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a. C.
A Capua batte un
sole
possente quest’estate: fa ardere i roghi giù in
città così che tutti si
affaccendino a spegnerli; infiacchisce le membra, così che
ogni opera sia
gravosa per il corpo; scatena la sete, così che perfino
nelle ville patrizie si
provveda alla parsimonia; mette a dura prova i soldati appesantiti
dalle
loriche, scaccia ogni speranza di piovaschi, infiamma la polvere
dell’arena
calpestata dai gladiatori, secca il mio sangue sparso sul pavimento del
vestibolo prima che
un’altra schiera
di schiave possa lavarlo via.
Venivo dal Rhenus,
il fiume era la mia casa, al vento cantavo con il promesso sposo. Mi
estirparono da quel suolo, da quei boschi, al modo in cui un ragazzino
borioso
strappa un fiore dal prato e se ne compiace. Ah, se Natura non
m’avesse
effigiata in avvenenza. Ah, se fossi nata uomo! A quest’ora
quelle acque amate
starebbero richiamando le mie spoglie. Ma donna sono stata, di pelle
candida e
odorosi capelli biondi, così non su quelle sponde ma in
questa terra ostile
abbandono mestamente la vita dopo che ogni onore ha lasciato il corpo.
Mi appellavi
come schiava, assassino,
ma neppure mentre da ombra mi libro fra queste campagne assolate
dirò che un padrone
m’ha posseduta. Nacqui libera e libero fu il mio spirito fra
le mura della tua
maledetta domus.
1670
In quale modo ti
ho
arrecato offesa, fratello mio? La mia manchevolezza è stata
tanto imperdonabile?
Lo giuro, mi
voleva
sposare, mi avrebbe sposato. E io l’amavo e l’amo
ancora e l’amerò anche quando
la mia carne si disferà sul fondo gelido e melmoso del lago.
Perché
l’hai fatto,
fratello mio? Davvero quel che la gente del borgo avrebbe cianciato
valeva più
degli occhi miei ridenti e d’un sogno di primavera? Davvero
la mia è stata una
inemendabile colpa da punire in siffatta maniera?
Non ti
aggradava, dolce, la
chimera di un nipote, di un infante dal riso argentino che un giorno ti
avrebbe
chiamato “zio”? Hai ucciso lui insieme a me, mentre
ancora radicava piano piano
nel mio ventre.
Possa il Diavolo
avere
pietà della tua anima, quando gli dovrai rispondere del tuo
crimine fatale.
2012
Sono tempi bui,
dicono. C’è
la crisi, dicono. La crisi di tutto: dell’economia come dei
buoni sentimenti.
Sono tempi di
rabbia, di
zuffa, di disperazione. Sono tempi in cui se stavi male prima, stai
peggio
adesso.
Ma non
è una
giustificazione. Succede che le bestie strisciano fuori dalla tana e
impazzano,
impazzano, impazzano per le strade. E non capirò mai,
nemmeno durante tutto il
tempo bianco che ora mi si è spianato davanti, dove sta il
piacere in un atto
così ignobile. Quale perversa natura sibila
all’orecchio di un uomo “Prendila,
è tua”? E quanto nera può essere
l’anima di chi prevarica le suppliche, le
lacrime, il tremore di una donna che va in pezzi fra le mani sporche,
bastarde,
di uno sporco bastardo? Mi hai stretto le dita attorno al collo, dopo,
mentre
ancora la voce era rotta dai singhiozzi e rotta era una costola e rotta
era la
mia mente.
Hai scelto
proprio me, a
caso fra le passanti. Sono la prima? Sarò
l’ultima? Un giorno arriverà il turno
della signora in verde con quel bel rossetto? Spero che ti stracci a
metà l’ira
di altri uomini, prima che tu tolga amore e respiro a un altro grembo
innocente.
Non ero
proprietà di
nessuno se non del mio futuro. Filavo dritta lungo il mio cammino,
tornavo a
casa, gambe stanche. Oggi sono stata ammazzata, due volte.