Riportami indietro
Ascoltami.
Anche se non ho niente da dire, e respiro piano per non farti preoccupare, e
trattengo il pianto per non permetterti di rimproverarmi ancora.
Baciami.
Sulla fronte; non toccare la guancia, è ancora umida, né le labbra, o ti
accorgeresti che sono secche e screpolate. Ti graffierebbero, ti
disgusterebbero.
Chiamami.
Con uno dei tuoi soprannomi, quelli che mi fanno sentire ancora così piccolo e
indifeso, e allo stesso tempo grande, enorme, caldo, protetto da due braccia,
un corpo, una voce sottile che si insinua nelle orecchie.
Decomponimi.
Pezzo per pezzo, e poi rimettimi insieme, sempre nell’ordine errato, così
che sarai poi costretto a decompormi nuovamente. Più lentamente, poi con
irruenza, e quindi tornare a posizionare tutti i pezzi. Ma sai che non sono
davvero tutti, e che uno ti sfugge, o ti cade, e lo calpesti mentre te ne vai.
Eliminami.
Con quelle tue parole taglienti come lame, con lo sguardo che dice “Lo sai, non posso farci niente”, con la
mano che scivola dalla mia, col capo che scuote i capelli liberi dalla lacca,
le unghie che si spezzano in bocca, il naso che tira su a tratti.
Feriscimi.
Ché non ho più voglia di farlo da solo. La lampada in vetro che hai appena
rotto per poi metterti le mani nei capelli ha sparso i suoi pezzi sul tappeto
accanto al letto. Muovo appena la gamba così da sfiorarli, come a dirti di
prendere un frammento e ferirmi.
Guardami.
Guardaci, guarda cosa stiamo diventando. Affronta la realtà, alza il capo, apri
gli occhi, fissali nei miei, e non vedremo altro che rosso e nero. Le vene
rosse che ci attraversano gli occhi, il nero che si è impossessato delle iridi
e quello delle occhiaie, anche loro stanche di reggere il peso delle lacrime.
Indossami.
Come un abito, sentimi addosso, avverti il mio peso, renditi conto di come tu
non riesca a reggerlo. Ma a quel punto indossami ancora una volta, lasciati
premere sulle cosce, sul petto, lasciati graffiare la spalla, debolmente, con le
unghie che neanche ho più.
Leccami.
Sulle guance umide di lacrime, adesso che ormai sai che ho pianto fino al
vomito sino a poco fa. Sulle ferite concentrate tra il braccio e l’avambraccio,
anche se ti sei arrabbiato quando mi hai sorpreso a procurarmele. Le ho fatte
lì perché ogni volta che piego il braccio bruciano, e mi ricordano che l’amore
che sto vivendo brucia, fa male, è doloroso. Mi ricordano che dovrei davvero
darci un taglio.
Mangiami.
Non mi accontenterei di morire. Devi ammazzarmi tu, e poi mangiarmi, perché
io voglio essere parte di te per sempre, scorrere nelle tue vene, diventare il
tuo stesso sangue, ciò che pompa il tuo cuore, ciò che ti tiene in vita. Sento
uno strano sollievo quando mi mordi forte la spalla e poi il collo, e quindi inizi
a singhiozzare contro il mio orecchio, quasi volessi farmi ascoltare per bene
il suono del tuo dolore.
Nutrimi.
Con la speranza che ancora tieni nascosta, gelosamente, da qualche parte. E
se è già morta, nutrimi lo stesso, con parole vuote, inutili, illusorie,
riempimi di false verità. Ma non smettere mai di parlarmi, di respirarmi
addosso, ti prego.
Ordinami.
Dimmi quello che devo fare, lo farò sempre senza battere ciglio. Così ho sempre
fatto, così farò sino alla fine. Qualunque cosa, puoi darmi qualunque ordine,
ma non chiedermi di smettere di amarti come un folle. Solo ammazzandomi potrai
farmi smettere.
Prendimi.
