonghyun, stai facendo di
un niente l’apocalisse” si era detto. “Domani vi vedrete, andrete a divertirvi,
cazzeggerete sul divano e tutto tornerà come prima.”
Come prima.
Già.
Non si era creduto neanche per un istante.
20.
Jonghyun aveva estratto il pacchetto di MS
dalla tasca dei pantaloni con un gesto seccato. La consistenza morbida e
fragile dell’ultima sigaretta lo aveva dapprima irritato, poi appagato, specie
quando incontrando lo sguardo di Kibum aveva gioito del terrore di cui erano
imbevuti i suoi occhi. Se ne stava lì, Kibum, bello come la prima volta in cui
lo aveva visto sulle rive del fiume intento a studiare, la matita a penzoloni
tra le labbra. No, forse anche di più. Era cresciuto e aveva messo su,
incredibile ma vero, qualche muscolo. Il volto poi si era fatto più maturo. Il
carattere mitigato. Avrebbe potuto continuare così per ore, lo sapeva: non sarebbe tornato sui suoi passi.
< Cosa… cos’hai detto? >
La sua voce, un caleidoscopio di emozioni
sofferenti, aveva squarciato gli attimi di silenzio catartico in brandelli di
dubbi e paure.
Jonghyun si era acceso la sigaretta
ostentando tranquillità e pieno controllo della situazione.
< Ho detto che è finita, non voglio più
continuare questa storia con te. >
Kibum aveva cominciato a piangere senza porsi
freni. Non gli aveva parlato però, non aveva chiesto nessuna spiegazione, il
più piccolo perché: aveva tenuto fede alla promessa fatta un anno fa, senza
infangare l’orgoglio che si era costruito e di cui andava tanto fiero.
Era stato Jonghyun a sputare i suoi
risentimenti, il suo odio, la sua rabbia e, soprattutto, la paura.
Jonghyun amava ancora Kibum, lo amava come
ogni figlio ama la propria madre, le stelle la luna, il mare il cielo. Lo amava
a tal punto che si sarebbe volentieri buttato da un ponte se lui glielo avesse
ordinato. Ed era proprio perché lo amava che aveva deciso di troncare quella
relazione: Kibum stava per laurearsi, presto avrebbe ereditato l’agenzia
immobiliare di suo padre. Era chiaro che i suoi genitori gli avrebbero presto o
tardi combinato un matrimonio. Per non parlare poi della vita e degli amici che
si era fatto all’infuori di lui e con i quali trascorreva tutto il suo tempo.
Jonghyun era diventato una presenza asettica,
la scopata di quindici minuti atta a placare gli istinti animali. E la cosa non
gli piaceva, come non gli piaceva mentire riguardo il vero motivo per cui stava
abbandonando l’uomo della sua vita.
Ma chi voleva prendere in giro? Stava troncando
quella relazione per paura di vedersi lasciare da lui prima, questa era la
verità. Lo terrorizzava a morte la vita sociale che si era costruito, una
compagnia e un mondo a lui estraneo che stava demolendo il concetto di “noi” a
favore di “io” e “lui”. Gli amici, come lo studio, la famiglia e addirittura i
gruppi universitari, che Kibum aveva sempre bigiato per stare insieme, avevano
cominciato a essere priorità invalicabili alle quali non poteva mancare.
Jonghyun ci aveva messo poco a capirlo: presto, molto presto, le esigenze di
Kibum lo avrebbero schiacciato se non si fosse deciso a muovere un passo. Non
avrebbe potuto sopportare la sofferenza di vedersi piantare in asso dal ragazzo
che gli aveva stravolto la vita, no: per questo lo aveva preceduto, per non
dargliene l’occasione. Per sopravvivenza. Per limitare i danni. Perché era un
codardo di dimensioni epocali e da tale stava scappando innanzi a qualcosa che
non riusciva più a sopportare.
