POSSIBILITY.
Draco Malfoy, la
schiena appoggiata al grosso tronco di un albero centenario che aveva
sopportato i fardelli di un numero incalcolabile di maghi adolescenti,
contorceva fra di loro le mani, l’ansia che gli premeva nello
stomaco. Aveva
anche lui un fardello, aveva anche lui delle paranoie, era anche lui un
adolescente, sebbene volesse negarlo, sebbene si mostrasse sempre forte
e
superiore agli altri. Ebbene sì, rivelazione del secolo:
Draco Malfoy era un
ragazzo triste, complessato inutilmente e innamorato come tutti gli
altri. Era
proprio quello, il peso che si sentiva nello stomaco: il peso della
cotta
colossale che si era preso per una ragazza, il peso per il fatto che
non
potesse dire a nessuno chi fosse lei – rabbrividiva a dirlo
anche a sé stesso,
nel posto apparentemente sicuro che era la sua mente –, il
peso
dell’umiliazione e della pressione che il suo cognome gli
metteva sul collo,
ogni secondo e minuto della sua miserabile esistenza.
Era un Malfoy, un
maledetto, codardo, Malfoy. E non c’era nessuna
possibilità che potesse
cambiare il suo cognome, né tantomeno i suoi geni. Era
destinato ad essere
com’era per tutta la vita, anche se non lo voleva, se non si
andava bene. Non
c’erano possibilità per lui, e nemmeno per
quell’amore che sentiva crescergli
dentro. E non gli importava più se le uniche occhiate che
lei gli lanciava
erano colme di disprezzo, se lo odiasse con tutto il cuore per tutte
quelle
volte in cui l’aveva offesa, l’aveva trattata male
e fatta piangere, per tutte
quelle volte che le leggeva negli occhi e nei lineamenti del viso che
aveva
bisogno di aiuto e lui cambiava strada, magari lanciandole anche un
sorriso
antipatico prima di scomparire e sentirsi un verme. Perché
non c’era nessuna
possibilità che Draco Malfoy
e Hermione
Granger potessero essere una cosa sola.
Si
alzò, il mantello e
i pantaloni inumiditi dall’erba su cui era seduto, e raccolti
i libri da terra
si incamminò verso il castello, l’aria che
prometteva pioggia e gli pungeva le
guance. Andava lentamente, godendosi quei momenti di solitudine. Era
davvero
stanco dei suoi amici, tutti così ignoranti
e seccanti. Credeva davvero che facendo sbattere fra loro le teste di
Tiger e
Goyle queste sarebbero suonate a vuoto. Per non parlare di Pansy, che
continuava a intrufolarsi in camera sua ogni sera, per uscirne poi
amareggiata
a causa dei suoi rifiuti. Era stato diverte per un po’
giocare con lei, con il
suo corpo minuto e magro. Era una buona valvola di sfogo, alla fine di
giornate
pesanti di studio, o dopo qualche allenamento di Quidditch
insoddisfacente. Ma
niente di più. Non era minimamente attratto da lei, erano
altre, le ragazze che
gli interessavano.
“Ad
esempio una mezzosangue dai capelli ingestibili,
un’intelligenza superiore alla
media e una voce irritante”,
disse una vocina dentro la testa di Malfoy, che identificò
come la sua
coscienza. Si morse la lingua e borbottò qualche
imprecazione.
Incupito
fulminò
chiunque osasse incrociare il suo sguardo, finché, imboccato
il corridoio che
portava ai sotterranei, verso la Sala Comune dei Serpeverde,
sospirò forte e si
addossò ad un muro, premendosi le tempie e ignorando le voci
sprezzanti dei
quadri. Non potevano starsene un po’ zitti, decrepiti e
polverosi com’erano? Rimase
in quella posizione per un po’, poi sentì dei
passi avvicinarsi e corse nella
sua stanza, chiudendosi la porta alle spalle. Si gettò sul
letto e chiuse gli
occhi esausto, cercando di smettere di pensare. Ci riuscì:
si addormentò come
un sasso, nel giro di cinque minuti appena, incurante della montagna di
compiti
che gli spettavano per il giorno dopo.
