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Autore: Shari Deschain    03/03/2013    2 recensioni
Modern!AU, ovvero un altro universo in cui le vite di Snow White e Charming si scontrano, si dividono, si riscontrano, si ridividono e infine si ritrovano ancora.
Genere: Angst, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: David Nolan/Principe Azzurro, Mary Margaret Blanchard/Biancaneve
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Warnings: Modern!AU, Fluff, Angst, Prostituzione.
Word Count: 4319 (fdp)
Disclaimer: Niente di mio, non ci cavo un euro.
N/A: Scritta per il COWT3 @ maridichallenge missione speciale, prompt “Legno e/o Verde” #TeamSuthiAllaRiscossa, per Sconfiggiamo l'autofill @ piscinadiprompt, prompt “Once Upon A Time, Snow/Charming, Ricerca infinita”, e per 500themes_ita, prompt “#81. Attraverso i mondi”.
─ La rilettura del Miglio Verde di Stephen King potrebbe aver influito non poco nella realizzazione di questa storia *cough*





Across the universe





Ci sono urla e ci sono risate, grida di battaglia e canzoncine cantate sottovoce, ci sono principi, principesse, draghi, pirati, fate e streghe, ci sono scaramucce e promesse di amicizia, si prende il tè per finta e si fa la guerra per davvero, si iniziano e finiscono storie, si rivivono fiabe, le si cambia, le si finisce. E tutto sotto lo sguardo attento della maestra.

Troppo attento, ritiene David, mentre cerca di sgattaiolare verso il limitare del giardino. Non è una cosa facile da fare: bisogna attraversare quasi tutto il campo giochi e, a parte gli scivoli, non c'è molto altro dietro cui nascondersi. Ci prova comunque, perché ha un'avventura da portare a termine, e non può certo farlo lì, in mezzo a tutti gli altri bambini. I veri eroi agiscono sempre da soli, si sa.

Quindi si avvia con passo tranquillo, fingendo disinteresse. Fischierebbe, se sapesse come farlo, invece si accontenta di tirare calci a qualche sassolino, con la sua migliore espressione di innocenza stampata sul volto. Gli occhi della (strega) maestra si posano per un attimo su di lui, poi passano oltre, concentrandosi su due bambini che giocano agli zombie. David sorride, getta un'occhiata intorno a sé, e poi parte di corsa verso i cespugli che segnano il limite tra il giardino dell'asilo e l'inizio del parco.

Ci mette meno di venti secondi per arrivarci, ma sono sicuramente i venti secondi più lunghi della sua breve, giovane vita. Corre a perdifiato, con il cuore che batte forte, le orecchie tese per cogliere un eventuale rimprovero che segnerebbe la fine prematura della sua (avventura) tentata fuga. Ma nessuno urla il suo nome, e quando rialza il volto per spiare tra le foglie del cespuglio dietro cui si è tuffato, può constatare con soddisfazione che nessuno ha badato a lui. È solo, ed è libero, e può finalmente fare quello che vuole. Ride con le mani sporche schiacciate sulla bocca, mentre si congratula con se stesso, poi si volta a guardare il nuovo regno appena conquistato.

Il parco è grande, grandissimo, infinito, anzi. Gli alberi sono alti come grattacieli ed intorno a lui è tutto così verde da sembrare quasi colorato con i pastelli a cera. È sicuramente un luogo magico, un posto pieno di caverne e mostri e tesori nascosti. David non ha dubbi a riguardo. Quindi si inoltra tra la boscaglia con massima cautela, schiacciando il tappeto di foglie ed erba che scricchiola dolcemente sotto i suoi passi, cercando con occhi attenti il primo (nemico) segno di vita.

Non si aspetta di trovarne davvero, un po' perché sa che lui è l'unico abbastanza coraggioso da sfidare l'ira della (strega) maestra, e un po' perché qualsiasi nemico avrebbe troppa paura di lui e della sua spada per affrontarlo. Ne è così sicuro che, quando infine qualcuno lo attacca, spintonandolo alla spalle, ci manca poco che non gridi e se la dia a gambe, lasciando cadere la sua arma.

Invece cade a terra, tra le foglie e il fango, e subito dopo ha la prontezza di rotolare sulla schiena e alzare la spada verso il suo aggressore.