Kibum lo aveva guardato un’ultima volta, in
piedi e davanti a lui: aveva cercato disperatamente un qualcosa nei suoi occhi
che gli facesse pensare a un errore. Continuava a chiedersi perché, senza
riuscire ad articolare un solo pensiero coerente o una frase di senso compiuto.
Lui lo amava, e sapeva benissimo che Jonghyun condivideva lo stesso sentimento.
Perché stava succedendo una cosa del genere?
Jonghyun gli si era avvicinato porgendogli il
pacchetto vuoto di MS.
< Tieni. > gli aveva detto indicando la
sigaretta che stringeva tra le labbra. < Con questa è finito. Puoi andare.
>
L’ultimo atto, la lama della ghigliottina che
recide la testa di netto senza dare l’occasione di provare dolore.
Kibum aveva guardato con occhi increduli il
pacchetto vuoto, capendo finalmente alla base di cosa fosse nata la loro
storia. Una relazione durata venti sigarette: Jonghyun aveva cominciato il
conto alla rovescia il giorno stesso in cui si erano messi insieme.
Non era riuscito a sopportare oltre. Col
cuore traboccante d’odio si era voltato, aveva dato le spalle al suo primo
amore. Avrebbe dovuto dare retta a quegli antichi detti, quelli sull’origine e
la fine di ogni cosa: chissà che magari così facendo non sarebbe andata
diversamente.
Jonghyun aveva seguito Kibum con lo sguardo
fino a quando gli era stato possibile, tra le mani il pacchetto pesava come un
macigno. Era crollato in lacrime sull’asfalto graffiandosi le ginocchia, urlando,
battendo i pugni e chiedendosi perché.
Perché Kibum non gli aveva detto niente?
Perché Kibum aveva smesso di amarlo?
Perché le cose erano cominciate a cambiare?
Perché?
PERCHE’?
Era rimasto abbandonato sulla strada per un
tempo che gli era sembrato eterno, forse aspettando un suo ritorno. Quando però
alzando la testa aveva incrociato lo sguardo rammaricato di Minho, non era più
riuscito a trattenersi: era scoppiato in lacrime.
< E’… finita. > aveva detto
semplicemente.
Minho non aveva risposto, aiutandolo invece a
rimettersi in piedi e a sostenere il peso del proprio corpo.
< Andiamo a casa, Jonghyun. Insieme. >
Le strade di Kibum e Jonghyun si erano divise, ramificate come
le viuzze invisibili di Seoul. Non si sarebbero più rivisti, né si sarebbero
cercati: avrebbero però conservato il ricordo l’uno dell’altro con cura e
dedizione, intraprendendo un nuovo cammino a testa alta.
La loro storia e soprattutto la sua fine
aveva dato lo scacco matto alle loro esistenze, chi per il meglio, chi
per il peggio.
Quel giorno, un tiepido e timido sole aveva
salutato il passato per rivolgersi al futuro traboccante di buoni propositi.
Epilogo
Un anno
dopo.
Jonghyun
0.
Jonghyun guarda la parete tappezzata di
pacchetti di sigarette con cipiglio perplesso, il cozzare di colori e scritte
svuotati di ogni significato esibirsi in un lesto tentativo di prenderlo per la
gola. Il tabaccaio, un uomo sulla cinquantina con un paio di baffi incolti
sotto il naso e una barba da cinque del pomeriggio, gli rivolge un invito
implicito attendendo un suo ordine, stupito di trovarlo di nuovo lì dopo quasi
tre anni d’assenza.
< Ne è passato di tempo dall’ultima volta,
eh ragazzo? >
Annuisce cacciando un saluto un po’ burbero
ma sincero.
< Già… >
< Che ti è successo? Sei andato da qualche
parte in giro per il mondo? >
< Abbandonare Seoul? E per quale città?
