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Autore: SylviaGreen    23/02/2013    1 recensioni
Dopo aver visto il film-documentario The Cove, realizzato da Ric O'Barry, non potevo stare zitta.
"Faceva freddo, molto freddo.
Ma avrebbe fatto freddo ugualmente, anche se le temperature non fossero state così basse.
Era Settembre.
Era un brutto giorno.
Era il giorno di una strage".

[...]
"Ogni primo Settembre, la stessa storia.
Siamo a Taiji, Higashimuro District, prefettura di Wakayama, Giappone.
Un gruppo di persone scende da un autobus. Un altro cammina su una strada vicino ad una baia.
Sarebbe bella, quella baia. Vicino c'è un porticciolo, con tante piccole barche attraccate.
Ma ecco, qualcuno si sta avvicinando. Sono dieci, venti, trenta, non si sa quanti uomini.
Cosa faranno? Perché? Andranno a pesca?"

Ventitré mila delfini moriranno anche quest'anno.
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Il dramma.

 
Faceva freddo, molto freddo.
Ma avrebbe fatto freddo ugualmente, anche se le temperature non fossero state così basse.
Era Settembre.
Era un brutto giorno.
Era il giorno di una strage.
Sembrava di essere tornati in Egitto, al tempo delle dieci piaghe.
Affacciandosi alla scogliera, si poteva vedere un mare purpureo.
Aveva lo stesso forte colore che ha un liquido all'interno del nostro corpo.
E che anche loro avevano nel loro corpo, prima.
Un odore acido empiva l’aria.
Faceva lacrimare gli occhi, piangere i bambini e tappare il naso agli adulti.
Era un odore orribile.
Un odore di morte.

I ricatti.
L'anno prima.

 
Erano venuti in una tiepida mattina di Agosto, nel posto in cui meno li avrebbero aspettati. Avevano barche, barconi e motoscafi costosi, lucidi e splendenti. Pareva li avessero puliti apposta per arrivare lì. Si erano ancorati nella baia vicina, scegliendo a spanne il punto più vicino. Erano scesi con un gommone rombante, lamentandosi per aver sbagliato i calcoli. Indossavano giacche nere, cravatte stritolanti e bombette: sembravano appena usciti da un costoso film americano. Atterrarono nell’isola facendo ciaf-ciaf con i tacchi degli stivali, e presero a camminare affondando le suole nella sabbia morbida. Salutavano chiunque incontrassero, e con dolcezza gli chiedevano come andasse la loro vita. Domandavano, ma già sapevano che era una brutta stagione per la pesca. Su un’isola si vive di pesce, ma tutto dipende da quanto se ne tira su dalle reti: in quel periodo, ce n’era davvero poco.
«Non abbiamo più pesce, signore», spiegavano tutti con aria seria. «Ho figli piccoli, e non riesco a mantenerli. Ho genitori malati e non riesco a curarli. Ho anziani, malati, storpi, ciechi, zoppi. Non c’è cibo abbastanza». Erano tutti disperati.
Loro sorridevano come se tutto questo li divertisse. Sorridevano, distribuivano occhiolini e prendevano nota su un foglietto di tutta la situazione.
Un giorno, convocarono un’assemblea.
Non era mai successa: la gente del posto a malapena sapeva che cosa fosse. Spiegarono loro che era una riunione di tutta la popolazione nello spazio più grande dell’isola, in cui tutti potevano parlare in libertà, esprimere le proprie opinioni, accettare o negare proposte.
Chiesero loro a cosa fossero utili: risposero che ne avevano bisogno.
Serviva per i loro scopi.
Loro: pronome ambiguo.
Alla fine la ottennero: si erano mostrati tanto gentili e così interessati che molti avevano pensato che magari … forse … qualcuno, là … oltre l'oceano … forse si stava interessando a loro …
«Venite da noi. Aiutateci», mormorarono quando la ottennero. Avevano letto che usare un tono basso era più convincente per la povera gente. «Noi vi daremo pesce, e soldi per salvare i vostri figli e gli infermi che ci sono nella vostra famiglia. Noi vi daremo legname per ricostruire le vostre capanne distrutte, e acqua per riempire i vostri pozzi asciutti. Noi vi daremo barche per navigare e cordame per dirigerle. Vi daremo reti nuove e fili di ricambio per le vostre lenze. Vi daremo galleggianti e braccioli per i vostri figli, che imparino a nuotare più in fretta. Noi vi aiuteremo. Noi vi daremo anche un posto di lavoro dove viviamo noi, con vitto e alloggio compresi. Noi saremo la vostra salvezza». La piazza si riempì di sorrisi. «Dovete solo …».
Il rappresentante abbassò la voce e disse poche sconvolgenti parole che empirono di sgomento i volti sorridenti appena comparsi.
«Come?», si lamentavano. «Non possiamo … non vogliamo … è sbagliato …».
Potevano bastare semplici proteste a due uomini che avevano imparato a memoria le battute?
Sarebbe successo comunque, che loro volessero o non volessero.
«Perché? Perché è sbagliato? Sono loro che vi prendono il cibo».
«Non è vero … non è possibile …».
«Essi sono la causa dell’impoverimento dei vostri mari. Essi mangiano troppo pesce. Essi impediscono alla povera gente di vivere serenamente. Sono una feccia e vanno uccisi. Non potete ribellarvi a voi stessi. Non potete ribellarvi alla vostra vita».
«Ma no … non è vero … non è possibile …»
«La natura permette agli uomini di essere felici … e anche a loro … basta aspettare, aspettare che tutto migliori … non possiamo … non ne abbiamo il diritto … ».
Le parole erano tante, i fatti pochi: dov'era la giustizia? Dov'era il rispetto per loro, per i poveri, per gli anziani? Se ne erano dimenticati … ma chi, poi? Gli dei del cielo? La natura? Quei signori ben vestiti con le cravatte?
Chi era la causa di tutta quella miseria?
Purtroppo il cervello umano ha bisogno di un perché, anche quando va al di là della sua comprensione; la mente non lo accetta, si ribella, cerca comunque di trovare un sostituto, e quando questo gli viene presentato così semplicemente, come se fosse ovvio … è così facile crederci …
Il capro espiatorio è una così semplice scusa …
«Credete pure quello che volete, ma scegliete: o la loro vita, o la vita dei vostri figli».
«Ma noi … veramente …».
«Noi non vogliamo … perché dobbiamo scegliere?».
«Già, perché?».
«Le vostre culture parlano di destino, sì?».
Tutti annuirono, sperando in una buona notizia, ma sapevano che non c'erano premesse.
«Beh, questo è il vostro».
Parole dure, parole crudeli.
Che però, purtroppo, attecchirono.
 