L’unica
cosa che vedeva
guardandosi allo specchio erano quei maledettissimi capelli crespi. Non
c’era
modo di farli stare come voleva lei, non ci era mai riuscita nemmeno
sua madre,
regina indiscussa delle trecce. Si disse che aveva perso già
anche troppo
tempo, e che nessuno avrebbe fatto caso a quel nido di vespe che si
ritrovava
in testa, perché era sempre così che stavano i
capelli di Hermione Granger: da
schifo.
Con le spalle
curve per
la frustrazione, scese nella Sala Comune, dove trovò Harry e
Ron presi in una
accesa battaglia di scacchi magici. Non fece loro caso, ormai
considerandoli un
caso perso, e uscì dando la parola d’ordine alla
Signora Grassa. Girovagò per i
corridoi, assecondando i suoi pensieri: talora si fermava a guardare
fuori
dalla finestra, con la voglia di farsi una corsa in giardino, ma le
sembrava il
cielo si stesse facendo di uno strano colore, e non aveva voglia di
inzupparsi,
per quanto trovasse la pioggia simpatica e piena di poesia; altre volte
si
scontrava contro qualcuno, a causa della sua stra-maledetta mania di
guardarsi
i piedi. Alla fine si decise (pensando che era davvero
una persona noiosa) e si diresse verso la biblioteca. Prese
qualche libro di pozioni, e cominciò ad approfondire la
lezione di Piton che si
sarebbe svolta il giorno seguente, dedicandosi allo studio per
scacciare via
quella sensazione di pensieri muti che si trovava in testa. Le sembrava
strano,
infatti, che nessuno lì dentro parlasse, tranne quelli che
le davano della
stupida per essersi presa in ritardo con lo studio – cosa non
da lei – e quelli
che continuavano a riproporle l’immagine dei suoi orribili
capelli riflessa
allo specchio, certo. Eppure, sebbene se ne stessero muti, li sentiva
muoversi,
ma non riusciva a decifrarli, non riusciva a capire che cosa volessero
dirle.
Si disse che probabilmente stava solo diventando pazza, e stressata
com’era per
gli esami, lasciarla in pace era il minimo che la sua testa potesse
fare.
Qualche era
geologica dopo,
comunque, si rese conto che fuori aveva cominciato a farsi buio, e che
era
quello il motivo per cui strizzava gli occhi da minuti, incapace di
vedere le
parole. Decise che avrebbe finito di leggerlo la mattina successiva, in
quell’ora buca che aveva, per essere preparata al meglio
sull’elisir dell’euforia.
C’erano dei punti che stranamente le erano ancora oscuri, sul
metodo di
preparazione. Corrucciata rimise il libricino nero al suo posto, e
uscì dopo
aver cortesemente salutato Madama Pince.
Vagando di nuovo
per i
corridoi della scuola, si ritrovò a pensare per
l’ennesima volta a quanto fosse
ingiusto, il suo non essere carina. Aveva una bella pelle, quello
sì. Pallida
ma non troppo, rosata ma non tropo, un colore giusto. Il punto
è che nessuno si
innamora di te, se hai una bella pelle. Perché lei non aveva
proprio nessun
altro pregio: aveva un’altezza nella media, le gambe magre
– ma niente a che
vedere con quelle lunghe e smilze delle modelle che aveva visto nelle
riviste
babbane – ma troppo corte rispetto al busto. Decisamente le
proporzioni non
erano il suo forte, se vogliamo tener conto anche degli occhi grandi e
della
bocca sottile. La ciliegina sulla torta erano quei maledettissimi
capelli
crespi che la facevano spesso assomigliare a uno scopa di rafia, di
quelle che
si usano per spazzare i pavimenti all’esterno delle case.
