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Autore: abercrombjes    18/02/2013    1 recensioni
«Non importa quante altre facce incontrerai, dovrai ricordarti sempre la mia, promesso?».
«Promesso». Riuscì a pronunciare quella parola con la stessa facilità delle lacrime che cominciarono a rigarle il viso.
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi scuso con largo anticipo per il capitolo che non sarà alquanto lungo, ma spero sia di vostro gradimento come inizio. Ho cercato di fare del mio meglio e renderlo il più coinvolgente possibile, ma ovviamente vi assicuro che il bello e la curiosità verranno subito dopo, quindi non preoccupatevi!
Mi accerterò che questa sia una delle storie migliori che abbia scritto fino ad ora!
Vi ringrazieri di cuore se recensiste per farmi sapere cosa ne pensate, per me è molto importante.
Buona lettura c:

_________________


«Dove è diretto?».
Respirai a fondo, cercando di acquistare tempo, mentre il controllore del treno scrutava le carte.
«Seattle».
«Seattle?» domandò l'uomo, distogliendo lo sguardo dai miei documenti e incrociando i miei occhi, che ricambiavano con altrettanta curiosità.
«Sorpreso?» chiesi, evitando di rispondere.
«Mi domando come mai un tipo come te sia interessato ad una città come quella».
«Non c'è nulla da domandarsi» risposi, infilando le mani nelle tasche calde dei jeans. «Posso andare?».
Diede un'ultima occhiata a ciò che aveva tra le mani. Girava e rigirava le mie tessere, come sperando che non fossero autentiche. Infine decise finalmente di restituirmele.
«Buon viaggio».
Incurvai leggermente la bocca, abbozzando un sorriso con fare disinvolto, ma ciò che ne venne fuori sembrò più un'aria schifata.
Lo superai a passi svelti e non appena la mia mano si appoggiò sulla maniglia di una cabina nella quale rinchiudermi, l'uomo mi richiamò.
«Mi scusi, ma lei è di quì?».
Inalai aria dalle narici e tolsi gli occhi dalla porta scorrevole. «Louisiana» risposi vago.
Il controllore scosse la testa e con un cenno si congedò.
Entrai finalmente dentro. Fortunatamente non c'era nessuno ed ebbi la possibilità di poggiare i piedi sui sedili di fronte a me, per poi cominciare a scrutare fuori dalla grande finestra.
Cacciai il cellulare dalla tasca della felpa e lessi qualche messaggio ricevuto. Ignorai quelli della mia ex ragazza che imprecavano perdono, e risposi a quelli di Stefan in cui mi riferiva che mi avrebbe aspettato alla stazione di Seattle.
Rimisi il telefono dov'era e da quel momento in poi, lasciai cadere il peso del corpo su quel sedile e mi accoccolai, facendo in modo che i miei occhi si chiudessero appena la partenza.

 

"I lunghi viaggi mi erano sempre piaciuti. Erano accoglienti, rilassanti e lasciavano che la tua mente vagasse tra i pensieri più lontani. Ogni tanto un lungo viaggio fa riflettere sul tuo passato e il tuo futuro. Ma al momento quello di cui ho paura è il presente."

 