Credevano di non avere scelta.
Pensavano che quella fosse l’unica alternativa possibile.
Gli avevano detto che non ce ne erano altre.
Dovevano scegliere tra una questione morale e la sopravvivenza della loro prole.
Non bisognerebbe mai porre un genitore davanti ad una scelta del genere.
Mai.
Non è umano.
Ma cosa lo era, in quella richiesta?

 

Credevano
L'anno successivo

 
«Più della metà di quelli che uccidiamo muore all’istante. Siamo fieri di questi dati».
 
L’avevano detto in assemblea.
Un'altra assemblea, diversa da quella che due strani uomini in cravatta avevano convocato un giorno nella loro isola.
Dopo quel giorno, erano successe molte cose, che li avevano portati in Giappone.
Alla baia di Taiji.
E poi ancora più in là, all'IWC. Un'organizzazione internazionale: International Whale Commission.
Strano posto per parlare di argomenti simili.
Eppure loro, piccoli e ignoti isolani, erano finiti a parlare con il mondo. Finalmente qualcuno li ascoltava, prendeva appunti, cercava di ricordare le loro parole.
E le approvava.
Alla loro dichiarazione, era seguito un applauso.
Un’acclamazione, un “bravi”.
Erano tutti d’accordo.
Beh, questo non si può dire, nessuno è nella testa di nessuno.
Allora si può dedurre dai fatti.
Nessuno aveva urlato un "no!", un "cosa state dicendo?", e nessuno aveva letto nel pensiero altrui per scoprire quelle parole, per farle sgusciare e mostrarle a tutti.
Per omertà o per vero assenso,avevano tutti battuto le mani.
Erano giunti al giusto compromesso.
Si sentivano tutti fieri di aver raggiunto il loro obiettivo.
Niente agonie, niente dolori, nessuna sofferenza.
Solo semplici morti.
Chissà perché si è convinti che la morte senza dolore sia migliore, più dignitosa.
Si muore lo stesso.
Moriranno tutti un giorno, ma la natura aveva previsto che loro morissero proprio quel giorno?
 