«Indietro, marrano!», urla, agitando alla cieca i due bastoncini incrociati e malamente legati l'uno all'altro con il laccio di una vecchia scarpa.

«Cosa vuol dire “marrano”?», domanda il suo avversario, palesemente confuso.

David lo guarda. La guarda anzi, perché, con sua somma vergogna, il nemico che l'ha preso alle spalle è una bambina. Una bambina molto carina, nota con disgusto. Una bambina con i fiori intrecciati tra i boccoli neri e un lungo vestitino bianco pieno di pizzi e merletti. E lo ha steso. Lei. Lo. Ha. Steso.

«Vuol dire schifoso», risponde, arricciando il naso. Poi si rimette in piedi, scuote via i residui di erba, tenta di trattenere quel che rimane della sua dignità e la fissa dritto negli occhi. «Perché prendere la gente alle spalle è una cosa da schifosi, sai?», aggiunge con disprezzo.

Gli occhi della bambina si infiammano subito, e le sue guance si tingono di un rosso acceso.

«Io non sono schifosa!», protesta. «E tu sei entrato nel mio castello, non avresti dovuto! Questo posto è mio!», strilla, battendo un piede a terra.

David torna ad agitare la spada in segno di minaccia.

«Io non vedo nessun castello! E poi questo è un parco pubblico, che significa di tutti, quindi non può essere tuo», ribatte astioso.

La bambina scuote con forza la testa, facendo cadere molti dei fiori che si era sistemata tra i capelli, poi indica con il piccolo dito un tronco alle loro spalle.

«Il mio castello è lassù», spiega. «Ed è mio perché io sono l'unica a conoscerlo.»

«Be', ora lo conosco anche io», replica David. Poi, incuriosito, si volta a guardare l'albero in questione. Non è molto alto, ma ha un tronco larghissimo, tanto che tre bambini insieme non potrebbero abbracciarlo. I suoi rami sono altrettanto grossi e tozzi, larghi abbastanza da poterci camminare sopra senza perdere l'equilibrio ─ proprio come si farebbe sui cammini di ronda, pensa ─ e sono talmente intrecciati da creare una specie di gabbia o, per menti un più fantasiose, una specie di stanza. Altri rami si innalzano verso il cielo come torrette, e il manto di foglie che scende da essi sventola pigramente, proprio come farebbero degli stendardi al vento. È davvero un castello, realizza meravigliato.

Torna a girarsi verso la bambina, leggermente confuso sul da farsi. Se fosse un altro maschio potrebbe sfidarlo a duello, fare una guerra per conquistargli la fortezza, o chiedergli di prenderlo come capo delle guardie reali. Ma è una femmina, e David con le femmine non sa che farci.

La bambina, intanto, deve aver notato il suo stupore e la sua invidia, perché ora sorride soddisfatta, contenta di averlo messo al posto suo. David distoglie lo sguardo e calcia via un sasso, irritato e imbarazzato.

«Vuoi salirci?», domanda però la bambina, prendendolo di sorpresa. «Posso invitarti, se vuoi.»

Per un momento David ha la forte tentazione di dire di no, poi la voglia di arrampicarsi, di percorrere e di giocare tra le vie segrete di quei rami grossi come strade hanno la meglio sul suo orgoglio.

«Davvero?», domanda, spalancando gli occhi. E poi aggiunge: «Ma se è per costringermi a giocare alle principesse non vengo. Le principesse sono delle marrane!»

Di nuovo la bambina fa una faccia offesa. David si aspetta che lei risponda che le principesse sono bellissime e intelligenti e hanno dei castelli, grazie tante, invece lei avanza e lo spintona un'altra volta.

«Ahi!», protesta.

«Io non gioco alle principesse. Sto combattendo un drago!», risponde, sdegnosa.

«Le bambine non combattono i draghi, quello è compito degli eroi»

«Io sono un'eroina!»

«Non esistono le eroine!»

«E Xena, allora?», domanda la bambina, incrociando le braccia sul petto.

David non sa cosa ribattere. La bambina la prende come una resa e torna a sorridere.

