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Autore: Flexum Sci_Fi    24/02/2013    0 recensioni
Questa serie di racconti narra delle peripezie di un ragazzo dell'era post-atomica. La storia è ambientata in un mondo in cui la guerra, conclusasi da pochi decenni, ha ridotto l'umanità ad una misera ombra di ciò che era stata in precedenza: la decadenza socio-economica affligge l'intera civiltà, relegandola ad una condizione pseudo-medievale in cui morire disidratati è una disgrazia all'ordine del giorno.
Genere: Avventura, Drammatico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Romanzo

Mi rigirai tra le mani il sottile disco di plastica argentea finché non catturò i pallidi raggi solari e si tinse dei colori dell’iride. Non avevo mai visto l’arcobaleno. Di quei tempi, i CD erano oggetti piuttosto rari. Ma gli arcobaleni, se possibile, lo erano ancora di più. Avevano smesso di esistere da ormai alcuni decenni, da quando l’azzurro del cielo era scomparso dietro la plumbea coltre delle nubi radioattive. Gli antichi giornali scientifici di mio padre dicevano che dopo la caduta delle bombe atomiche, grandi quantità di cenere, fumo, polvere e detriti venivano scagliati in cielo dalla potenza dell’esplosione oscurando il sole per un lungo.  Era il cosiddetto inverno nucleare, durante il quale le radiazioni, la scarsità di luce e le basse temperature contribuivano alla sterilità del suolo e a numerosi altri spiacevoli inconvenienti.

Gli stessi giornali riportavano di frequente le foto di magnifici arcobaleni sospesi su verdeggianti panorami mozzafiato. Ma ormai non pioveva quasi più. E quelle poche volte che pioveva, la gente parlava di “pioggia acida”, l’acqua era grigia, carica di polvere e, con ogni probabilità, di particelle radioattive. I contatori geiger erano estremamente rari e preziosi, e al villaggio nessuno ne possedeva uno. Così non sapevamo con certezza quale fosse il livello di radiazioni contenuto nell’acqua. Malgrado tutto, essa era indispensabile, e farne a meno significava morire disidratati nel giro di pochi giorni; l’unica soluzione era scegliere il minore dei mali. Un quarto della popolazione del villaggio si occupava dell’acqua: c’era chi la raccoglieva dalle pozze fangose, chi la filtrava e chi la bolliva. L’ironia della sorte aveva voluto che il nostro villaggio, come tanti altri, sorgesse fra le macerie di una metropoli, un antico santuario del consumismo, dove prima della guerra avevano abitato milioni di persone benestanti, ciascuna delle quali consumava ogni giorno decine di litri d’acqua limpida. Questo era quello che dicevano i giornali di mio padre. Ma ormai erano i miei giornali, perché mio padre era morto.

Aveva esalato l'ultimo respiro pochi minuti prima, lasciandomi totalmente solo nel bel mezzo della landa inospitale che stavamo attraversando. Io, col cadavere fra le braccia, le guance incrostate di sporcizia rigate dalle lacrime, maledicevo il mondo con la voce rotta dal pianto. Stavo eseguendo l’operazione che mai avrei sperato di dover svolgere: frugavo ogni tasca dei vestiti indossati da mio padre, in cerca di tutto ciò che mi sarebbe tornato utile per proseguire nel viaggio. Solo perché egli avrebbe fatto di tutto per farmi sopravvivere, non mi sentivo migliore di uno qualsiasi di quegli sporchi sciacalli che infestavano le strade del deserto vivendo della disgrazia altrui, saccheggiando i corpi dei viaggiatori che avevano ceduto agli stenti lungo il loro percorso.

