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Autore: Shari Deschain    22/02/2013    8 recensioni
Sul retro della busta, in una scrittura corsiva nera e piena di svolazzi, ci sono entrambi i loro nomi. Ed è questo che la sorprende di più, a dire il vero.
Non le servono le capacità deduttive di Sherlock per capire che è un invito ad un qualche tipo di evento mondano e, siccome lei non ha amicizie di quel genere, non è certo qualcuno di sua conoscenza ad averli invitati. Quindi quello che non capisce è, prima di tutto, chi tra le conoscenze di Sherlock potrebbe sapere abbastanza di lei al punto da includerla in un invito del genere e, in secondo luogo, chi mai, conoscendo Sherlock, potrebbe ritenere una buona idea invitarlo ad una festa.
Genere: Fluff, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Pairing/Characters: Sherlock Holmes, Joan Watson
Rating: G
Warnings: Gen, Fluff, post 2x16 ma nessuno Spoiler.
Word Count: 2078 (fdp)
Disclaimer: Niente di mio, non ci cavo un euro.
N/A: Scritta per il COWT#3 @ maridichallenge, missione #3, prompt “L'essenziale” (notare la mia fantasia per i titoli, prego), e per 500themes_ita, prompt #80. Dietro i sorrisi.




L'essenziale






Se la ritrova tra le mani quando va a prendere la posta quella mattina, in pigiama e a piedi nudi, con una tazza di tè in mano: è una busta raffinata, fatta di carta rigida e finemente decorata, sicuramente molto costosa, che non può non spiccare in mezzo a tutte le altre ― perlopiù bollette e la solita pubblicità di viaggi o di sconto per detersivi. 
Sul retro della busta, in una scrittura corsiva nera e piena di svolazzi, ci sono entrambi i loro nomi. Ed è questo che la sorprende di più, a dire il vero.
Non le servono le capacità deduttive di Sherlock per capire che è un invito ad un qualche tipo di evento mondano e, siccome lei non ha amicizie di quel genere, non è certo qualcuno di sua conoscenza ad averli invitati. Quindi quello che non capisce è, prima di tutto, chi tra le conoscenze di Sherlock potrebbe sapere abbastanza di lei al punto da includerla in un invito del genere e, in secondo luogo, chi mai, conoscendo Sherlock, potrebbe ritenere una buona idea invitarlo ad una festa.
Una festa in maschera, addirittura, scopre poi, una volta aperta la lettera.
Rimane a fissarla per un po', tanto che la tazza di tè le diventa tiepida tra le mani, poi si avvia a grandi passi verso il salone, dove il forte rumore di ferraglia le annuncia che Sherlock sta risistemando i suoi lucchetti per l'ennesima volta.


Sherlock guarda il cartoncino dell'invito come altri guarderebbero la fotografia dettagliata di un'autopsia, e sebbene Joan non ne sia stupita, non può fare a meno di esserne divertita. Un istante più tardi, però, si rimprovera per quella macabra similitudine. Lavorare con Sherlock ha sicuramente anche dei brutti effetti, e questo ne è uno.
«Qualche idea su chi l'abbia inviato?», domanda Joan, sorseggiando quel che resta del suo tè ormai freddo.
«Forse.»
Joan alza gli occhi al cielo.
«Credi che sia un caso?», domanda ancora.
Sherlock alza lo sguardo dal cartoncino a lei, e la fissa con un'espressione che potrebbe essere interrogativa ― con Sherlock non si può mai essere sicuri di niente ― stampata sul volto.
«Perché pensi che lo sia?», chiede lui a sua volta, grattandosi un lato della testa.
«Be', perché è un invito misterioso ad una festa in maschera, ed è rivolto a te», risponde Joan.
«Magari hanno semplicemente sentito parlare delle mie doti di grande intrattenitore e vogliono avere la possibilità di incontrarmi di persona.»
Joan alza un sopracciglio.
«O magari no», ammette Sherlock.
«Quindi è un caso», ripete Joan.
L'uomo continua a grattarsi la testa con fare meditabondo.
«Forse», ripete infine.
Joan alza di nuovo gli occhi al cielo e sospira.
«L'unico modo per saperlo è andarci, allora», conclude alla fine. E siccome non sente alcuna replica da parte dell'altro, decide di prendere il suo silenzio come un assenso. «Ci serviranno delle maschere», aggiunge poi. E sorride soddisfatta nel vedere l'espressione a metà tra orrore e disperazione di Sherlock.