«Se mi costruisci una spada come la tua puoi venire nel mio castello», decide infine, buttandosi un ciuffo di capelli dietro l'orecchio. «Possiamo uccidere il drago insieme, con le mie bombe di fuoco magico!», aggiunge, tirando fuori dalle tasche del vestito una manciata di ghiande colorate per mostrargliele.

David ci riflette per qualche secondo. È una femmina e lo ha già spinto due volte, ma ha un castello, un drago, e delle ghiande da usare come bombe a mano. Non è una scelta difficile.

«D'accordo, ti farò una spada. Ma sarò io a strappare il cuore dal petto del drago!», puntualizza.

«Ew!», esclama la bambina che, dopotutto, è pur sempre una femmina. «Fai pure.»

David annuisce e si mette a cercare due bastoncini con cui costruire un'altra spada, e una volta armati si arrampicano fino alla sala principale del castello. Lì distruggono il drago, tre orchi, un troll, due streghe e un polipo volante. Giocano fino a pomeriggio inoltrato, ovvero fino a quando una trafelata maestra non riesce infine a scovarli.

Solo quando infine torna a casa, tra le braccia di una madre furiosa, preoccupata e sollevata insieme, David si rende conto di non sapere il nome della bambina. E, più stranamente, si accorge anche che la bambina senza nome gli piace perché, pur essendo una femmina, sa combattere davvero bene. E sarebbe davvero un peccato non riuscire più a rivederla, perché si è divertito un sacco a giocare con lei quel pomeriggio. Molto più di quanto onestamente si aspettasse.

Dopo essersi sorbito ore di sgridate sia dalla maestra che da sua madre, il bambino si lancia sul suo letto, si rigira da una parte all'altra per qualche istante e poi si mette a fissare il soffitto.

Non importa, dice a se stesso un attimo prima di addormentarsi. La ritroverò.


****


(Due giorni dopo il padre della bambina rimane vittima di un non chiaro incidente, e la piccola è costretta a trasferirsi in fretta e furia con la matrigna in un'altra città. Non fa in tempo a tornare al suo castello, non ne ha nemmeno tanta voglia. Per un po' lo ricorda con affetto, soprattutto quando si sente triste e ha bisogno di tirarsi su di morale; poi svanisce del tutto, come spesso fanno i bei ricordi nei momenti di miseria.

Nei mesi successivi, David, invece, ci torna parecchie altre volte. Contro ogni sua aspettativa e speranza, lo trova sempre vuoto. Per un po' ci gioca da solo, ma strappare il cuore ai draghi non gli risulta più tanto divertente; poi, con il tempo, se ne dimentica completamente, come succede alla maggior parte dei ricordi d'infanzia non molto significativi)


****


Il mondo è fatto del nero della notte e del rosso e blu dei lampeggianti. È fatto dell'ululato delle sirene e degli strilli delle altre donne. Della puzza di fogna delle strade e dell'odore del proprio sudore che ricopre la pelle come un umido velo.

Snow White corre nella notte, calcando sicura sui tacchi alti, inciampando nelle irregolarità delle strade malamente asfaltate di quei vicoli bui che conosce fin troppo bene. Abbastanza da sapere che non c'è nessuna via d'uscita, comunque.

Continua a correre lo stesso, ignorando i richiami del poliziotto alle sue spalle. Si aspetta davvero che lei si fermi? Che diamine hanno nella testa queste persone? Si mettono una divisa addosso e pretendono che il resto del mondo si inginocchi ai loro piedi?

Corre, corre, corre. Corre fino a quando la strada non finisce e i muri non si innalzano tutt'intorno a lei come per intrappolarla. Dal forte ansimare alle sue spalle deduce che il poliziotto è riuscito a tenerle testa, nonostante tutto. Peccato. Per un attimo ci ha sperato davvero di cavarsela.

Si volta a guardarlo, fiera e provocatoria. Sa di avere le calze strappate e il trucco sbavato, sa di essere sudata e sporca e impaurita, ma non per questo lascerà che qualcuno la creda debole o spaventata. Mai più, ha promesso a se stessa.

L'uomo che si è dato tanto da fare per catturarla è poco più che un ragazzo, scopre infine. È biondo, e ha occhi grandi e spaventati quasi quanto i suoi. Ha la pistola spianata, ma gli trema la mano.