Se avesse potuto
esprimere un desiderio – quante volte aveva sognato esistesse
davvero un
personaggio che usciva da una lampada magica e le desse
l’opportunità di
esprimere tre desideri, come nelle favole babbane che le raccontava la
mamma da
piccola – avrebbe di sicuro chiesto di essere più
carina e sapeva anche il
perché: voleva che qualcuno si innamorasse di lei.
Scosse la testa,
perché
non c’era nessuna possibilità per lei di diventare
carina né tantomeno che
qualcuno potesse essere, anche minimamente, interessato a lei. Nessuna
possibilità.
Lo vedeva dal suo
volto, che c’era qualcosa che non andava. Draco non sapeva
bene cosa, infine
mica la conosceva, non ci aveva mai parlato seriamente, se non per
litigare, ma
gli sembrava che attorno ad Hermione alleggiasse del vuoto. Come sei
lei, si
sentisse vuota. Era possibile? Poteva essere che lei, sempre sicura di
sé e con
la risposta pronta, si potesse sentire in quel modo, nel modo in cui la
vedeva
lui?
Avrebbe voluto
(lo
avrebbe voluto così tanto!)
chiederle
cosa c’era che non andava. Avrebbe voluto dirle che sarebbe
andato tutto bene,
anche se magari non era così. Voleva carezzarle la guancia e
farla sorridere,
magari guardarla asciugarsi le lacrime in quello strano modo in cui lo
faceva
sempre, magari asciugargliene lui qualcuna, con una ciocca dei suoi
capelli.
In un secondo si
ritrovò in piedi, le braccia lungo i fianchi, a camminare
verso il tavolo dei
Grifondoro. Sentiva degli sguardi pungere sulla schiena, e qualcuno che
lo
chiamava, ma lui non ascoltava. Non riusciva ad ascoltare proprio
niente se non
quella vocina nella testa che gli diceva “Che
cosa stai facendo?”, e il punto era che non lo
sapeva proprio, quali fossero
le sue intenzione, ma non riusciva a fermare i piedi, che lo stavano
portando
da lei.
Si
fermò dietro alle
sue spalle e la chiamò, con intanto la testa che gli
rimbombava di “Che cosa cazzo stai
facendo, Draco?”.
Era ovvio che stava per fare un casino, e l’errore
più grande della sua vita,
ma lo stava facendo e non riusciva a fermarsi, non ce la faceva proprio.
Hermione si
voltò
lentamente, perché l’aveva riconosciuta quella
voce, e si chiese di nuovo se
era diventata pazza o cosa. Draco Malfoy, i capelli biondi che
sembravano
risplendere di luce propria,
era alle sue
spalle,
impettito, che la cercava con lo sguardo.
Hermione
deglutì. «Che
vuoi, Malfoy?»
«Parlarti»,
dicendolo
fece vagare lo sguardo sugli altri Grifondoro. «Da
soli»
«Come?»
«Avevo
una mezza idea
di aprire la bocca e fare uscire delle parole, non ho ancora imparato
ad usare
la telepatia», disse cominciando ad irritarsi. Lei rimaneva
semplicemente a
fissarlo, gli occhi marroni sgranati e immobili. Allora Draco
sbuffò e le prese
un polso, strattonandola un po’, per farla alzare, e la
portò fuori dalla Sala
Grande, sotto lo sguardo stupito di tutti, professori compresi.
Appena fuori la
lasciò
andare. «Mi dispiace, ma non sembravi aver
l’intenzione di muoverti».
«No,
infatti», disse lei
dopo un po’, ritrovata la voce. «Allora?»
«Come
stai?»
Hermione
pensò di
strozzarsi. «Che cosa?», chiese con la voce che
uscì in una sorta di grido
stridulo. Stava per caso sognando? Era vittima di qualche pozione che
Ron le
aveva messo nel bicchiere di succo di zucca? No, no di sicuro, era un
tale
zuccone.