«L’Occidente ci dice sempre quello che dobbiamo o non dobbiamo fare: noi non fermeremo le nostre tradizioni solo perché lui lo vuole! Nessuno ci fermerà».
 
Un'altra frase senza senso.
Un altro inutile applauso.
Una causa, per certe circostanze vera, che diventava estesa a ogni cosa.
 
Credevano di rifugiarsi in uno slogan patriottico.
Credevano davvero che agli "altri" interessasse soltanto controllarli, e non cercare di preservare la salute dell’intero pianeta.
Forse il loro problema erano questi "altri", indefiniti o per noia o per ignoranza.
Per loro, una questione ambientale era una semplice ripicca nei confronti di Qualcuno senza nome.
Una vendetta.
Un mondo di tutti diventava l’orgoglio nazionale di pochi.
 
«Essi sono la causa dell’impoverimento dei nostri mari. Essi mangiano troppo pesce. Essi impediscono alla povera gente di vivere serenamente. Sono una feccia e vanno uccisi. Non possiamo ribellarci a noi stessi. Non possiamo ribellarci alla nostra vita».
 
Una semplice bugia.
Una frase imparata a memoria, dopo un anno di lavoro.
Erano più o meno le stesse parole pronunciate da quel rappresentante, solo con pronomi e aggettivi di persone diverse.
Erano loro, ora, in prima persona, e si inventavano paroline tanto comode per zittire la coscienza.
Pensavano che, se quella antipatica vocina fosse stata zitta, tutto sarebbe migliorato.
Pensavano che, se loro non avessero avuto rimorsi, il loro delitto sarebbe stato cancellato.
Pensavano che, se si fossero inventati una giusta causa, tutto si sarebbe sistemato.
Ma purtroppo non sapevano niente.
Non sapevano che la coscienza non era la sola a cercare di non guardare.
Non sapevano che la natura stessa li osservava impotente.
Non sapevano che là fuori c'era un mondo intero che viveva insieme a loro.
 
«Questo è ciò che si meritano per uccidere mio figlio».
«Sto sbagliando, ma è meglio che perdere mia figlia».
«Farei di tutto per mantenere i miei due gemelli».
«Tra i due mali, ho scelto il minore».
 
Si sentivano felici.
Felici di aver salvato le loro famiglie.
Felici di aver contribuito alla loro generazione con il loro gesto.
Con quell'ideale, impedivano a chiunque di fermarli.
Piantarono cartelli, bloccarono strade, installarono allarmi, assunsero vigili.
Il loro lavoro fu visibile a tutti da una semplice strada che correva lì vicino. Senza poter essere filmato, né raccontato.
Una presa in giro.
Un affronto a quel Qualcuno senza nome.
Vivevano continuando a svolgere la loro occupazione, come se nulla fosse.
Si sentivano degli eroi.
Eroi che salvavano la prole.
Credevano di portare sostentamento alle loro famiglie.
Credevano di aiutare le nuove generazioni.
Credevano che il loro sacrificio avrebbe aiutato tutti.



Credevano.
 

La verità

 
Ogni primo Settembre, la stessa storia.
Siamo a Taiji, Higashimuro District, prefettura di Wakayama, Giappone.
Un gruppo di persone scende da un autobus. Un altro cammina su una strada vicino ad una baia.
Sarebbe bella, quella baia. Vicino c'è un porticciolo, con tante piccole barche attraccate.
Ma ecco, qualcuno si sta avvicinando. Sono dieci, venti, trenta, non si sa quanti uomini.
Cosa faranno? Perché? Andranno a pesca?
Gli uomini salgono sulle barche, afferrano i remi, si preparano a partire.
Sì, andranno a pesca. Ora porteranno le loro barche al largo.
No … aspetta … non vanno a pesca.
Stanno conducendo le loro barche poco distante dalla riva, tanto che li si può distinguere chiaramente dalla strada. Gli uomini scesi dal pullman li indicano, si chiedono cosa stiano facendo.
Vorranno fare una gita? Ma sono così tanti … perché non hanno preso un traghetto?
Qualcosa non torna …
Non è vero, tornerebbe, se solo la gente che li sta guardando capisse e sapesse.
E poi la verità arriva, crudele.
L'acqua si tinge di rosso sangue.
Corpi grigi, affusolati, con piccole pinne dalle punte arrotondate, vengono trascinati sulle barche e trafitti.
E poi ancora.
E ancora.
Alla fine i cacciatori tornano indietro, alle loro case.
È solo l'inizio di una stagione di caccia.