Era proprio quello che era accaduto a mio padre: una settimana dopo la partenza c’eravamo resi conto di aver smarrito il percorso e avevamo capito che non avremmo raggiunto la nostra destinazione prima di venti giorni. Allora avevamo iniziato a razionare il cibo e, ogni giorno, la denutrizione ci rendeva più deboli. Secondo i calcoli, il dodicesimo giorno di cammino sarebbe dovuto essere l’ultimo, invece eravamo soltanto a metà. Così, mio padre decise che la mia vita era molto più importante della sua, e ridusse al minimo le sue razioni, riservando per me i tre quarti delle scorte. Malgrado i miei rimproveri e le preghiere che gli rivolgevo affinché accettasse il cibo che gli offrivo, lui si ostinava a mangiare poche striminzite fette di pane raffermo ogni giorno. Così, fui costretto a guardarlo mentre, giorno per giorno, si riduceva ad un relitto pelle e ossa. Non capiva che, per me, la peggior tortura era quella di vederlo soffrire in quel modo; non si rendeva conto che avrei preferito mille volte che i nostri ruoli fossero invertiti. Così lui avrebbe potuto portare a termine il suo compito senza alcun intralcio; forse avrei fatto meglio a non partire. La sofferenza si protrasse per altri sei giorni, fino al diciottesimo dalla nostra partenza. Quella sera, al tramonto, ci rifugiammo nel rudere di una chiesa di campagna che qualcuno aveva già saccheggiato. Accendemmo un fuoco e ci addormentammo immediatamente. Quando nel pieno della notte i colpi di tosse mi avevano fatto svegliare di soprassalto, sapevo precisamente cosa avrei dovuto affrontare nelle ore successive. Riattizzai il fuoco e restai al capezzale di mio padre fino all’alba, quando dal tetto scoperchiato della chiesa aveva iniziato a filtrare la timida luce mattutina.

A pochi minuti da quando mio padre aveva abbassato le palpebre per l’ultima volta, mi trovavo inginocchiato accanto al fuoco spento e passavo in rassegna tutti gli oggetti utili che avevo trovato. C’era la bottiglia di plastica piena per metà del liquido verde-trasparente che serviva tutte le sere per accendere il falò, c’era l’accendino, i fiammiferi, e c’era infine il coltello d’ordinanza che era stato il fedele compagno di mio padre durante la guerra che aveva portato alla distruzione della civiltà. Tutto il resto lo portavo io nello zaino. Quello che ero riuscito a strappare dalle spalle di mio padre quando si era messo in testa che metà delle sue provviste dovevano diventare mie: portare tutto l’equipaggiamento e preservare il mio vecchio da qualsiasi fatica mi era sembrato il pagamento minimo per il favore che mi stava faceva. O per meglio dire, che credeva di farmi: quanto avrei dato per non trovarmi intrappolato in quell’atmosfera di opprimente disperazione che il decesso aveva portato con sé! Tutti gli oggetti di mio padre erano sparsi su uno straccio grigio, che un tempo era stato bianco: avvolsi il tutto nello straccio e infilai l’involto in una tasca dello zaino militare che riposava accanto alle braci lampeggianti, sul pavimento annerito della chiesa. Fu allora che vidi il disco argentato: era rimasto nascosto per tutto quel tempo fra lo straccio e il pavimento, e stranamente non mi ero accorto di averlo estratto dalle tasche di mio padre. Ma sapevo bene che il CD era sempre stato ben nascosto fra le pieghe dei suoi abiti: lo strano oggetto era il motivo principale del nostro viaggio. Stando al racconto di mio padre, la nostra destinazione era l’abitazione di un suo vecchio conoscente, un ricco possidente, appassionato di musica. Affermazioni, le ultime due, che non avevano nulla a che vedere col mondo in qui vivevamo. Coi tempi che correvano era inusuale che un singolo uomo riuscisse ad accumulare una fortuna, e tanto meno che si appassionasse a qualcosa di futile come la musica. Ma probabilmente erano fatti che risalivano all’epoca prebellica: allora sì che c’era stato spazio per la ricchezza e per le perdite di tempo.

Quando una sera di poche settimane prima, mio padre era tornato dal lavoro con il viso illuminato e il disco in mano, avevo sentito odore di avventura nell’aria, e non avevo saputo controllare l’emozione quando avevo scoperto che avrei preso parte alla spedizione. Mio padre lavorava come raccoglitore, un mestiere che, come quelli legati all’approvvigionamento idrico, era molto diffuso in gran parte dei villaggi sorti in zone cosiddette ex-urbane. I Raccoglitori si occupavano di setacciare le macerie degli edifici alla ricerca di tutto ciò che poteva essere utile per il villaggio: cibo in scatola, parti elettriche di ricambio, attrezzi agricoli, e tante altre cose. Il ritrovamento del disco era stato un puro colpo di fortuna: la prima cosa che era saltata in mente a mio padre era stata la faccia paffuta di quel suo vecchio conoscente, un uomo disposto a barattare un disco di musica per un paio di carri colmi di merci d’ogni tipo. Cibo, acqua depurata e medicinali sarebbero traboccati dalle bisacce durante il viaggio di ritorno verso il nostro villaggio, sempre che fossimo prima riusciti a giungere sani e salvi all’abitazione del misterioso uomo della musica.