Lui la
guardò
sprezzante e sbuffò. «È evidente che
non ti hanno insegnato la nostra lingua da
piccola e che ho fatto male a pensare che avessi qualcosa che non
andava. Ci
vediamo, Granger».
Fece per andare,
sentendosi davvero uno stupido, ma la voce di lei lo fermò.
«Sto bene». Lui si
voltò di nuovo. Era sicuro stesse mentendo, quindi se ne
rimase in silenzio.
«Perché lo vuoi sapere, comunque?».
«Non
sembrava».
Hermione alzò le spalle, un nodo che le si formava in gola e
che stava
rischiando di farla piangere. Ma non l’avrebbe fatto, non
davanti a quella
serpe di Malfoy. Stava di sicuro organizzando qualcosa con i suoi
amichetti, ma
lei non i sarebbe cascata. «Incontriamoci stasera fuori della
biblioteca, ho
una cosa da farti vedere».
«Non
infrangerò le
regole per incontrare te, al buio, pronto a farmi qualche
scherzo»
Draco strinse le
mani a
pungo, lungo i fianchi, chiuse gli occhi e buttò fuori
l’aria dal naso. «Ti
prego, fidati», disse, la voce stanca. Poi aprì
gli occhi, e erano così azzurri
da sembrare di vetro.
«Non
posso farlo, non
posso fidarmi di te, Malfoy».
Lui
sospirò e annuì.
«Come preferisci, io ci ho provato. Ti aspetterò
comunque. Davanti alle porte
della biblioteca a mezzanotte». Le diede l’ultima
occhiata e rientrò nella
sala, e sedutosi al suo posto riprese a mangiare, ignorando le domande
dei suoi
compagni.
Hermione non fece
lo
stesso: scappò in camera sua, il cuore che le batteva
all’impazzata, la testa
piena di dubbi.
A mezzanotte e
tredici,
come segnava il suo orologio da taschino – quello di suo
nonno, che gli aveva
lasciato alla morte – nessuno si era ancora presentato.
Dracò capì che lei non
sarebbe venuta, che non era riuscito a farla fidare di lui. “Che cosa ti aspettavi?”
Si aspettava ci
fosse una possibilità, che avesse sentito il suo cuore
fermarsi quando le
parlava, che avesse capito quanto fosse stato difficile per lui aver
fatto quel
gesto davanti a tutti, che avesse capito che era lui, che si sentiva
vuoto,
perché non aveva lei. Ma era evidente che non aveva capito
un bel niente, e che
la realtà fa molto più schifo delle aspettative.
Lasciò
il libro che
aveva portato con sé vicino alla colonna ai lati delle
grandi porte della
biblioteca. Magari qualcuno l’avrebbe trovato e bruciato. Non
gli interessava
più. Non gli interessava più nulla tranne fumarsi
una di quelle sigarette che
Nott era riuscito a rubare da un qualche babbano, mesi prima.
Hermione
sgusciò fuori
dal letto, ancora vestita, e mentre con una mano si infilava il
mantello, con
l’altra impugnava la bacchetta e la Mappa Del Malandrino,
presa in prestito –
spudoratamente rubata dal baule sotto il letto – da Harry
quel pomeriggio. La
Signora Grassa le aprì per dovere, non senza parecchie
lamentele circa l’ora e
le punizioni che le sarebbero state assegnate se fosse stata beccata,
ma lei la
zittì con un shh ricco
di
significati, e si lasciò la Sala Comune alle spalle. Le
gambe le tremavano, e
non sapeva se era per il fatto che stava infrangendo un milione di
regole che
si sarebbero trasformate in un mucchio di
punti in meno ai Grifondoro, o per il fatto che si stava fidando di
Malfoy. Incespicò
un po’ di volte sui suoi stessi passi, poi decise che
così non poteva andare
avanti. «Avanti Hermione, ormai sei uscita. Lumos».
