Mi rigirai tra le mani il sottile
disco di plastica argentea finché non catturò i pallidi raggi solari e si tinse
dei colori dell’iride. Non avevo mai visto l’arcobaleno. Di quei tempi, i CD
erano oggetti piuttosto rari. Ma gli arcobaleni, se possibile, lo erano ancora
di più. Avevano smesso di esistere da ormai alcuni decenni, da quando l’azzurro
del cielo era scomparso dietro la plumbea coltre delle nubi radioattive. Gli
antichi giornali scientifici di mio padre dicevano che dopo la caduta delle
bombe atomiche, grandi quantità di cenere, fumo, polvere e detriti venivano
scagliati in cielo dalla potenza dell’esplosione oscurando il sole per un lungo.
Era il cosiddetto inverno nucleare,
durante il quale le radiazioni, la scarsità di luce e le basse temperature
contribuivano alla sterilità del suolo e a numerosi altri spiacevoli
inconvenienti.
Gli stessi giornali riportavano
di frequente le foto di magnifici arcobaleni sospesi su verdeggianti panorami
mozzafiato. Ma ormai non pioveva quasi più. E quelle poche volte che pioveva, la
gente parlava di “pioggia acida”, l’acqua era grigia, carica di polvere e, con
ogni probabilità, di particelle radioattive. I contatori geiger erano
estremamente rari e preziosi, e al villaggio nessuno ne possedeva uno. Così non
sapevamo con certezza quale fosse il livello di radiazioni contenuto
nell’acqua. Malgrado tutto, essa era indispensabile, e farne a meno significava
morire disidratati nel giro di pochi giorni; l’unica soluzione era scegliere il
minore dei mali. Un quarto della popolazione del villaggio si occupava
dell’acqua: c’era chi la raccoglieva dalle pozze fangose, chi la filtrava e chi
la bolliva. L’ironia della sorte aveva voluto che il nostro villaggio, come
tanti altri, sorgesse fra le macerie di una metropoli, un antico santuario del
consumismo, dove prima della guerra avevano abitato milioni di persone
benestanti, ciascuna delle quali consumava ogni giorno decine di litri d’acqua limpida.
Questo era quello che dicevano i giornali di mio padre. Ma ormai erano i miei giornali, perché mio padre era
morto.
Aveva esalato l'ultimo respiro
pochi minuti prima, lasciandomi totalmente solo nel bel mezzo della landa
inospitale che stavamo attraversando. Io, col cadavere fra le braccia, le
guance incrostate di sporcizia rigate dalle lacrime, maledicevo il mondo con la
voce rotta dal pianto. Stavo eseguendo l’operazione che mai avrei sperato di
dover svolgere: frugavo ogni tasca dei vestiti indossati da mio padre, in cerca
di tutto ciò che mi sarebbe tornato utile per proseguire nel viaggio. Solo
perché egli avrebbe fatto di tutto per farmi sopravvivere, non mi sentivo
migliore di uno qualsiasi di quegli sporchi sciacalli che infestavano le strade
del deserto vivendo della disgrazia altrui, saccheggiando i corpi dei
viaggiatori che avevano ceduto agli stenti lungo il loro percorso.
Era proprio quello che era
accaduto a mio padre: una settimana dopo la partenza c’eravamo resi conto di
aver smarrito il percorso e avevamo capito che non avremmo raggiunto la nostra
destinazione prima di venti giorni. Allora avevamo iniziato a razionare il cibo
e, ogni giorno, la denutrizione ci rendeva più deboli. Secondo i calcoli, il
dodicesimo giorno di cammino sarebbe dovuto essere l’ultimo, invece eravamo
soltanto a metà. Così, mio padre decise che la mia vita era molto più
importante della sua, e ridusse al minimo le sue razioni, riservando per me i
tre quarti delle scorte. Malgrado i miei rimproveri e le preghiere che gli
rivolgevo affinché accettasse il cibo che gli offrivo, lui si ostinava a
mangiare poche striminzite fette di pane raffermo ogni giorno. Così, fui
costretto a guardarlo mentre, giorno per giorno, si riduceva ad un relitto
pelle e ossa. Non capiva che, per me, la peggior tortura era quella di vederlo
soffrire in quel modo; non si rendeva conto che avrei preferito mille volte che
i nostri ruoli fossero invertiti. Così lui avrebbe potuto portare a termine il
suo compito senza alcun intralcio; forse avrei fatto meglio a non partire. La
sofferenza si protrasse per altri sei giorni, fino al diciottesimo dalla nostra
partenza. Quella sera, al tramonto, ci rifugiammo nel rudere di una chiesa di
campagna che qualcuno aveva già saccheggiato. Accendemmo un fuoco e ci
addormentammo immediatamente. Quando nel pieno della notte i colpi di tosse mi
avevano fatto svegliare di soprassalto, sapevo precisamente cosa avrei dovuto
affrontare nelle ore successive. Riattizzai il fuoco e restai al capezzale di
mio padre fino all’alba, quando dal tetto scoperchiato della chiesa aveva
iniziato a filtrare la timida luce mattutina.