«Mani in alto e voltati contro il muro!», le ordina.

Snow sorride.

«Di solito prima di dirmi cosa fare mi pagano», ribatte.

Il poliziotto arrossisce. Lei ne è così deliziata che quasi non riesce a crederci. Ride, poi apre la bocca per prenderlo in giro, ma in quel momento un altro uomo in divisa si affianca al ragazzo. È più vecchio, è più esperto, e ha molti meno scrupoli.

Snow si ritrova ammanettata e schiacciata sul sedile posteriore di una della auto della polizia, insieme ad altre due prostitute. Prima o poi sarebbe finita così, era solo questione di tempo, dice a se stessa. Lo ha sempre saputo, in fondo. Mentre continua a rimproverarsi nota che il poliziotto giovane le lancia occhiate di soppiatto dallo specchietto retrovisore. Allora sorride di nuovo, con ironia e cattiveria.

«Sono Snow White, vuoi essere il mio Charming?», domanda, facendogli l'occhiolino.

Le altre ragazze ridono. Il poliziotto più anziano le intima di chiudere la bocca. Il ragazzo distoglie immediatamente lo sguardo e, anche se lei non può vederlo, è pronta a scommettere che è arrossito di nuovo. Adorabile.

Alla fine la rilasciano su cauzione, un po' perché è la sua prima volta, ma soprattutto perché la Mistress per cui lavora ha non poche indiscrete conoscenze in quel distretto. Ciò non toglie che la pagherà a caro prezzo, tutte loro pagheranno, Snow White lo sa ancora prima di incontrare lo sguardo furioso di Regina. A lei non importa più di tanto, non è che prima facesse una vita da principessa, comunque.

Mentre viene scortata fuori dalla cella, incrocia per un attimo lo sguardo del poliziotto che l'ha inseguita. Per nessuna ragione al mondo lui le sorride, un sorriso pieno e bello, di quelli che si rivolgono ad un amico di cui si è sentito molto la mancanza. Snow considera per un attimo l'idea di mostrargli il medio, invece si ritrova ─ anche in questo caso senza uno straccio di motivazione ─ a sorridergli a sua volta. È una strana serata, decide poi.

Per un paio di settimane lavora a casa ─ o meglio in quella bettola squallida che lei e le ragazze occupano a turno per gentile concessione di Regina ─, poi le acque sembrano di nuovo abbastanza calme per permettere loro di tornare in strada. Anche questo era questione di tempo. E lei si è giocata la sua prima volta, ora è praticamente una veterana, pensa con ironia.

È Red ad accorgersene per prima. Le si avvicina una notte, in un momento di calma totale per entrambe, e tende le mani coperte dai guanti rossi verso il fuoco che zampilla contento nel venticello leggero.

«Ti sei fatta un ammiratore. O uno stalker. Mai capita la differenza», annuncia sottovoce, con lo stesso tono con cui parlerebbe del tempo.

Snow solleva un sopracciglio e la guarda come se fosse impazzita. Red sbuffa, butta all'indietro ─ con una mossa perfettamente studiata ─ i lunghi capelli neri, e in quel modo le indica col dito una macchina parcheggiata poco distante.

«È la terza volta che si ferma lì, stanotte. E solo quando tu sei qui e non con qualche cliente», aggiunge con una smorfia più che eloquente.

Snow gira intorno al fuoco, spiando l'automobile da sotto le ciglia finte. Non riconosce il conducente fino a quando una macchina non passa veloce in mezzo a loro e i suoi fari illuminano l'altro abitacolo per qualche istante. Allora attraversa a grandi passi la strada, consapevole dello sguardo curioso ma attento della sua amica piantato sulla schiena, e si avvicina fino a riuscire a bussare al finestrino dell'auto.

«Vuoi arrestarmi di nuovo? Non hai di meglio da fare?», sibila furiosa, mentre il volto del poliziotto che l'ha inseguita in quel vicolo poche settimane prima, appare lentamente da dietro il finestrino che si abbassa pian piano.

«No, io... io non sono in servizio», risponde il poliziotto, palesemente preso in contropiede.