Quando scende nel salone quella sera, Joan trova Sherlock conciato in un modo che non avrebbe mai e poi mai immaginato di vedere. Non nudo, no — lo ha già visto nudo una mezza dozzina di volte, suo malgrado, e comunque ormai è abituata a vederlo andare in giro in vari stati di seminudità, quindi non ci fa nemmeno più troppo caso.
Sherlock ha addosso uno smoking.
«Ti sei mascherato da persona civilizzata?», domanda Joan, ancora ferma sull'ultimo gradino per la sorpresa.
Sherlock si agita, evidentemente a disagio sia con la cravatta ― indossa la cravatta! ― sia con le scarpe lustre e rigide.
«Sono mascherato da una delle figure professionali più spregevoli che la società umana si sia mai sognata di inventare», risponde in un borbottio.
«Non ricominciare coi banchieri.»
«Va bene. Allora dirò che mi sono mascherato da James Bond.»
Joan ride.
«Quello è un semplice smoking, non una maschera. Hai barato», lo rimprovera poi.
Sherlock si volta a guardarla con le braccia incrociate al petto e un sopracciglio alzato. La squadra per quasi un minuto in quel modo, e dopo un po' Joan assume di riflesso la stessa posa.
«Cosa?», domanda infine.
Lui indica il kimono che ha addosso.
«Il mio sguardo di disapprovazione era volto a sottolineare che accusare qualcuno di barare quando si è a propria volta bari è quantomeno ridicolo.»
«È una maschera!», protesta Joan.
«È un costume tradizionale della tua cultura», obietta Sherlock.
«Vale anche come maschera.»
«Non credo proprio. Imbrogliona.»
«Di chi è la cultura in questione?»
«Potremmo sempre telefonare a tua madre e chiedere il suo parere», propone Sherlock, e il cellulare appare come per magia nella sua mano.
«Non ti azzardare!», lo minaccia Joan.
Rimangono a fissarsi per qualche secondo in ostile silenzio, poi la donna sospira.
«D'accordo, allora. Entrambi i nostri costumi sono validi. Nessun baro. Ora vogliamo andare o no, Mr. Bond?»
Sherlock sorride, poi le apre la porta e indica il taxi che li sta già aspettando.
«Non chiamarmi Mr. Bond, però», la rimbecca mentre si accomodano sul sedile, quasi come un ripensamento.
«Preferisci Signor Holmes?», domanda Joan, aggiustandosi lo chignon.
Sherlock grugnisce di nuovo, ma per tutta la serata non si lamenta più del nomignolo estemporaneo.


Il taxi li deposita sulla soglia di una grande casa coloniale e lì vengono ricevuti da un maggiordomo con una maschera da topo che li accompagna nel salone principale.
Joan si prende qualche minuto per osservare lo spettacolo delle sete e dei lampadari di cristallo, dei tappeti sontuosi e dei quadri rinascimentali, delle signore dai bellissimi costumi colorati, impreziositi da brillanti sicuramente veri, e dei signori altrettanto riccamente abbigliati. Sembra quasi il set di un film.
Al suo fianco Sherlock gioca nervosamente con i bottoni della giacca, rivolgendo alla sala la stessa occhiata mezza disgustata che ha riservato all'invito.
Joan lo nota e gli posa una mano sul braccio.
«Scopriamo per quale motivo ci hanno invitato e poi torniamocene a casa, d'accordo?», gli mormora a bassa voce.
Lui annuisce, sempre con quell'espressione di disagio.
«Credo che per prima cosa dovremmo parlare con i padroni di casa», aggiunge Joan. «Che ne dici?»
«Buona idea», le concede Sherlock e, dopo un istante di esitazione, le porge un braccio. «Andiamo?»