A pochi minuti da quando mio
padre aveva abbassato le palpebre per l’ultima volta, mi trovavo inginocchiato
accanto al fuoco spento e passavo in rassegna tutti gli oggetti utili che avevo
trovato. C’era la bottiglia di plastica piena per metà del liquido
verde-trasparente che serviva tutte le sere per accendere il falò, c’era l’accendino,
i fiammiferi, e c’era infine il coltello d’ordinanza che era stato il fedele
compagno di mio padre durante la guerra che aveva portato alla distruzione
della civiltà. Tutto il resto lo portavo io nello zaino. Quello che ero
riuscito a strappare dalle spalle di mio padre quando si era messo in testa che
metà delle sue provviste dovevano diventare mie: portare tutto
l’equipaggiamento e preservare il mio vecchio da qualsiasi fatica mi era sembrato
il pagamento minimo per il favore che mi stava faceva. O per meglio dire, che
credeva di farmi: quanto avrei dato per non trovarmi intrappolato in
quell’atmosfera di opprimente disperazione che il decesso aveva portato con sé!
Tutti gli oggetti di mio padre erano sparsi su uno straccio grigio, che un
tempo era stato bianco: avvolsi il tutto nello straccio e infilai l’involto in
una tasca dello zaino militare che riposava accanto alle braci lampeggianti,
sul pavimento annerito della chiesa. Fu allora che vidi il disco argentato: era
rimasto nascosto per tutto quel tempo fra lo straccio e il pavimento, e
stranamente non mi ero accorto di averlo estratto dalle tasche di mio padre. Ma
sapevo bene che il CD era sempre stato ben nascosto fra le pieghe dei suoi
abiti: lo strano oggetto era il motivo principale del nostro viaggio. Stando al
racconto di mio padre, la nostra destinazione era l’abitazione di un suo
vecchio conoscente, un ricco possidente, appassionato di musica. Affermazioni,
le ultime due, che non avevano nulla a che vedere col mondo in qui vivevamo.
Coi tempi che correvano era inusuale che un singolo uomo riuscisse ad
accumulare una fortuna, e tanto meno che si appassionasse a qualcosa di futile
come la musica. Ma probabilmente erano fatti che risalivano all’epoca
prebellica: allora sì che c’era stato spazio per la ricchezza e per le perdite
di tempo.
Quando una sera di poche
settimane prima, mio padre era tornato dal lavoro con il viso illuminato e il
disco in mano, avevo sentito odore di avventura nell’aria, e non avevo saputo
controllare l’emozione quando avevo scoperto che avrei preso parte alla
spedizione. Mio padre lavorava come raccoglitore,
un mestiere che, come quelli legati all’approvvigionamento idrico, era molto
diffuso in gran parte dei villaggi sorti in zone cosiddette ex-urbane. I Raccoglitori si occupavano
di setacciare le macerie degli edifici alla ricerca di tutto ciò che poteva
essere utile per il villaggio: cibo in scatola, parti elettriche di ricambio,
attrezzi agricoli, e tante altre cose. Il ritrovamento del disco era stato un
puro colpo di fortuna: la prima cosa che era saltata in mente a mio padre era
stata la faccia paffuta di quel suo vecchio conoscente, un uomo disposto a
barattare un disco di musica per un paio di carri colmi di merci d’ogni tipo. Cibo,
acqua depurata e medicinali sarebbero traboccati dalle bisacce durante il
viaggio di ritorno verso il nostro villaggio, sempre che fossimo prima riusciti
a giungere sani e salvi all’abitazione del misterioso uomo della musica.
