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Autore: Lisa_Pan    19/02/2013    3 recensioni
“Ora che ci ripenso, non credo di aver surfato granché quel giorno. Ricordo che ero là fuori. Non ricordo le onde che ho cavalcato. E, sai, i surfer ricordano sempre le loro onde. Non ne presi nemmeno una quel giorno… beh, una sì, enorme.”
Eddie
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Moma-Son


Moma-Son

13 Settembre 1990

Sta seduto su uno sgabello con il mento poggiato al bancone e il bicchiere di plastica tra i denti. Ascolta il nastro per la terza volta e, subito dopo, una quarta. Ascolta il primo riff di chitarra e reprime un grido in gola. Un grido roco, gutturale, primitivo. E’ lento e diventa via via più incalzante, sembra scandire parole, dividerle in sillabe. La batteria segna la distanza tra una parola e l’altra, come punteggiatura, una virgola, un punto. E poi il basso a calcare gli accenti.

Si versa dell’acqua e rigira la cassetta. Di nuovo, da capo. Parola, parola, virgola; accento sul secondo accordo, accento sul terzo e un punto alla fine. La seconda chitarra entra fluida tra il punto e l’a capo con una storia da raccontare; deve premere le mani sulle cuffie per sentirne i sospiri straziati e spalanca gli occhi quando un grido rischia di perforagli i timpani.

E’ già scritta una canzone su quelle note; ha il testo in mente e il quaderno aperto sotto il gomito. La penna nera, senza tappo, gli macchia la pelle bruciata dal sole della California. Prova a scrivere qualcosa e finisce per disegnare un’onda sull’angolo basso della pagina quadrettata; osserva la curva morbida chiudersi su se stessa e immagina della schiuma lì dove la punta della penna si è improvvisamente bloccata, incapace di andare avanti. Ha bisogno di entrare in acqua, cercare le parole giuste scivolando sulla tavola e ingurgitando sale e spuma e riempiendo i polmoni di ossigeno liquido.

Chiude il quaderno e si alza dallo sgabello, il turno è finito e si chiude la porta alle spalle.

14 Settembre 1990

Ha riascoltato i pezzi prima di entrare in acqua, seduto sulla sabbia dorata e guardando l’oceano. C’è solo lui, così prende tempo e scavalca la prima onda, l’ultima della prima batteria, e aspetta, steso con la schiena sulla tavola ruvida di paraffina.  Il cielo grigio non lo vede nemmeno, come non riesce a distinguere le onde che arrivano; ci saranno scarsi sei metri di visibilità ma non riesce a distinguere il suo palmo alla distanza di un braccio dal naso. Può solo aspettare.  Aspetta. Chiude gli occhi e riascolta nelle orecchie il primo accordo e poi quel grido, nasce dal petto e scoppia nella gola e grida. Grida forte, spaventando un gabbiano e sorprendendo se stesso. I capelli lunghi gli ricadono sugli occhi e lentamente concentra la sua attenzione su quell’onda che si crea in lontananza, ne sente il ruggito e si tende verso l’orizzonte, cominciando a remare. Affonda le braccia nell’acqua; ad ogni bracciata una parola. Le sussurra e a tratti le grida, si alza in piedi e prende la sua prima onda mentre un ritornello, il primo, gli muore in gola in un gemito soffocato che lo fa scivolare e cadere in acqua.

La seconda lo travolge e non oppone resistenza, si sente trascinare giù insieme alla tavola, il laccio che stringe intorno alla caviglia, i polmoni che si riempiono, i capelli che lo avvolgono e il suo elemento che lo culla dolce, sempre più a fondo. Ed è lì, in quel blu pesto, che un frame illumina lo stomaco dell’oceano e si accorge della spuma che lo circonda. E’ riemerso e vomita liquidi, note e immagini che si perdono in quel muro denso di nebbia umida. Si guarda intorno e con il mento sulla tavola sussurra una sola e rassegnata parola: Alive. E’ più una sensazione legata al peso di un ricordo, di una mancanza, un vuoto al centro del proprio codice genetico, molto più intimo e radicato delle sue stesse paure.