Prese a camminare più velocemente, e raggiunse la biblioteca
in fretta, senza
incrociare – controllando la mappa ansiosamente ogni cinque
secondi – nessun
professore, nessuno studente, e nemmeno
Miss Purr, quell’odiosa gatta. Le sembrava stesse andando
tutto troppo bene.
Pensiero fondato, dato che quando giunse sul posto concordato nessuno,
tantomeno Malfoy, la stava aspettando. Si lasciò cadere a
terra, appoggiando le
spalle alle porte. Come non aveva fatto a non notarlo nella mappa, quel
piccolo
particolare, il fatto che non ci fosse proprio
nessuno sveglio e nei paraggi? L’ansia di essere
scoperta, ovvio. Era
proprio una stupida, cretina, inutile zucca vuota! Aveva voglia di
prendersi a
schiaffi, o di sbattersi la testa contro il muro. Tutta
l’intelligenza di cui
era dotata dove l’aveva lasciata, di preciso? Si rese conto
che stava piangendo
perché si odiava così tanto. Alzandosi
barcollò, e per non cadere si aggrappò
all’inutile colonna che si trovava lì, vicino alla
porta della biblioteca. Le
sue dita sfiorarono qualcosa: un libro dalla copertina nera e
consumata. Nel prenderlo
fece cadere dei fogli. Fu quando si abbassò per raccoglierli
che capì: era la
cosa che Malfoy voleva mostrarle. Vi inserì i fogli sparsi,
e raccattate tutte
le altre cose che si era portata a presso, corse verso la sua stanza,
alla
ricerca della sicurezza del suo letto e del buio sotto le coperte, dove
poteva
leggere quelle che, con quella prima occhiata, le sembravano delle
poesie.
“Sei
come il fiume che mi fa tornare a casa quando mi sono perso, sei come
un fiume.
Sei
come un fiume selvaggio, selvaggi sono i tuoi capelli.
Sei
come un fiume profondo, profondo come i tuoi occhi.
Sei
come un fiume che scorre forte, forte come le tue lacrime.
Sei
come un fiume per me, e io non faccio altro che seguirti.
Sei
come il solo fiume che mi fa tornare a casa quando mi sono perso,
quando
mi sono perso dentro la mia testa,
quando
mi sono perso e sono io a non essere forte,
a
non essere selvaggio e ribelle e coraggioso,
a
non essere”
Faceva vagare la
bacchetta irradiante luce su e giù per quei fogli, da sotto
le coperte, nella
posizione più comoda che era riuscita a trovare. Da quello
che poteva vedere,
era una specie di diario. Un diario per le poesie. Hermione
notò, dalle date e
le ore appuntate agli angoli dei fogli, che le scriveva soprattutto
durante la
notte, notte fonda. A eccezione di qualcuna, scritta durante le
lezioni, o sul
tardo pomeriggio. Si ricordò che a volte l’aveva
scorto seduto all’ombra di un
albero, giù vicino al lago, tutto solo. Erano indubbiamente
scritte bene,
curate, riviste e corrette. Le passò per la mente che forse
scrivere lo faceva
stare bene come a lei leggere. Doveva essere così.
Le
passò per la mentre
anche il pensiero che fosse innamorato, e si fermò ad
alleggiarle al livello
della fronte. Continuava a chiedersi perché diavolo voleva
farglielo vedere. E
soprattutto perché diavolo l’avesse lasciato sopra
a quella colonna, dove
tutti, una volta giorno, avrebbero potuto trovarlo. Li dentro
c’erano tutti i suoi
pensieri, i sentimenti che, anche dopo essere arrivata
all’ultima poesia,
Hermione pensava non provasse. Le era sempre sembrato una persona spregevole. Magari non le aveva neppure
scritte lui, quelle poesie, e lei aveva frainteso tutto. Chiuse il
libro e lo
poggiò sul comodino, decisa a riconsegnarlo al proprietario
il giorno seguente.
«Complimenti».