Il forte suono del treno e lo stridolìo rumoroso delle ruote che frenavano, riuscirono in qualche modo a svegliarmi. Scossi la testa, facendo mente locale.
Poggiai una mano sul vetro e scrutrai fuori; era pieno di gente, persone che correvano per prendere in tempo la prossima partenza e svariati ragazzi fermi al bar della stazione centrale solo per passatempo.
Recuperai il più velocemente possibile il mio borsone e mi assicurai che tutti i documenti al suo interno fossero ancora sani e salvi.
Con rapidità mi alzai dal sedile e mi diressi fuori alla ricerca di Stefan, sempre che fosse arrivato in orario.
Mi aggiustai il cappotto e mischiai tra la folla che andava su e giù lungo i vari binari, sorpassando chiunque a passo svelto. Mi nascosi il viso con il cappuccio per evitare occhiate sinistre, ma quando sentii una mano toccarmi la spalla, sobbalzai, pensando che mi avessero già scoperto.
«Idiota!» urlai a bassa voce, dopo essermi ritrovato di fronte la faccia di Stefan.
«Come fai a spostarti così facilmente? Non hai paura che qualcuno ti veda?» domandò, cercando di guardarmi negli occhi, quasi nascosti dal cappuccio.
«C'è bisogno di fare gli indifferenti; se ti comporti come se non hai nessun problema, nessuno ti noterà».
«Bella filosofia, ma quì non ci metteranno nulla a capire chi sei, lo capisci?».
«Avevo bisogno di un posto dove andare, questo lo capisci invece?».
Stefan non rispose. Era chiaro come il sole che non avesse altro da replicare, perchè avevo ragione, e lui lo sapeva fin dall'inizio. E' per questo che accettò di ospitarmi, da mio caro amico d'infanzia.
«Seguimi, e resta a testa bassa» aggiunse poi.
Non mi azzardai ad alzare il viso perchè aveva ragione: lì rischiavo parecchio, ma non avevo altro dove fuggire.
Mentre camminavo al suo fianco, ne approfittò per farmi una domanda.
«Chi è rimasto nel circolo?».
Esitai per un attimo a rispondere, ma non era una domanda pericolosa. Lo era la risposta.
«Io, Chuck, Alex, Jason ed Hector».
Restò altri secondi in silenzio, poi disse: «scommetto che ce l'hai dietro, vero?».
Annuii con la testa, e con una mano colpii il borsone, indicandogli che il tutto era lì dentro.
«Perfetto. Senti, starai in un mio vecchio appartamento, pagherò tutto io dato che è intestato a me. Non ti troverà nessuno».
«Grazie di cuore, Stefan, davvero».
«Farei di tutto per un amico» rispose lasciandomi scorgere un suo sorriso, anche da sotto il cappuccio, e io ricambiai.

 

Non fu difficile continuare in quello stato fino all'arrivo all'appartamento, schivando il più possibile vigili, sicurezza, amici e conoscenti di Stefan, e anche persone comuni.
Salimmo un bel po' di scale fino a raggiungere il quinto pianto della palazzina che era collocata in periferia; meglio per me. Lui invece aveva una villetta a stile moderno quasi in pieno centro.
Mi aprì la porta con velocità e mi invitò ad entrare. Mi tolsi il cappuccio per ammirare la dimora già ben arredata.
«Quindi quì c'è il salotto, la cucina è collegata proprio quì..» cominciò a spiegare, chiudendosi la porta alle spalle e facendomi da guida. «Quì si apre una terrazza, ma già sai che meglio ne usufruirai e meglio è». Mi guardò cercando un segno di approvazione che subito dopo gli concessi. Fece retrofront per guidarmi all'inbocco del corridoio dove vi erano tre porte affilate e in fondo a tutto un'unico portone. «Quì ci sono due bagni, una stanza con due letti singoli e quaggiù trovi la camera matrimoniale, con balconcino compreso» fece indicandomi la porta finestra che dava fuori.
Approvai il tutto, era un bel posticino per una persona sola e mi sarei sicuramente accontentato.
«Non avere paura per il resto dei coinquilini. Non ci sono; sei l'unico qua. Dici che può bastare?» mi chiese poi, quasi risvegliandomi.
«Potrebbe anche avanzare» risposi sorridendo. «Ancora grazie».
«Ma figurati» disse. «Ti va se.. parliamo un po'?».
Respirai profondamente e cercai la risposta adatta. «E' il minimo, credo».
Mi condusse nuovamente al salotto con il televisore al plasma, ma non era il momento di distrarmi. Quindi mi sedetti comodamente sul sofà a isola, dove buttai il borsone, e Stefan si sedette di fronte a me, per guardarmi negli occhi.
Aveva due occhi neri, profondi e magnetici, che impedivano di svìare a qualsiasi 'che' o 'ma'. Era impossibile sconcentrarsi con una persona del genere.
A gambe aperte, i gomiti poggiati sulle ginocchia, le mani incrociate come in segno di preghiera e la sua testa bassa, con le labbra che sfioravano i pollici.
«Avanti, spiegami» disse.
«Cosa vuoi sapere?».
Mi fissò nuovamente negli occhi, evitando di farsi scappare una risata ironica. «Beh, tutto direi» ammise. Annuii e aprii la bocca nel tentativo di cominciare a far uscire qualche parola, ma in quel momento mi interruppe subito, come se si fosse dimenticato di chiedermi una cosa. «Aspetta, posso vederla?».
Sapevo già a cosa si riferisse e, ancora a labbra serrate, mi voltai verso il borsone, feci scorrere la zip e aprii la grande tasca dove vi era l'oggetto interessato.
Infilai una mano e appena sentii il contatto con la plastica dura, l'afferrai e la tirai fuori, tenendomela ancora per un po' tra le mani, come per analizzarla di nuovo. Poi la diedi finalmente a Stefan, che se la rigirò minimo sei volte tra le mani prima di dire qualcosa.
«E' questa la maschera?» chiese, incredulo.
Scossi la testa e incrociai le dita proprio come lui. Gli copiai la posa precedente; era alquanto comoda.
Lo osservai mentre studiava la maschera bianca di plastica, priva di adornamenti, se non di un semplice tratto dorato vicino l'occhio destro. Fece scorrere il pollice lungo l'elastico nero che serviva a tenerla ben salda al viso.
«Sto aspettando. Quando comincerai a parlare?» mi spinse a dare spiegazioni, mentre non riusciva a distogliere lo sguardo da quell'affare. Ma era anche vero che senza i suoi occhi incollati su di me, mi sentivo più scorrevole nel discorso.