No, no, niente di tutto ciò. >
L’uomo smette di insistere, crede che tutte
quelle attenzioni possano infastidire il suo cliente, come effettivamente
stanno facendo. Dopotutto è risaputo che
Jonghyun è un tipo che si irrita con poco, specie quando si ficca il naso nelle
sue faccende.
< Il solito? Un pacchetto di Malboro? >
Jonghyun guarda a lungo prima le Malboro poi
le MS esposte in ordine alfabetico proprio affianco.
< No. > prende un accendino dal vasetto
di plastica posto accanto a un pupazzetto di Pororo grande quanto la sua mano.
< Solo questo. >
< Niente sigarette? >
< Ho smesso di fumare. > ammette
pagando l’oggetto senza volere il resto: pochi Won, non una perdita così
gravosa. < Arrivederci. >
Esce dal locale nel freddo primaverile, gli
occhi curiosi dell’uomo puntati come spilli sulle sue spalle. Risponde al suo
saluto un po’ deluso, amareggiato per aver perso uno dei suoi migliori clienti:
spera di incontrare Jonghyun di nuovo un giorno, magari parlare del niente
davanti a un tè caldo. In fin dei conti gli piace quel ragazzo, trova
affascinante l’alone di mistero che si è cucito in un drappeggio orlato
tutt’intorno.
Jonghyun sbadiglia ignaro dell’affetto
paterno che quell’uomo nutre nei suoi confronti concentrandosi invece sulla
figura che, sul limitare del marciapiede, regge tra le mani due cappuccini caldi.
< Ce ne hai messo di tempo. >
La solita gentilezza di Minho.
< Tieni. > Gli porge il suo bicchierone
di carta preso da Starbucks sorseggiando il proprio con fare annoiato. < Ora
possiamo andare? >
< Ma sentitelo! Vado a comprargli
l’accendino e mi devo sentir parlare pure così. Ritieniti fortunato se vivi
ancora sotto il mio stesso tetto! >
Minho ride malignamente arpionandogli il
volto tra le dita e fissandolo intensamente.
< Fortuna hai detto? Devo dedurre che
possiamo limitare il numero di scopate settimanali? >
< Non ci pensare neanche. > Sorride
baciandolo delicato, un contatto leggero quanto il battito d’ali di una
farfalla. < Detto ciò, dovresti smettere di fumare. Sai che non fa bene.
>
< Detto da te è tutto un programma. >
Minho gli prende la mano cominciando a camminare. < Non è che sei
preoccupato che possa fare qualcosa di simile a quello che facevi tu fino a un
anno fa? Del tipo, finisco il pacchetto e ti butto nel cassetto del
dimenticatoio? >
< Ma figurati. Tu lo fai perché hai il
vizio. Per questo verso posso dormire sonni tranquilli. >
< Già. Sono io quello che si ritrova ad
essere geloso del pacchetto di sigarette vuoto che tieni ancora dentro la tasca
della giacca. >
Jonghyun si ferma all’improvviso, i piedi
fusi al cemento grigio plumbeo gli impediscono di proseguire. Guarda Minho con
occhi severi, gli occhi di chi sperava di non dover tornare sulla questione per
quella che probabilmente era la millesima volta.
Si morde l’interno delle guance passandosi la
lingua tra i denti, lava via ogni rimasuglio di frustrazione dalla bocca. Non
vuole sputargli alcun rancore addosso.
< Ti ho già detto che lo tengo per
ricordarmi di aver chiuso col passato. Se non fosse per LUI probabilmente a
quest’ora starei ancora fumando, e tu sai meglio di me cosa vuol dire, vero? > Chiude gli occhi ficcandosi le mani in tasca,
stringe forte il pacchetto di MS ormai consunto e sgualcito che ha fatto le
ragnatele dentro al suo giubbotto. < Io e te non staremmo assieme. >
Minho non risponde, non subito perlomeno.
Preferisce abbracciarlo ed affondare il naso tra i suoi capelli neri.