E rimonta e aspetta e questa volta la vede e ci si butta contro. Carico di aspettativa, carico di rabbia, rema contro un muro d’acqua alto due o tre volte la sua figura minuta. Stringe i pugni e si fa forza sulle ginocchia e all’ultimo, solo all’ultimo, vira bruscamente la punta della tavola e scivola fulmineo lungo il fianco dell’onda; ne disegna i contorni e affonda le mani lungo tutta la parete, lacerando la superfice liscia e perfetta da cui sgorga sangue bianco e schiumoso. Si accarezza il mento e porta le dita alle labbra che assaporano curiose la ferita dell’oceano, mentre gli occhi osservano l’onda accartocciarsi e morire divorata dalla nebbia.

E tutto torna chiaro, le parole diventano frasi con punteggiatura e accenti e, fluide, confluiscono tutte in quella piccola gabbia che diventa storia e che non smette di raccontare a se stesso e alle onde e a quel muro grigio che gli impedisce di vedere e di ascoltare. Come isolato, come rinchiuso, come esiliato dal resto del mondo. Solo lui e le onde, lui e le canzoni già scritte, solamente da riscoprire e incidere su un nastro.

E’ in piedi, le dita ancora immerse nell’oceano e guarda l’orizzonte umido e denso e cerca di ricordare quell’onda. Enorme, liscia, perfetta e… ferita. E’ andato al largo, molto più al largo del solito, si è perso per minuti interi dimenticando se stesso e tutto il resto, in mente una melodia e tre testi differenti nati per essere letti ed ascoltati come uno. Raccolti dal ventre dell’oceano e riportati in superfice da un paio di braccia che non hanno mai smesso di remare sempre più lontano, sempre più a fondo di quel muro grigio, cantando una storia che sa tanto di ricordi e rabbia e rimorso.

Ed è soddisfatto, talmente soddisfatto che corre a casa, si chiude la porta alle spalle e afferra il quaderno nero cominciando a scrivere ciò che ha cantato quella mattina al centro di quell’onda disegnata con l’inchiostro nero sulla pagina bianca.

Alle quattro sono già pronte e chiuse in un pacco, dirette a Seattle senza possibilità di ripensamenti.

“Jack. Sì, ho appena inviato la cassetta e i testi. Ci ho messo anche il mio numero, nel caso volessero richiamarmi, non si sa mai.”

“Ora che ci ripenso, non credo di aver surfato granché quel giorno. Ricordo che ero là fuori. Non ricordo le onde che ho cavalcato. E, sai, i surfer ricordano sempre le loro onde. Non ne presi nemmeno una quel giorno… beh, una sì, enorme.”

Eddie

***

Io-ho-un-fottuto-terrore-a-pubblicare-in-questo-fandom.

Non mi sento per nulla all'altezza, forse perchè Eddie è Eddie e i Pearl sono i Pearl e non è che tu possa dire molto di loro. Cioè c'è un fottio di roba da dire ma qualsiasi parola scegli ne riduce il valore quindi fai silenzio e lasci perdere e rimandi alla prossima e alla prossima e alla prossima ancora. Però poi ti viene voglia, cioè ti compaiono davanti certe immagini che proprio non puoi farti scappare e. bam, ecco che hai già due pagine di Word piene, anche se alla fine non ti soddisferà mai totalmente perchè quello che pensi è sempre troppo, sempre tutto, sempre inadatto a quello che esce fuori.

Però ecco ci ho provato. C'è Eddie, c'è il miosuo oceano e ci sono Alive, Once e Footsteps che nascono dalla nebbia e finiscono in una cassetta della posta.

So, vi saluto e che Eddie sia con voi, sempre!

Lis

   
 
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