 


Non mi fui mai sentito più ingabbiato di allora. Mai più vuoto e privo di ogni emozione. Quando raccontavo la storia di quella maschera, raccontavo la mia storia, e quella dei miei compagni.
A metà discorso il mio desiderio fu interrotto e Stefan posò una volta per tutte la maschera sul tavolino e tornò a fissarmi con occhi indagatori. Da lì la mia voce aveva cominciato a tremare e lui lo percepiva, quindi spesso fissava il pavimento o una parete.
Non riuscii a fare a meno di non percepire i suoi respiri profondi quando toccavo certi temi e raccontavo nei particolari.
Mi sentii quasi libero a fine discorso, nel momento in cui si alzò per congedarsi e lasciarmi un po' lì da solo, e mi avrebbe fatto bene. Avevo bisogno di spazio, anche se lui era stato molto gentile a farsi in quattro per me e decidere di prendersi la responsabilità di tutto, anche dei pagamenti.
Mi promise che sarebbe tornato dopo qualche ora per assicurarsi che anche durante la notte sarei stato al sicuro e a riposare un po'. Ma non passarono più di due ore che fu subito di ritorno, bussando a colpi forti alla porta.
Per un attimo esitai ad aprire, ma quando mi urlò da fuori: «sono io, apri!» decisi di farlo davvero.
Entrò alla svelta e si chiuse subito la porta alle spalle, mentre teneva un pezzo di carta tra le mani.
Quando poi gli chiesi di cosa si trattasse, mi fissò prima nuovamente negli occhi, poi, ricordandosi della soggezione che mi provocava, pose una fotografia come barra di protezione tra il mio e il suo sguardo.
«Ti hanno scattato una foto!» esclamò a voce bassa.
«Com'è possibile?!» chiesi, quasi come in un attacco di sclerosi, prendendo la foto tra le mie mani. Ritraeva me, il mio cappotto, il cappuccio sulla testa, il borsone, e stavo sorridendo. Al mio fianco c'era Stefan che ricambiava il sorriso.
"Qualcuno ha sentito quei nomi" pensai a denti stretti.
«Dove l'hai presa? Chi l'ha fatta?» cominciai a domandare, togliendomi di dosso quella roba dalla vista.
«Me l'ha data una ragazza» rispose, quasi sussurrando.
«Quale? Chi è?» avrei continuato a sparare domande simile come una macchinetta rotta.
«Non la conosco, mi ha detto di averla trovata sul pavimento della stazione e avendomi riconosciuto nella foto ha pensato fosse mia, così me l'ha 'restituita'».
«Sei sicuro che non l'abbia scattata lei?».
«Non me l'avrebbe di certo riconsegnata».
«Non significa niente!» non mi accorsi che la mia voce era aumentata quasi di un'ottava, e con Stefan proprio non potevo comportarmi così. Ero in debito con lui. «Potrebbe aver finto e avere delle copie» continuai sotto voce.
«Ma non avrebbe senso lo stesso! Pensaci: avrebbe fatto delle copie da tenere con sè e ce ne avrebbe data una per farsi 'scoprire'?».
Non risposi, cercai di riflettere su quella possibile situazione, su quella ipotesi, su quel ragionamento montato in aria. Ma non avevo il tempo di pensare; dovevo giungere la fonte al più presto.
«Ho bisogno di questa ragazza» sbottai poi, nel silenzio di riflessione.
«Justin, non ricordo nemmeno com'è fatta».
«Stefan» dissi, cercando di demolire per un attimo il timore del suo sguardo, «devo avere quella ragazza, subito».
Le mie labbra quasi tremarono nel pronunciare quelle parole di 'asservimento'.

 

  
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