< Lo so. E’ solo che… > respira a
fatica raccapezzando le parole giuste per confessare le sue angosce. < …la
verità è che ho paura di vederLO arrivare e portati via da me. >
Jonghyun schiocca la lingua sibillino, a metà
fra il seccato e il lusingato. Vive di contrasti da quando ha cominciato a
uscire insieme a Minho, ad andarci a letto e soprattutto a…
< Ascoltami bene. > Lo allontana da sé per
riuscire a parlargli faccia a faccia. < Non potrò mai dimenticare Kibum,
ficcatelo bene in testa. Questo non vuol dire assolutamente che ci tornerei
assieme se mi si presentasse l’occasione. Il motivo per cui Kibum è e
continuerà a essere così importante per me è perché grazie a lui sono riuscito
a liberarmi dalle sigarette e, soprattutto, a cominciare una storia seria senza
ansie o doppi fini con te. Sono stato chiaro idiota? In che lingua devo dirtelo
che ti amo e che non scapperei da te neanche fosse quel gran bel pezzo di manzo che è
T.O.P. a chiedermelo? >
< Ah beh, questa sì che la garanzia che mi
serviva! > Minho scherza spingendolo indietro per gioco. < Comunque ho
capito. Ora però ci conviene andare: le iscrizioni all’università non ti
aspetteranno in eterno. >
Jonghyun accarezza per l’ultima volta il pacchetto
di MS prima di annuire e seguirlo.
< Grazie. > dice solamente questo.
Entrambi sanno che significa molto di più.
Si prendono nuovamente per mano ricominciando
a camminare. Un nuovo inizio li attende, e sembra promettere le più
meravigliose sorprese.
Un anno
dopo.
Kim Kibum
1.
Kim Kibum scartabella l’involucro di plastica
sottile con le unghie laccate di blu elettrico e borchie fatiscenti. Strappa la
linguetta aprendo il pacchetto, pesca una sigaretta con fare cinico, seccato
per non aver trovato le MS quella mattina dal tabaccaio. La giornata non
avrebbe potuto cominciare peggio: aveva dovuto ripiegare su altro, una simpatia
nata senza un perché o valido motivo che gli era costata il doppio degli Won e
un’inspiegabile malinconia.
< Grazie per essere venuto, Hyung. >
Scrolla le spalle accarezzandosi le labbra
screpolate coi polpastrelli freddi. Kibum ha sempre freddo, anche d’estate. Ha
cominciato a viverlo quando un anno fa si fatto umiliare da quello stronzo di
cui non vuole riesumare neanche il nome.
< Figurati Taemin. Di che volevi parlarmi?
>
Il ragazzo è nervoso, è evidente com’è chiaro
che Kibum ha già capito qual è il motivo per cui gli ha chiesto d’incontrarlo. Per questo è andato a comprare le sigarette, per salutare un nuovo inizio
che avrebbe portato grandi novità nella sua vita, negli ultimi tempi piatta
come una tavola da surf. La vera novità era stata però comprare un’alternativa
alle MS, l’unico frammento di passato che non ha mai trovato il coraggio di
buttare nel cestino.
< Hyung… tu mi piaci. > Taemin evita
accuratamente il suo sguardo, scruta le panchine poste ai cigli delle vie
poggiate sul ciottolato bianco. < Ecco…
è un po’ che ti osservo e ho notato che non giri più col tuo ragazzo. Vi siete
lasciati? >
Annuisce in silenzio, fa attenzione a non
incrinare la maschera ferrea e glaciale. Forse è stato un bene comprare delle
sigarette diverse: quella potrebbe essere la svolta che gli consentirà di
chiudere definitivamente con lui. Dopotutto, se fuma e prende le MS la colpa è
solo sua.
< Sì, un anno fa. > ammette furibondo.
< Oh! Ma allora potresti metterti con me!