Non trovano i padroni di casa da nessuna parte, pur attraversando tutto l'elegante salone per almeno due volte.
Sono in molti a conoscere Sherlock, nota Joan, ma sono pochi quelli a cui Sherlock è disposto a concedere la grazia di rispondere garbatamente, scopre anche.
La sua curiosità è seconda solo alla sua confusione, ma le conversazioni con gli altri ospiti non durano che pochi minuti, giusto il tempo perché Sherlock trovi qualcosa di pungente e/o imbarazzante abbastanza da mettere l'altro interlocutore in fuga.
Joan non sa se ridere, rimproverarlo o tentare di nascondersi dietro una delle grandi piante che decorano la stanza. La verità è che si sta divertendo. Tanto. A tal punto, anzi, che ad un certo punto dimentica l'invito misterioso e il motivo per cui, almeno in teoria, dovrebbero essere lì.
Ci mette più tempo di quello che avrebbe dovuto per capire come stanno davvero le cose, ma più tardi, come parziale scusante per quel ritardo, non può fare a meno di ammettere a se stessa che Sherlock è davvero un buon intrattenitore. Almeno per le persone che si degna di intrattenere.


Alla fine, comunque, capisce.
E di nuovo non sa se essere arrabbiata o divertita. Ormai ha capito abbastanza di Sherlock da non prendere troppo sul personale quel genere di situazioni assurde.
«È casa tua, non è vero?», gli domanda a bruciapelo mentre, appoggiati alla balaustra di marmo di uno dei grandi balconi, ammirano il cielo stellato brillare a fatica sopra di loro.
«Dovresti conoscere casa mia, Watson. In fondo ci vivi», replica lui, senza troppa convinzione. Deve per forza aver previsto che prima o poi ci sarebbe arrivata.
«E preferirei decisamente questa all'altra», lo rimbecca Joan.
«Davvero?»
Lei ci pensa su un attimo.
«No, non davvero. Già è difficile tenere pulita quella, figuriamoci questa specie di castello. Potremmo rapire il maggiordomo, però.»
Le labbra di Sherlock si inclinano in un sorriso appena accennato.
«È casa di tuo padre, quindi?», chiede ancora lei. Non che ci sia davvero bisogno di chiederlo: ovvio che sia tutto di suo padre, anche la casa dove vivono loro lo è.
«Una delle tante», conferma comunque Sherlock. E poi, prima che lei abbia modo di fargli altre ovvie domande, continua: «Mio padre è un uomo potente e molto in vista, questo credo che tu l'abbia capito. Quello che gli uomini potenti e molto in vista devono fare, oltre a guadagnare indecenti quantità di denaro, è mostrare al mondo che sono persone rispettabili, e questo, sfortunatamente, non si può fare per telefono o per email, ma organizzando banali e socialmente utili aste di beneficenza o lussuosi e ridicoli eventi come questo», spiega veloce.
«E ti ha chiesto di partecipare?»
«Mi ha ordinato di partecipare. E non solo perché rifugge le occasioni mondane come le api rifuggono gli uccelli insettivori, ma anche per provare che il figliol prodigo è ritornato all'ovile.»
Joan scuote appena la testa.
«Hai una relazione difficile con tuo padre e lui non sembra esattamente la persona più espansiva di questo mondo, lo so, ma sono ancora convinta che abbia a cuore la tua salute perché ti vuole bene, non perché si sente socialmente in obbligo verso di te o come operazione di marketing.»
Il sorriso di Sherlock assume una sfumatura amara.
«Sei una persona ottimista. Buon per te», commenta soltanto.
Joan vorrebbe ribattere, ma non sa cosa dire. La famiglia di Sherlock la incuriosisce e la spaventa allo stesso tempo, tanto che non è poi così sicura di voler sapere.
«Per quanto ancora dobbiamo restare per dare un senso a questa sceneggiata?», chiede allora. «Vorrei andare a casa e mangiare qualcosa di più sostanzioso delle olive.»
Finalmente Sherlock si volta di nuovo a guardarla, e questa volta il suo sorriso è sincero e divertito.
«Direi che abbiamo fatto più che abbastanza, per stasera. Se riesci a non fare troppo rumore con quei sandali possiamo svignarcela dal retro», annuncia felice.