«Quindi pensi di potermi minacciare?», ringhia Snow White. «Di potermi far fare quello che vuoi sotto la minaccia di denunciarmi? Sei un essere spregevole, un maledetto figlio di─»

«Voglio solo invitarti a prendere un caffè!», esclama lui, alzando le mani al cielo in segno di resa.

«...Cosa?»

«Un... caffè. E qualcosa da mangiare, magari», aggiunge il poliziotto. E le sorride. Di nuovo.

«Non so che diamine ti sei messo in testa», sibila Snow in tono basso e pericoloso. «Ma qualsiasi cosa sia, non mi interessa. Se hai cattive intenzioni, sappi che ho un coltello nello stivale e che non ho niente da perdere nell'usarlo. Se invece hai buone intenzioni, sappi che ho visto anche io Pretty Woman, ed è una stronzata pazzesca. Quindi sparisci dalla mia vista.»

Il poliziotto la osserva con occhi perfettamente impassibili per qualche secondo, poi si solleva per estrarre il portafogli dalla tasca posteriore dei jeans e, senza smettere di guardarla, tira fuori due biglietti da cinquanta.

«Vorrei che venissi a prendere un caffè con me», le dice, senza alcuna traccia di sarcasmo.

È il turno di Snow White di arrossire. Guarda i soldi con un disprezzo che raramente ha mai provato prima, e poi guarda lui con una rabbia e una voglia di piangere che, invece, conosce molto bene. Ma non si rifiuta un centone per un caffè, non in un lavoro come il suo.

«Perfetto», replica quindi, afferrando le banconote e infilandosele nel reggiseno. «Ma se è una qualche specie di trappola...»

«Meglio che sappia che me ne pentirò», continua lui, questa volta con un'inflessione leggermente divertita. Ancora una volta, invece dell'insulto che spontaneamente le sale alle labbra, Snow risponde con un sorriso.

Finiscono la notte in un autogrill poco lontano, bevendo caffè grigio dal sapore di cartone e mangiando le ciambelle glassate più buone che entrambi abbiano mai assaggiato. Parlano di musica, di libri, di film e delle serie tv che preferiscono. Su molte delle cose sono d'accordo, su altre si scontrano fino a lanciarsi pezzi di ciambella addosso. Nessuno dei due parla di se stesso, nessuno dei due chiede all'altro di farlo. Lui la riaccompagna al suo vicolo in perfetto silenzio, e la saluta con un semplice buonanotte.

Snow rimane a fissare i fanalini di coda dell'auto scomparire nelle prime luci dell'alba, e si rende conto che hanno così tanto evitato di andare sul personale che nessuno dei due ha nemmeno rivelato il proprio nome (o perlomeno, nel suo caso, il suo vero nome). Lui potrebbe facilmente reperire delle informazioni alla stazione di polizia ― se non l'ha già fatto ―, mentre lei non ha alcun modo di sapere nulla, a meno, forse, di non essere arrestata di nuovo da lui ─ e no, grazie tante, la sua curiosità non vale tanto.

Risponde con una linguaccia all'espressione curiosa di Red, e scuote la testa per dire che è troppo stanca per parlare, che le spiegherà tutto un'altra volta. La ragazza annuisce e si stringe nelle spalle, come a dire quando vuoi, tanto io sono qui. È una buona amica.

Meno di mezz'ora dopo, Snow si avvia lentamente verso la macchina che è venuta a raccoglierle per riportarle in quella che, suppone, si potrebbe definire la loro casa. Sta ancora pensando al poliziotto, al significato di quella serata, al fatto che è un gioco pericoloso quello che potrebbe stare giocando e che, in fondo, non le importa.

Lo ritroverò, pensa stancamente, mentre si accascia sul sedile dell'auto di Regina. Solo per farmi spiegare che diamine pensava di fare. Niente di più.

Lo ritroverò.


****


(Una settimana più tardi, il fratello gemello del poliziotto, nonché suo collega, viene coinvolto nello scandalo creato da un'inchiesta sulla corruzione delle forze dell'ordine. Il poliziotto, suo padre e suo fratello, tutti agenti per tradizione di famiglia, vengono trasferiti il più lontano possibile da quella città. Il poliziotto, che deve già lottare per mantenere pulito il suo nome, non può più permettersi di pensare alla sua bella prostituta fino a quando non è troppo tardi.