Smisi di contemplare i riflessi multicolori sulla superficie liscia del CD e mi chinai nuovamente sullo zaino per estrarre un altro straccio in cui avvolgere il preziosissimo oggetto. Avevo appena deciso che avrei continuato il viaggio, altrimenti la morte di mio padre sarebbe stata vana. Avevo l’obbligo di proseguire, sia nei confronti di mio padre, sia verso i nostri concittadini speranzosi, che si erano fidati di noi. Per questo motivo dovevo proteggere il fragile disco con ogni mezzo. Una volta risposto il cartoccio in una tasca sicura, all’interno dello zaino, mi misi in piedi e completai i preparativi per la partenza. Pochi minuti dopo mi trovavo all’esterno della chiesa, ad alcuni passi dall’ingresso, e osservavo la facciata spoglia, erosa dal vento e dalla polvere insidiosa che esso trasporta. Sopra il portale si apriva una nicchia semi circolare contenete una statua di pietra consunta: raffigurava una donna avvolta in una veste lunga. Poco più su, all’incontro dei due versanti del tetto, svettava una croce metallica ricoperta da una patina verde-azzurra, come gli arnesi metallici che a volte i Raccoglitori rinvenivano tra le rovine di qualche antico insediamento distrutto. Sparsi al suolo, lungo tutta la base della facciata, c’erano frammenti di pietra franati dalla parete in rapido deterioramento: presto l’edificio avrebbe lasciato posto ad un polveroso cumulo di mattoni.

Volsi un ultimo saluto alla salma del mio vecchio e abbandonai la chiesa per tornare sul sentiero, che l’azione del tempo aveva reso quasi indistinguibile dal resto del suolo. M’incamminai verso la mia lontana destinazione, ben consapevole che avrei fatto la fine di mio padre se mi fossi limitato a proseguire lungo la strada stabilita prima dell’inizio del viaggio: dovevo trovare il modo di deviare verso un centro abitato presso cui fare rifornimento d’acqua e viveri. Secondo la mappa, estremamente imprecisa, il villaggio più vicino si trovava a quattro giorni di distanza, ed io avevo provviste per soli due giorni, inoltre ero già sfinito. Mi sentivo stranamente ottimista in quel momento, ed ero piuttosto sicuro che sarei riuscito nella mia impresa, ma ragionandoci sopra, non era poi tanto scontato che il mio tentativo potesse avere un esito positivo. Razionare ulteriormente il cibo sarebbe servito soltanto a rendere ancor più terribile il morso della fame in ciascuna delle singole giornate; ma se avessi fatto altrimenti, come mi sarei comportato una volta giunto il termine del secondo giorno? Avrei finito per arrancare nella polvere per due intere giornate, a stomaco vuoto, e non credevo di poter reggere la prova, in primo luogo dal punto di vista mentale.