Più tardi, seduti lei sulla poltrona del salotto, lui per terra ai suoi piedi, e con ancora i loro costumi-non-proprio-costumi addosso, si dividono una pizza d'asporto davanti alla televisione.
«L'invito!», esclama all'improvviso Joan, scoppiando a ridere. «Oddio, ti sei spedito un invito alla tua festa?»
Sherlock ha il buon gusto di apparire, per un attimo, leggermente imbarazzato, ma si riprende quasi subito.
«L'invito era per te!», ribatte.
«C'era anche il tuo nome!»
«Solo perché sarebbe apparso sospetto non mettercelo. E perché non ero sicuro che ci saresti andata e, anche in caso positivo, se avresti chiesto a me di accompagnarti», risponde lui, addentando un'altra fetta di pizza ricoperta di mozzarella fumante.
Non per la prima volta da quando lo ha conosciuto, Joan sente l'impellente bisogno di tirargli uno schiaffo dietro la testa.
«Se ti serviva un'accompagnatrice avresti potuto chiederlo. Avresti potuto semplicemente dirmi che diamine stava succedendo, invece di mentirmi e mettere su tutto questo teatrino!», esclama esasperata.
Passata la prima fase di divertimento, ora comincia anche quella della rabbia. A scoppio ritardato, di nuovo, ma non è colpa sua, pensa, se Sherlock è così bravo ad irritarla quanto a rabbonirla.
«Non volevo che fraintendessi», replica placidamente l'altro, raccogliendo col dito uno schizzo di pomodoro che ha avuto l'infelice idea di andare a schiantarsi contro la sua camicia bianca e, un tempo, inamidata.
«Fraintendere cosa?», domanda Joan.
«Vorrei che fosse chiaro che intendo mantenere il nostro rapporto su un piano strettamente professionale, e siccome il termine accompagnatrice ha molte definizioni, alcune delle quali anche molto ambigue...»
Joan spalanca appena gli occhi in un'espressione di educata incredulità. Poi, siccome non sa cosa rispondere, gli lancia contro la sua fetta pizza.


Ancora un po' più tardi, quando Joan si è ormai liberata del suo kimono e sta quasi per mettersi a letto, Sherlock appare sulla soglia della sua stanza.
«Volevo che ti divertissi», ammette, guardandosi le mani. «Pensavo che, se non ti avessi spiegato che eravamo lì perché non avevo altra scelta e che quindi la nostra partecipazione era un'incombenza a cui non potevamo sottrarci, avresti potuto goderti la serata. Le persone comuni di solito trovano rilassante spezzare la routine andando ad una festa, soprattutto, credo, quando la routine comprende molti omicidi.»
Seduta sul bordo del letto, Joan lo fissa per qualche istante senza dire niente. Pensa a tutti i modi in cui potrebbe rispondere ― alcuni non molto educati ― e allo stesso tempo osserva il modo in cui Sherlock evita di guardarla negli occhi.
«Mi sono divertita molto», ammette alla fine, semplicemente.
«Ottimo!», esclama Sherlock, sorridendo sollevato.
«...ma la prossima volta vorrei essere avvisata», aggiunge lei.
Lui annuisce.
«Ricevuto, Watson. Buonanotte, allora», risponde, e poi si allontana prima che lei riesca ad auguraglielo a sua volta.
Infilandosi finalmente sotto le coperte, per qualche minuto Joan non può fare a meno di ripensare all'intera giornata. Ride tra sé, e pensa che, in fondo, anche questo genere di situazioni fa parte dei motivi essenziali per cui ha deciso di rimanere.



   
 
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