Ad un certo punto, infatti, Snow White decide di non poterne più, e che è giunto il momento di fuggire. Mette da parte più soldi che può e, una notte come tante altre, prende il primo volo disponibile per il posto più lontano che riesce a permettersi. Ogni tanto ripensa al poliziotto, ma sospira e scuote la testa. Non è mai stata un'illusa, il periodo in cui credeva alle fiabe è durato poco, e ora deve allontanarsi dall'ira della sua matrigna. Il resto non importa)

****


Il sole, ancora lento e assonnato, ha dato inizio all'alba da non più di una manciata di minuti, e sol adesso il mondo torna pian piano a fiorire di luce e di colori. È un cambiamento troppo graduale per coglierne ogni sfumatura, ma è comunque bellissimo da guardare, soprattutto in un giardino. Si preannuncia un giorno caldo ― è pieno agosto, in fondo ― ma le prime ore della mattina promettono di essere belle e fresche come una giornata di primavera.

Il vecchio chiude gli occhi, stringe le mani intorno alla balaustra della veranda e si sporge per inspirare meglio il profumo dei fiori, contento per quel momento di pace. Non che, di solito, ci sia una vivacità insopportabile in quel posto ― è pur sempre una casa di riposo per anziani, dopotutto ―, ma i momenti di solitudine rimangono comunque troppo pochi, tra gli infermieri che insistono per le odiose attività di gruppo e gli altri pensionanti che cercano di socializzare per fare fronte comune contro gli infermieri.

È così assorto che non nota i passi leggeri alle sue spalle, e solo lo scricchiolio delle vecchie assi di legno (vecchie come lui, se non di più, quindi con tutto il diritto del mondo a scricchiolare impunemente, proprio come le sue ossa) riesce infine ad attirare la sua attenzione.

Si volta piano, con la cautela dovuta alla pesantezza degli anni, e al suo fianco trova una vecchietta dai corti capelli bianchi e un sorriso contento. È avvolta in una vestaglia rossa, e ha una tazza di tè profumato di cannella tra le mani secche e rugose.

«È una bella giornata, non è vero?», domanda la vecchia, con lo sguardo fisso sull'orizzonte che va colorandosi di rosa e di azzurro.

Il vecchio annuisce. Non è affatto strano trovare la maggior parte degli ospiti dell'ospizio già in piedi ancora prima dell'alba (non dormono molto, i vecchi), ma è abbastanza strano trovarne fuori in veranda (i reumatismi sono una brutta bestia anche in estate). Così strano, anzi, che con il tempo il vecchio ha preso a considerare quel posto come il suo rifugio segreto, almeno nelle prime ore del mattino.

«Appena arrivata?», domanda quindi, alla straniera usurpatrice. Non ricorda di averla mai vista, ma è anche vero che la sua memoria non va più come una scheggia da molti anni ormai, e che, comunque, non si è mai preoccupato troppo di fare vita sociale.

«Sì, giusto ieri notte», conferma la vecchia.

«Nipoti o figli?», chiede ancora lui.

«Come?»

«Chi ti ha rinchiuso qui, i tuoi figli, o i tuoi nipoti?»

La vecchia si gira a guardarlo con occhi leggermente spalancati, poi scoppia a ridere. È una risata graffiata, quasi logora, come le cose che si è usato troppo o troppo poco.

«Nessuno mi ha rinchiusa qui. Ci sono venuta di mia volontà», spiega poi, con ancora un pizzico di divertimento nella voce.

Il vecchio alza un sopracciglio bianco e cisposo, poi scuote la testa.

«Non dirlo in giro. Gli altri prigionieri ti considererebbero una spia», le dice, con un sorriso a stento trattenuto.

Lei sgrana di nuovo gli occhi.

«Una spia? E di chi?»

Il vecchio si stringe nelle spalle, dopodiché allunga un braccio verso la casa, indicando tutto e niente, tutti e nessuno.

«Degli infermieri. Dei parenti che sostengono che questo posto è molto meglio di casa loro. Del sistema», l'ultima parola la sussurra sotto voce, con tono di cospirazione.

La vecchia ride ancora.

«Siamo nel mezzo di una guerra, quindi?»