Quel giorno camminai senza sosta, più velocemente che potevo: il risultato fu che dopo quattro ore di marcia estenuante mi ritrovai ad incespicare senza fiato ogni dieci passi. Allora rallentai ed estrassi dallo zaino due fette di pane secco e l’ultima scatoletta di carne; senza smettere di camminare, consumai il mio misero pasto. Bevvi qualche sorso dalla bottiglia e pensai agli amici che mi aspettavano al villaggio: l’unica cosa che non ci avevano fatto mancare era l’acqua. Per quanto riguardava il cibo, dubito che sarebbe bastato, anche se avessimo seguito il percorso più breve. Ma non potevo biasimare la loro parsimonia: il cibo scarseggiava per tutti, in tutti i villaggi. Soprattutto in quella stagione. Era la più fredda dell’anno e, con le sue misere otto ore di luce al giorno, sapeva rendersi estremamente odiosa. Non che le altre fossero tanto migliori, ma almeno la temperatura saliva di qualche grado, i letti sassosi dei torrenti si riempivano d’acqua torbida e qualche rara bestiola veniva avvistata mentre scorrazzava sull’asfalto sgretolato delle strade che solcavano il deserto. Continuavamo a chiamarle con i loro vecchi nomi, ma ormai le stagioni non era più quelle di un tempo. Dopo altre tre ore di cammino, le nuvole avevano assunto la caratteristica sfumatura rosea che annunciava l’imminente sopraggiungere delle tenebre. Faceva un freddo terribile: il respiro si condensava in bianche nuvolette vaporose. La luce diminuiva rapidamente, e presto sarebbe calata la notte, ma fortunatamente avevo già adocchiato il punto in cui mi sarei accampato fino al mattino successivo.

Era un grosso autotreno ribaltato su un fianco; il rimorchio formava un angolo di circa novanta gradi col locomotore e trasmetteva un’impressione di sicurezza che avrebbe fatto invidia alla chiesa della sera precedente. Forse perché il camion non minacciava costantemente di seppellirmi sotto una montagna di macerie. La sua immensa mole mi avrebbe protetto dal forte vento notturno che spirava da occidente. Percorrendo gli ultimi metri che mi separavano dal possente veicolo, fui assalito da un tremore insistente e particolarmente fastidioso: tirai su la cerniera della mia vecchia giacca a vento rossa, fino a coprirmi il mento col bavero sdrucito. Quella giacca l’aveva trovata mio padre fra i resti di un discount, nella zona periferica della metropoli, due anni prima. Era come nuova, quando l’avevo indossata per la prima volta; ma ora era ridotta a un colabrodo, rattoppato in più punti con fili e pezze di diversi colori. Non era più un gran bel vedere, ma scaldava ugualmente. Una volta raggiunta la nicchia formata dai due segmenti del camion, le nuvole del cielo erano di un colore viola scuro. C’era solo una cosa che rimpiangevo della sistemazione del giorno prima: gli alberi rinsecchiti da cui avevo ricavato la legna per il falò. Questa volta mi trovavo in mezzo alla desolazione più totale, in compagnia del solo relitto del camion. Avrei dovuto ricorrere alla riserva d’emergenza: quella sera avrei utilizzato la legna che portavo nello zaino. Mentre accendevo il fuoco, presi mentalmente nota che la riserva andava rigenerata al più presto. Quando il falò fu abbastanza grosso e luminoso, mi concessi, per svago, di dare un’occhiata al camion, alla ricerca di qualcosa di utile. Ma era ovviamente tutto vano: qualcuno ci aveva già pensato prima di me, e il veicolo era completamente spoglio. L’abitacolo era vuoto, privo dei sedili e del parabrezza, il serbatoio era totalmente a secco, dei fanali e dei copertoni non c’era traccia. I cassoni non contenevano altro che qualche asse di legno marcio inchiodate fra loro. Vecchi bancali. Chissà cosa aveva trasportato quell’autocarro. Non l’avrei mai saputo: la scritta sul fianco era troppo rovinata. Rassegnato, mi diressi verso la nicchia e mi sedetti accanto al fuoco, all’interno dello stretto cerchio di luce tremolante che esso produceva. Il calore delle fiamme iniziò a penetrare nelle mie ossa infreddolite, ed io iniziai a sentirmi meglio: i brividi mi abbandonarono e la mia mente si snebbiò. Mentre fissavo il fuoco, come incantato, le mie mani si muovevano meccanicamente all’interno dello zaino, alla ricerca di qualcosa da mangiare. Estrassi la bottiglia dell’acqua e il tonno in scatola. Mangiai lentamente, assaporando il pesce: mi era capitato di rado di mangiarne, e non trovavo che fosse poi tanto differente dal manzo sott’olio. Gli adulti dicevano che era normale trovare poco saporito il cibo conservato: prima della guerra esisteva il pesce fresco, con gusto ben differente da quello della carne degli animali della terra ferma. Da canto mio, avevo smesso da tempo di sperare nell’avvistamento di qualsiasi forma di vita nei corsi d’acqua. Mi chiedevo come potessimo sopravvivere così a lungo bevendo acqua che persino i pesci avevano ripudiato.