Per mano quando siamo soli, dietro le schiene dei nostri compagni, prima di
una diretta, fammi capire che vuoi afferrarmi le dita anche durante un’intervista
in diretta mondiale, un concerto, il ritiro di un premio. Prendimi il gomito
quando sto lasciando la stanza, prendimi la caviglia quando siamo nudi insieme
a letto e vuoi allargarmi le gambe. Prendimi per i fianchi quando sto guardando
fuori dalla finestra, per i capelli quando sei arrabbiato, per il collo quando
vorresti strozzarmi, oppure baciarmi forte.
Reggimi.
Non ce la faccio più, e vorrei riposare. Questa nostra cosa mi consuma ogni
notte, e quando penso di star dormendo, in realtà ho solo le palpebre
abbassate, il respiro affannoso, l’espressione sofferente, e quando sollevo
quelle palpebre la mattina presto, ho ancora addosso la stanchezza di tutta la
giornata precedente. Voglio alzarmi, e ti chiedo di reggermi, mi dici di fare
attenzione ai pezzi di vetro sul tappeto, io ti dico che non mi importa, tu non
mi permetti di sollevarmi.
Scusami.
Se ti ho fatto arrabbiare quando mi hai scoperto a farmi graffi sul
braccio. Lo so che è inutile, lo so che è infantile, ma è che non so più
ragionare, e potrei mettermi a ridere da un momento all’altro, senza motivo.
Anzi, adesso ho fame. E sete. E sonno che potrei svenire. Scusami se ti ho
fatto credere che è colpa tua. Non lo è, è mia perché sono debole, perché non
mi sono mai mosso dai miei sedici anni, quei sedici anni marcati dal tuo
ingresso nella mia vita. Si è fermato, tutto in me s’è fermato quel pomeriggio
in bagno.
Toccami.
Forte; affonda le dita nella pelle, nella carne, fa’ scivolare le dita sullo
stomaco, tra le gambe, sull’inguine, spingi nella mia entrata senza
lubrificare, fammi sentire quanto ancora può far male questo mio amore malato.
Usami.
Per soddisfarti, per sfogarti. Schiaffeggiami se sei arrabbiato, graffiami
se sei frustrato, piangimi addosso se non ce la fai più, urlami parole
umilianti se non ti senti all’altezza della vita.
Violentami.
Se può farti sentire meglio. Se pensi che possa far sentire meglio me. Sollevami i capelli sudati dalla fronte e tira un po’,
inseriscimi due dita in bocca, fammi vomitare, se preferisci. Un corpo dedicato
a te, un’anima senza amor proprio, il sentimento fisso sulla dolcezza del tuo
sorriso.
Zittiscimi.
Quando credi che sia ora di smetterla di parlare e che convenga lasciar
comunicare i respiri controllati senza successo. Eppure prima parlavamo tanto,
sempre, mai stavamo zitti, neanche durante il sesso: mi dicevi che mi amavi,
rarissime volte, o più spesso che ero fantastico, che avresti passato la vita a
fare sesso con me. Prima litigavamo, per cazzate, quindi ne parlavamo, e un
attimo dopo ne stavamo già ridendo, dandoci degli stupidi per come avevamo
sprecato minuti della nostra vita a discutere, quando potevamo utilizzarli a
raccontarci barzellette stupide, o a canticchiare, a ballare, per così dire,
insieme agli altri, a rotolarci nel letto, a raccontarci storie.
Credo che mi manchi tutto questo.
Riportami indietro.
Riportaci all’inizio.
Take me back
Take us back to the beginning
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Ascoltavo Skinny Love di Birdy mentre scrivevo <3
Quello che parla è Harry e, ovviamente, è rivolto a Louis.
Avrete capito on your own che
ho messo un verbo per ogni lettera dell’alfabeto (tranne quelle impossibili). Credo
che lo ribattezzerò “L’alfabeto Angst”. OH YEAH, I
LIKE THE SOUND.
Ammettetelo che vi mancava il mio angst! (Scherzo, lolz)
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Mirokia