Smisi di contemplare i riflessi
multicolori sulla superficie liscia del CD e mi chinai nuovamente sullo zaino
per estrarre un altro straccio in cui avvolgere il preziosissimo oggetto. Avevo
appena deciso che avrei continuato il viaggio, altrimenti la morte di mio padre
sarebbe stata vana. Avevo l’obbligo di proseguire, sia nei confronti di mio
padre, sia verso i nostri concittadini speranzosi, che si erano fidati di noi.
Per questo motivo dovevo proteggere il fragile disco con ogni mezzo. Una volta
risposto il cartoccio in una tasca sicura, all’interno dello zaino, mi misi in
piedi e completai i preparativi per la partenza. Pochi minuti dopo mi trovavo
all’esterno della chiesa, ad alcuni passi dall’ingresso, e osservavo la facciata
spoglia, erosa dal vento e dalla polvere insidiosa che esso trasporta. Sopra il
portale si apriva una nicchia semi circolare contenete una statua di pietra
consunta: raffigurava una donna avvolta in una veste lunga. Poco più su,
all’incontro dei due versanti del tetto, svettava una croce metallica ricoperta
da una patina verde-azzurra, come gli arnesi metallici che a volte i
Raccoglitori rinvenivano tra le rovine di qualche antico insediamento
distrutto. Sparsi al suolo, lungo tutta la base della facciata, c’erano
frammenti di pietra franati dalla parete in rapido deterioramento: presto l’edificio
avrebbe lasciato posto ad un polveroso cumulo di mattoni.
Volsi un ultimo saluto alla salma
del mio vecchio e abbandonai la chiesa per tornare sul sentiero, che l’azione
del tempo aveva reso quasi indistinguibile dal resto del suolo. M’incamminai
verso la mia lontana destinazione, ben consapevole che avrei fatto la fine di
mio padre se mi fossi limitato a proseguire lungo la strada stabilita prima
dell’inizio del viaggio: dovevo trovare il modo di deviare verso un centro
abitato presso cui fare rifornimento d’acqua e viveri. Secondo la mappa,
estremamente imprecisa, il villaggio più vicino si trovava a quattro giorni di
distanza, ed io avevo provviste per soli due giorni, inoltre ero già sfinito.
Mi sentivo stranamente ottimista in quel momento, ed ero piuttosto sicuro che
sarei riuscito nella mia impresa, ma ragionandoci sopra, non era poi tanto
scontato che il mio tentativo potesse avere un esito positivo. Razionare
ulteriormente il cibo sarebbe servito soltanto a rendere ancor più terribile il
morso della fame in ciascuna delle singole giornate; ma se avessi fatto
altrimenti, come mi sarei comportato una volta giunto il termine del secondo
giorno? Avrei finito per arrancare nella polvere per due intere giornate, a
stomaco vuoto, e non credevo di poter reggere la prova, in primo luogo dal
punto di vista mentale.
Quel giorno camminai senza sosta,
più velocemente che potevo: il risultato fu che dopo quattro ore di marcia
estenuante mi ritrovai ad incespicare senza fiato ogni dieci passi. Allora
rallentai ed estrassi dallo zaino due fette di pane secco e l’ultima scatoletta
di carne; senza smettere di camminare, consumai il mio misero pasto. Bevvi qualche
sorso dalla bottiglia e pensai agli amici che mi aspettavano al villaggio: l’unica
cosa che non ci avevano fatto mancare era l’acqua. Per quanto riguardava il
cibo, dubito che sarebbe bastato, anche se avessimo seguito il percorso più
breve. Ma non potevo biasimare la loro parsimonia: il cibo scarseggiava per
tutti, in tutti i villaggi. Soprattutto in quella stagione. Era la più fredda
dell’anno e, con le sue misere otto ore di luce al giorno, sapeva rendersi
estremamente odiosa. Non che le altre fossero tanto migliori, ma almeno la
temperatura saliva di qualche grado, i letti sassosi dei torrenti si riempivano
d’acqua torbida e qualche rara bestiola veniva avvistata mentre scorrazzava
sull’asfalto sgretolato delle strade che solcavano il deserto. Continuavamo a
chiamarle con i loro vecchi nomi, ma ormai le stagioni non era più quelle di un
tempo. Dopo altre tre ore di cammino, le nuvole avevano assunto la
caratteristica sfumatura rosea che annunciava l’imminente sopraggiungere delle
tenebre. Faceva un freddo terribile: il respiro si condensava in bianche
nuvolette vaporose. La luce diminuiva rapidamente, e presto sarebbe calata la
notte, ma fortunatamente avevo già adocchiato il punto in cui mi sarei accampato
fino al mattino successivo.