Il mattino seguente mi svegliai al sorgere del sole, notevolmente infreddolito e con un gran mal di ossa. Mi districai dalla coperta e mi alzai in piedi a fatica, dopodiché mi misi a camminare in cerchio attorno ai resti del fuoco, nel tentativo di sgranchire le articolazioni. Mentre camminavo ripiegai accuratamente la coperta e la infilai nello zaino, poi diedi un’occhiata alle provviste rimanenti. C’era ancora una porzione di tonno in scatola, due buste di cibo disidratato e una fetta di pane rinsecchito. Le buste contenevano cibo insipido e dalla consistenza sabbiosa: avrei fatto volentieri a meno di quella schifezza, ma non potevo certo permettermi di fare lo schizzinoso in una situazione come quella. C’era chi affermava che le vere lasagne fossero tutta un’altra cosa, e io non faticavo certo ad immaginare qualcosa di più gustoso di quella brodaglia viscida. Anche perché la differenza fra i vari tipi di cibi disidratati era praticamente nulla, che si trattasse di braciola di maiale o d’insalata mista. Una volta aggiunta l’acqua si otteneva una gialla poltiglia omogenea che riempiva la busta per intero e andava, di fatto, bevuta come da un bicchiere. Buttai giù la brodaglia in quattro sorsi e, malinconicamente, pensai ai poveri soldati che s’erano nutriti di quella robaccia per svariati mesi, durante la guerra. Mi sarebbero mancanti i racconti di guerra di mio padre.

Ripresi il cammino pochi minuti dopo e proseguii senza sosta finché il morso della fame non divenne insopportabile. Quando mi sedetti a ridosso di un grosso tubo arrugginito che spuntava dal terreno arido, dovevano essere passate circa cinque ore dalla mia partenza. Restai seduto a riprendere fiato, mentre ammiravo il deprimente paesaggio che mi circondava. La strada che stavo percorrendo, diceva la mappa, andava da nordest verso sudovest; in passato era stata un’importante via di comunicazione, una di quelle che venivano chiamate superstrade. Seguendo il percorso dettato dalla mappa mi ero spesso trovato a camminare fra le rovine di grandi città abbandonate: ero stato tentato varie volte di fermarmi a frugare tra le macerie alla ricerca di provviste, ma allontanai quel pensiero, perché sapevo che le probabilità di trovare cibo erano molto basse, e mettersi a cercarlo sarebbe costato tempo prezioso. Probabilmente, quel pezzo di carta straccia che chiamavo mappa aveva un’importanza equiparabile a quella del cibo o del CD: chissà dove sarei andato a finire se non l’avessi avuta con me. Ripiegai il foglio su se stesso fino a ridurlo ad un quarto della sua superficie iniziale, dopodiché lo riposi in una tasca dello zaino e pensai a riempirmi lo stomaco.

Se non altro, il cibo disidratato sfamava più di qualsiasi altra cosa. Gli scienziati lo avevano creato agli inizi della guerra utilizzando tutte le tecnologie più innovative: il contenuto delle buste aveva ben poco in comune col normale cibo liofilizzato. La busta argentea che avevo in mano conteneva tutte le sostanze indispensabili alla sopravvivenza del corpo umano, con l’aggiunta di qualche  enzima smorza-fame e vari tipi di aromi che conferivano alle razioni il sapore del cibo vero. Su quest’ultimo punto si poteva discutere, ma c’era chi giustificava l’inconveniente dicendo che col tempo l’aroma perdeva consistenza. Effettivamente la guerra era durata ben dodici anni, e dalla sua conclusione ne erano passati altri venti. Mentre attendevo che l’acqua sciogliesse del tutto la polvere contenuta nella busta, bevvi due sorsi dalla bottiglia. Poi mi misi a mangiare. Pensai al pane e al tonno: era tutto ciò che mi restava, ma non era molto. Quella sera sarei rimasto digiuno, preservando le ultime due porzioni di cibo per il giorno seguente.

  
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