Hermione
era stata ore a torturarsi per decidere come e quando avesse dovuto
restituirgli il diario, per poi arrivare alla conclusione che in ogni
caso tutti
avrebbero saputo che si erano incontrati, specie dopo
l’episodio del giorno
prima. In quella scuola erano tutti dei gran pettegoli, nessuno si
faceva mai
gli affari propri, e se succedeva, ci pensava Pix. Ergo, appena aveva
scorto
Malfoy seduto su una panchina a ripassare chissà quale
materia, gli si era
avvicinata, e gliel’aveva appoggiato affianco.
«Come…
sei venuta? Ieri
sera, intendo»
Lei
annuì, abbassando
lo sguardo. «Immagino te ne fossi già
andato»
«Hai
trovato comunque
quello che volevo mostrarti, quindi»
Hermione lo
guardò e si
morse un labbro. «Perché volevi lo
leggessi?». Improvvisante, Draco, non seppe
che cosa dire. Certo, avrebbe voluto dirle che quelle poesie erano
dedicate a
lei, ma si sarebbe reso troppo vulnerabile. Cosa che comunque ormai
sembrava
fare sempre, in sua presenza. Accidenti a te, Draco. Riuscì
solo a stringersi
nelle spalle. «Alcune sono molto belle». Rimase
impettita per alcuni secondi.
«Ora
ho lezione». Gli voltò le spalle e si
incamminò, pensierosa. Forse non aveva
risposto perché, come aveva ipotizzato, non era stato lui ha
comporle. Ne era
quasi certa. Finché non sentì che la chiamava. Di nuovo.
«Aspetta»
Hermione non ce
la
faceva più. «Senti, Malfoy, che cosa ti sta
succedendo? Tu sei uno stronzo con
tutti, ed è da quando mi hai visto per la prima volta che mi
insulti dicendomi schifosa mezzosangue.
Ora o ti sei
bevuto il cervello, o ti sei bevuto il cervello, perché io
sono ancora una
schifosa mezzosangue, e tu, Draco Malfoy, purosangue discendente da due
famosissime stirpi di maghi, non parli con quelli come me».
Aveva detto anche
una parolaccia o se l’era immaginato? Vai così
Hermione, sembri quasi sicura di
te. Il punto era che Draco le stava sorridendo. «Che
c’è?»
«Alle
cinque alla Gufiera,
cerca di essere puntuale, questa volta». E se ne
andò, di nuovo, dandole
un appuntamento. Draco Malfoy aveva deciso di farla
uscire pazza e si era bevuto il cervello. Si era di sicuro bevuto il
cervello. O
forse era solo innamorato?
Avrebbe tanto
voluto
appoggiarsi alla balaustra, ma un briciolo di intelletto per capire che
non era
il caso di farlo, era rimasto nella testa di Hermione. Si
limitò quindi a
guardare il paesaggio da li su, e a osservare lo stile di vita dei gufi
che le
giravano attorno. Quando cercò di accarezzarne uno, questo
la morse. Maledetto gufo.
Aveva deciso di
arrivare in anticipo, anche se questo agli occhi di Malfoy avrebbe
potuto
significare che lei era interessata. Che poi lei era interessata, anche
se non
sapeva bene a che cosa. Rimaneva il fatto che era nervosa e si sentiva
i
pensieri muti di nuovo e il mal di stomaco. Quell’agonia
sarebbe finita prima o
poi? No, sei un’adolescente,
scimmiottò la sua testa. Davvero simpatica.
«Sei
venuta».
Sussultò
nell’udire la
sua voce, ma si voltò e annuì.
«Certo»
«Volevo
farti vedere
questa». Le porse un foglietto, strappato da quel suo diario
nero. Vi erano
delle parole scritte, un’altra poesia.
“C’è
una possibilità
che
ti stia dando,
c’è
una possibilità che ti stia dando la mia vita?
C’è
una possibilità
che
io stia cadendo,
c’è
una possibilità che io stia cadendo dentro i tuoi occhi?