Era un grosso autotreno ribaltato
su un fianco; il rimorchio formava un angolo di circa novanta gradi col locomotore
e trasmetteva un’impressione di sicurezza che avrebbe fatto invidia alla chiesa
della sera precedente. Forse perché il camion non minacciava costantemente di
seppellirmi sotto una montagna di macerie. La sua immensa mole mi avrebbe
protetto dal forte vento notturno che spirava da occidente. Percorrendo gli
ultimi metri che mi separavano dal possente veicolo, fui assalito da un tremore
insistente e particolarmente fastidioso: tirai su la cerniera della mia vecchia
giacca a vento rossa, fino a coprirmi il mento col bavero sdrucito. Quella
giacca l’aveva trovata mio padre fra i resti di un discount, nella zona
periferica della metropoli, due anni prima. Era come nuova, quando l’avevo
indossata per la prima volta; ma ora era ridotta a un colabrodo, rattoppato in
più punti con fili e pezze di diversi colori. Non era più un gran bel vedere,
ma scaldava ugualmente. Una volta raggiunta la nicchia formata dai due segmenti
del camion, le nuvole del cielo erano di un colore viola scuro. C’era solo una
cosa che rimpiangevo della sistemazione del giorno prima: gli alberi
rinsecchiti da cui avevo ricavato la legna per il falò. Questa volta mi trovavo
in mezzo alla desolazione più totale, in compagnia del solo relitto del camion.
Avrei dovuto ricorrere alla riserva d’emergenza: quella sera avrei utilizzato
la legna che portavo nello zaino. Mentre accendevo il fuoco, presi mentalmente
nota che la riserva andava rigenerata al più presto. Quando il falò fu
abbastanza grosso e luminoso, mi concessi, per svago, di dare un’occhiata al
camion, alla ricerca di qualcosa di utile. Ma era ovviamente tutto vano:
qualcuno ci aveva già pensato prima di me, e il veicolo era completamente
spoglio. L’abitacolo era vuoto, privo dei sedili e del parabrezza, il serbatoio
era totalmente a secco, dei fanali e dei copertoni non c’era traccia. I cassoni
non contenevano altro che qualche asse di legno marcio inchiodate fra loro. Vecchi
bancali. Chissà cosa aveva trasportato quell’autocarro. Non l’avrei mai saputo:
la scritta sul fianco era troppo rovinata. Rassegnato, mi diressi verso la
nicchia e mi sedetti accanto al fuoco, all’interno dello stretto cerchio di
luce tremolante che esso produceva. Il calore delle fiamme iniziò a penetrare
nelle mie ossa infreddolite, ed io iniziai a sentirmi meglio: i brividi mi
abbandonarono e la mia mente si snebbiò. Mentre fissavo il fuoco, come
incantato, le mie mani si muovevano meccanicamente all’interno dello zaino,
alla ricerca di qualcosa da mangiare. Estrassi la bottiglia dell’acqua e il
tonno in scatola. Mangiai lentamente, assaporando il pesce: mi era capitato di
rado di mangiarne, e non trovavo che fosse poi tanto differente dal manzo sott’olio.
Gli adulti dicevano che era normale trovare poco saporito il cibo conservato:
prima della guerra esisteva il pesce fresco, con gusto ben differente da quello
della carne degli animali della terra ferma. Da canto mio, avevo smesso da
tempo di sperare nell’avvistamento di qualsiasi forma di vita nei corsi
d’acqua. Mi chiedevo come potessimo sopravvivere così a lungo bevendo acqua che
persino i pesci avevano ripudiato.