> Taemin si porta le mani davanti alla bocca pallido e sudato. < Se ti va
ovviamente! Non… sentirti in obbligo solo perché mi piaci. >
< Non ci ho pensato neanche per un
secondo. > Kibum sbuffa seccato cercando l’accendino nella tracolla di pelle
nera: pensa sempre che è arrivato il momento di cambiarla, alla fine non lo fa
mai. < Va bene Taemin. Sarò il tuo ragazzo. > accetta infine trovando
quel che andava cercando.
Il ragazzo gli rivolge un sorriso trentadue
denti di un’innocenza disarmante, uno di quelli che ti fanno sentire un mostro
a prescindere.
< Oh… io… grazie Hyung. F-farò del mio
meglio, lo prometto! >
A Kibum viene quasi da ridere: poveraccio, non
si rende neanche conto di essere solo un ripiego, un modo come un altro per
cercare di dimenticare LUI.
Si dice che dovrebbe sentirsi in colpa, che
non è giusto: sta per infliggere la stessa sofferenza vissuta da lui per mano di
un coglione qualunque a un bambino. Alla fine di quella storia Taemin crollerà,
com’è crollato lui mesi fa, ma non gli importa: ha smesso di interessarsi agli
altri quando il cuore gli si è rotto in seno al petto.
< Lo spero. > risponde semplicemente assaporando
il gusto della sua vita, fatto di un tabacco diverso da quello che prendeva
Jonghyun.
Nelle tasche, un pacchetto di Malboro conta già
i giorni che rimangono per decretare la fine di quella storia.
[The end…?]
***
Varie
e sconclusionate eventuali:
Bah! Non aspettatevi nessuna
spiegazione perché non saprei che propinarvi. Sono seria: non ho la più pallida
idea di dove sia andata a pescare questa fiction, che tra l’altro mentre
scrivevo mi ero imposta di far finire bene. Beh, non che finisca male: Jonghyun
trova finalmente la felicità e la tranquillità con Minho mentre Kibum comincia
lo stesso cammino intrapreso da Jonghyun due anni prima con lui. Il finale di
Kibum è aperto non perché ci sarà un continuo, come il “the end” col punto di domanda:
le due cose indicano semplicemente il ciclo continuo della vita e il fatto che,
come lui è stato l’eccezione di Jonghyun, il ragazzo delle MS, Taemin sarà il
suo ragazzo delle Malboro, quindi la persona capace di restituirgli la
serenità. La cosa triste è che il nostro Kibum è convinto di essersi liberato
di Jonghyun quando invece torna a legarsi a lui comprando le Malboro, ovvero le
sigarette che ha sempre fumato il nostro dinosauro. Però io spero in un lieto
fine per Kibum e Taemin <3 Questa è la mia interpretazione**
Ah già, i numeri all’epilogo:
ovviamente si riferiscono alle sigarette. Jonghyun ha smesso di fumare, quindi
il suo giro si è chiuso (= sero). L’uno per Kibum
invece rappresenta l’inizio di un nuovo ciclo da venti.
Che posso dire ancora? Non so se
tornerò a scrivere qualcosa sugli SHINee in un futuro prossimo: attualmente
sono invischiata in un progetto su un altro fandom K-Pop che sta prosciugando
le mie forze, indi per cui la vedo dura. E sappiate che mi dispiace perché,
credetemi, scrivere su Kibum e Jonghyun è stata la cosa più dolce e naturale
che mi sia mai capitata. Conto però di tornare prima o poi, sempre se avete
gradito questa sciocchezza e non mi odiate a morte per la sua lunghezza e per
il finale (altamente probabile ;.;). Ricordatevi di commentare se vi è piaciuto
quello che avete letto: è un gesto carino che aiuta lo scrittore a migliorarsi.
Se siete autori lo saprete meglio di me. Poi boh, ripongo le mie speranze nel
vostro buon cuore, so che siete delle brave ragazze.
Grazie mille a chi commenterà, chi ha
letto, chi mi manderà a quel paese patteggiando per il povero Kibum ecc ecc. <3
Alla prossima.
Shin