C’è
la possibilità che il mio sangue si sia gelato,
che
il tuo sangue non sia sbagliato?
C’è
la possibilità che io e te,
che
te e io,
che
noi mi pare si dica noi,
possiamo
essere uguali essendo così diversi?
Perché
c’è la possibilità che io voglia essere
come te,
se
questo implica che starai con me”
Sul momento, le
mancò
il fiato. Prese un po’ d’aria.
«È molto bella. Le scrivi tu, quindi»
«Certo
che le scrivo
io. Chi pensavi lo facesse?»
«Io non
pensavo proprio
niente»
Draco sorrise.
Era follemente innamorato di lei.
Specialmente
quando sembrava lo odiasse – cosa che con molta
probabilità era la verità –,
perché
sentiva dell’energia uscirle dal corpo, e scagliarsi contro
di lui. Alzò le
braccia, in segno di resa. «Quale ti piace di
più?»
Hermione si morse
il labbro inferiore,
pensandoci su. «Questa, quella che hai appena letto»
«Perché?»
«Penso…
penso…»
«A cosa
pensi, Hermione?»
Per tutti i
cappelli di Merlino, l’aveva
chiamata per nome? Davvero?
«Penso
che tu sia innamorato»
La mascella di
Draco si contrasse e i
pugni lungo i fianchi si chiusero. Ora era vulnerabile. Molto
vulnerabile,
troppo vulnerabile. Rilassò le braccia, e lentamente si
avvicinò a Hermione. Lei
rimase immobile, incapace di fare qualsiasi cosa. Lui
appoggiò una mano sulla
sua guancia, sempre più calda e sempre più
colorita, e poi le baciò le labbra. Si
allontanò di qualche millimetro e sussurrò
«C’è
la possibilità che il mio sangue si sia gelato, che il tuo
sangue non sia
sbagliato?»
«Sono
una schifosa mezzosangue, il mio
sangue è sbagliato, per
te»
«Non
è giusto»
Rimasero in
silenzio, a guardarsi uno
a pochi centimetri di distanza dall’altra. «Ti sei
innamorato di me?». Draco annuì,
il nervosismo di nuovo in volto.
«Perché?»
«Mi
sento a casa, quando vedo i tuoi
capelli»
«I miei
capelli sono orribili», disse
corrucciata Hermione.
«Sei
coraggiosa»
«Sono
una Grifondoro»
Draco non sapeva
che cosa rispondere,
e di certo non le avrebbe detto a voce alta che sì,
la amava. Le prese in mano una ciocca di capelli. «Mi sento a casa, quando vedo i tuoi capelli,
quando vedo che sorridi, quando vedo che mi odi»
«Sei
tu, che ti facevi odiare»,
balbettò lei.
«Facevi?»
Hermione sorrise.
Note.
Probabilmente mi
sono
bevuta io il cervello, altro che Draco. Era da secoli che volevo
scrivere
qualcosa relativo al mondo di Harry Potter, e ultimamente ho questa
ossessione
viscerale: le Dramione. Oggi dovevo studiare questi tre capitoli di
chimica,
sapete, ma non ne avevo alcuna voglia, ed ecco che esce
questa storia. Per altro,
è lunga sette pagine. Ora voi direte: e allora? E allora io
non ho mai scritto
nulla di più lungo di tre pagine. Mi sento Dio in questo
momento.
Comunque, lo
scopo di
queste note, era quello di dirvi che le due poesie (sì,
ultimamente scrivo
anche poesie, checosamistasuccedendo) sono ispirate a due canzoni: Possibility e I Follow
Rivers di Lykke Li di cui sono innamorata da circa due
annetti.
Niente, direi che
mi
farebbe molto piacere se qualcuno
di
voi recensisse questa cosa, tanto per sapere se devo darmi
all’ippica o se in
futuro potrò scrivere di nuovo ispirandomi al mondo di
Harry.
Mi eclisso. Love
always,
Deborah.