Il mattino seguente mi svegliai
al sorgere del sole, notevolmente infreddolito e con un gran mal di ossa. Mi
districai dalla coperta e mi alzai in piedi a fatica, dopodiché mi misi a
camminare in cerchio attorno ai resti del fuoco, nel tentativo di sgranchire le
articolazioni. Mentre camminavo ripiegai accuratamente la coperta e la infilai
nello zaino, poi diedi un’occhiata alle provviste rimanenti. C’era ancora una
porzione di tonno in scatola, due buste di cibo disidratato e una fetta di pane
rinsecchito. Le buste contenevano cibo insipido e dalla consistenza sabbiosa:
avrei fatto volentieri a meno di quella schifezza, ma non potevo certo
permettermi di fare lo schizzinoso in una situazione come quella. C’era chi
affermava che le vere lasagne fossero tutta un’altra cosa, e io non faticavo
certo ad immaginare qualcosa di più gustoso di quella brodaglia viscida. Anche
perché la differenza fra i vari tipi di cibi disidratati era praticamente
nulla, che si trattasse di braciola di maiale o d’insalata mista. Una volta
aggiunta l’acqua si otteneva una gialla poltiglia omogenea che riempiva la
busta per intero e andava, di fatto, bevuta come da un bicchiere. Buttai giù la
brodaglia in quattro sorsi e, malinconicamente, pensai ai poveri soldati che
s’erano nutriti di quella robaccia per svariati mesi, durante la guerra. Mi
sarebbero mancanti i racconti di guerra di mio padre.
Ripresi il cammino pochi minuti
dopo e proseguii senza sosta finché il morso della fame non divenne
insopportabile. Quando mi sedetti a ridosso di un grosso tubo arrugginito che
spuntava dal terreno arido, dovevano essere passate circa cinque ore dalla mia
partenza. Restai seduto a riprendere fiato, mentre ammiravo il deprimente
paesaggio che mi circondava. La strada che stavo percorrendo, diceva la mappa, andava
da nordest verso sudovest; in passato era stata un’importante via di
comunicazione, una di quelle che venivano chiamate superstrade. Seguendo il percorso dettato dalla mappa mi ero spesso
trovato a camminare fra le rovine di grandi città abbandonate: ero stato
tentato varie volte di fermarmi a frugare tra le macerie alla ricerca di
provviste, ma allontanai quel pensiero, perché sapevo che le probabilità di
trovare cibo erano molto basse, e mettersi a cercarlo sarebbe costato tempo
prezioso. Probabilmente, quel pezzo di carta straccia che chiamavo mappa aveva un’importanza
equiparabile a quella del cibo o del CD: chissà dove sarei andato a finire se
non l’avessi avuta con me. Ripiegai il foglio su se stesso fino a ridurlo ad un
quarto della sua superficie iniziale, dopodiché lo riposi in una tasca dello
zaino e pensai a riempirmi lo stomaco.
Se non altro, il cibo disidratato
sfamava più di qualsiasi altra cosa. Gli scienziati lo avevano creato agli
inizi della guerra utilizzando tutte le tecnologie più innovative: il contenuto
delle buste aveva ben poco in comune col normale cibo liofilizzato. La busta
argentea che avevo in mano conteneva tutte le sostanze indispensabili alla
sopravvivenza del corpo umano, con l’aggiunta di qualche enzima smorza-fame
e vari tipi di aromi che conferivano alle razioni il sapore del cibo vero. Su
quest’ultimo punto si poteva discutere, ma c’era chi giustificava
l’inconveniente dicendo che col tempo l’aroma perdeva consistenza.
Effettivamente la guerra era durata ben dodici anni, e dalla sua conclusione ne
erano passati altri venti. Mentre attendevo che l’acqua sciogliesse del tutto
la polvere contenuta nella busta, bevvi due sorsi dalla bottiglia. Poi mi misi
a mangiare. Pensai al pane e al tonno: era tutto ciò che mi restava, ma non era
molto. Quella sera sarei rimasto digiuno, preservando le ultime due porzioni di
cibo per il giorno seguente.