Ventitré mila delfini moriranno anche quest'anno.

 

    


 

Le fonti (alias *Angolino Autrice*)

 
Mi piacerebbe tanto scrivere ogni riferimento a fatti, contenuti e avvenimenti realmente avvenuti è puramente casuale. Quanto vorrei che tutto questo fosse frutto della mia testa.
Purtroppo non è così: i riferimenti esistono.
La storia narrata è ispirata al film-documentario The Cove (di cui potete trovare riferimento qui, qui e poi, dopo averlo visto, anche qui). Potrete persino guardarlo interamente su YouTube a questo indirizzo.
Questo, invece, è il sito dell'IWC.
Se invece preferite informarvi anche su cosa si può fare per fermare questo orrore, questa è la pagina ufficiale del progetto Save Japan Dolphins, ideato da Ric O'Barry, che mira a questo scopo, e questo è il collegamento che potete cliccare per firmare una petizione americana che viene inviata al presidente americano Obama, al vicepresidente Biden e all'ambasciatore giapponese negli Stati Uniti Ichiro Fujisaki. A quanto ne so, la petizione ha raggiunto 500.000 firme, ma c'è ancora bisogno del nostro aiuto.
Non sono Ric O'Barry, non sono nessuno.
Però sono umana, e mi appello anche alla vostra compassione, al vostro cuore, al vostro cervello, ai vostri sentimenti che in teoria dovrebbero differenziarci dagli animali.
Visitate quei siti, non vi ruberanno che qualche minuto.
Fatelo almeno per tacitare la vostra coscienza.
 
PS: desidero anche che sappiate che questo racconto e gli appelli che ho scritto qui sopra sono, ovviamente, senza fini di lucro. Io personalmente non ci guadagno niente; il pianeta però sì. Non è questo l'importante?

PPS: mini-mini-mini-ma-più-mini-non-si-può-aggiornamento.
Sono senza ispirazione e sono nel panico! Ho in sospeso quattro storie e non so cosa scrivere. Forse per Harry Potter posso cavarmela cercando di correggere una storia scritta malissimo anni fa, che ora stavo riscrivendo ... ma per "una Sottomessa non sottomessa" non so proprio cosa fare ... qui non è una questione di ricontrollare, devo proprio scrivere, buttare giù. E anche quella di Dr House... dato che sono indietrissimo, avevo pubblicato il prologo e lo avevo lasciato lì, nella speranza che attraesse qualcuno, ma dato che il telefilm è ormai finito, non è che abbia avuto così tante visualizzazioni ... però ho una persona che la segue e una recensione (che ringrazio, a proposito, si chiama Nekomata 42 e mi sa che ci rimarrà male perché è convinta che la storia sia su Cameron-Chase e invece non c'entra proprio niente ... vabbé). E per finire la raccolta di sfoghi di adolescente: ne avrei qualcuno, ma non ho l'animo dello sfogo (e per scrivere bene gli sfoghi, a mio parere, serve avere il risentimento in gola: un po' come adesso con i delfini). 
Bene bene. Finisco qui e spero che l'ispirazione mi torni.
Scusate, ma io senza ispirazione sono fregata. E ci sono dei periodi davvero OFF. Per lo meno i problemi scolastici sono risolti: la versione è andata bene, la verifica di fisica idem (temevo mooolto peggio), matematica perfetta e oggi, al posto di autogestione, sono andata a sciare con mio padre. Mi sono autogestita l'autogestione. Che poi da noi si chiama assemblea, ma non è che cambi tanto ...
Non so cosa scrivere nella giustifica! Io e i miei genitori ci stiamo torcendo i cervelli da ore ma non abbiamo cavato un ragno dal buco.
Cooomunque, scusate la piccola parentesi sugli affari miei, di cui sicuramente non ve ne frega niente.
A risentirci!
   
 
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