«Una guerra di vecchi», conferma lui. «L'ultima grande avventura. E la prendono sul serio, meglio che tu lo sappia fin da ora. O sei con loro o ti rubano il bastone da passeggio.»

«Bene, mi sono sempre piaciute molto le avventure», approva la vecchia. «E poi ho bisogno del mio bastone, ho tutte le intenzioni di visitare questo giardino. Il dépliant lo descriveva come “assolutamente delizioso”.»

«È una delle poche cose su cui non mentiva», sospira il vecchio. «Anche io amo molto i giardini», aggiunge poi, come un ripensamento. «Adesso sono pieni di cose di plastica e fiori artificiali, non li lasciano più spogli nemmeno in inverno perché “creano tristezza”», si interrompe per far schioccare le labbra in un suono indignato, poi riprende: «Ai nostri tempi erano più belli e più veri, e non è nostalgia da vecchi, ma la sacrosanta verità!»

La vecchia annuisce e finisce il suo tè alla cannella.

«Ricordo un parco, vicino alla casa in cui vivevo quando ero piccola», racconta. «Era il mio posto speciale. La mia fortezza dei giochi. Ci ho passato i pomeriggi migliori della mia vita, in quel posto.»

Lui non dice nulla, comprendendo bene il sentimento. Per un attimo gli sovviene alla memoria l'immagine di un castello in cima ad un albero, con stendardi di foglie e granate di ghiande colorate, poi il ricordo sfuma via, perso tra milioni e milioni di altri.

«E tu invece?», domanda poi la vecchia, nel tentativo di scacciare quella fastidiosa nostalgia. «Figli o nipoti? Chi ti ha rinchiuso qui?»

Il vecchio grugnisce.

«Nipoti. Figli di mio fratello, ingrati e cattivi quanto lui», borbotta. «Appena mi hanno congedato dalla polizia quasi non mi hanno dato nemmeno il tempo di togliermi la divisa, prima di convincermi a ritirarmi qui.»

«Eri un poliziotto?»

«Da tutta la vita. Il che non è abbastanza per garantirti una pensione decente, comunque.»

La vecchia annuisce di nuovo, e intanto ripensa ad un poliziotto che ha conosciuto tanto tempo prima, in uno dei periodi più bui della sua lunga, avventurosa vita. Non ricorda più il suo volto, ma ricorda la bellezza del suo sorriso. È un ricordo che non manca mai di scaldarle il cuore.

«Vuoi sederti?», domanda il vecchio, indicandole una panca di legno dall'aspetto consunto (i vecchi, si sa, si stancano facilmente). Ma lei scuote la bella testa candida, e si volta a guardarlo con un sorriso malizioso e un brillio negli occhi chiari.

«Perché, invece, non ci avventuriamo nell'esplorazione del giardino?», propone.

Il vecchio rimane perplesso per un attimo.

«A dire il vero non ci sarebbe permesso andarci così presto. La rugiada... erba bagnata... è facile cadere», borbotta.

«Ha importanza?», domanda lei, sempre sorridendo. Questa volta lui ricambia, ed entrambi provano una sensazione di familiarità che nessuno dei due, però, riesce a spiegarsi.

«Vado a prendere i bastoni da passeggio», decide lui, dirigendosi verso la porta. Sulla soglia però si ferma e si volta indietro, ad osservare la figurina sottile e antica che lo fissa a sua volta con palese simpatia.

«Io sono David», si presenta.

«Mary Margaret», replica lei. «O perlomeno questo è il nome che uso adesso», aggiunge misteriosa.

David piega la testa di lato, con un'espressione interrogativa e insieme divertita sul volto.

«Hai una bella storia alle spalle, non è vero?», non è propriamente una domanda. «Me la racconterai?»

Lei si stringe nelle spalle e alza il volto ad osservare il cielo che scivola dall'azzurro pallido in un turchese più prepotente. Il cinguettio degli uccellini si fa più convinto: è davvero nato un nuovo giorno.

«Forse», risponde poi. «Ma non oggi. È una giornata troppo bella.»

«Quando vuoi. Tanto io non vado da nessuna parte», ribatte David, tornando a voltarsi verso la porta.

«E nemmeno io», replica Mary Margaret un attimo dopo, sempre sorridendo.



   
 
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