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Autore: Mary_Sue    24/09/2007    9 recensioni
Alla fine del suo turno di pattuglia di Hogsmeade, il giorno della Vigilia di Natale, Tonks decide di rintanarsi ai Tre Manici Di Scopa per riflettere su un certo Lui che la sta facendo impazzire, e stare un po' da sola.
Ovviamente, però, non troppo sola.
[RemusTonks] NO SPOILER
Genere: Romantico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nimphadora Tonks, Remus Lupin | Coppie: Remus/Ninfadora
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Un calcio secco assestato ad un sasso innocente ed un sospiro stanco. Miriadi di fiocchi di neve sgorgano dal cielo per venire a ricoprire queste strade vuote, cullando i miei passi in questa grigia mattina di Dicembre al tramonto. È quasi Natale, da qualche parte, e lo si respira un po’ ovunque. Si sente l’atmosfera un po’ più calda e serena, o forse sono solo io a volerla sentire, a percepirla ogni volta che i miei occhi si posano su un abete agghindato a festa o su una vetrina colma di pacchi e regali.
È lo spirito natalizio che aleggia per il mondo e per un po’ spazza via le preoccupazioni e rasserena anche gli animi più tormentati. Si avverte, in giro, che l’atmosfera è diversa.

Da qualche parte, dicevo. Non qui, di certo. Non dentro di me.

Un gelido vento invernale mi alita sul visto. Sistemo la sciarpa un po’ più stretta attorno al collo e penso che potrei star bruciando su un rogo, ma questo freddo che ho addosso non se ne andrebbe comunque. Ed ora è scontata l’associazione tra calore ed un paio di braccia amiche che ti stringano fino a toglierti il respiro, la sensazione di essere qualcosa di inestimabile valore tra le mani di un intenditore. Non credo di ricordare cosa significhi una cosa simile. Anzi, penso di non averlo mai saputo.

Sollevo lo sguardo. Hogwarts incombe su di me, oscura e nera e triste come non avrei mai saputo ricordarmela.
Quasi rivedo me stessa riflessa sulle sue mura nel grigiore cupo di questa sera, un ricordo sbiadito che vive per inerzia e si trascina in là nel tempo, pacata, passiva, e aspetta. Cosa io stia aspettando, non lo so, o piuttosto non lo voglio sapere. Preferisco lasciare che le aspettative scivolino in qualche angolo buio della mia mente e lì restino fino all’oblio. Piuttosto squallido, probabilmente, come tentativo di dimenticare. Sarà perché non ci vorrei pensare, ma di dimenticare proprio non ne voglio sapere.
Perché ci sono la neve e il vento a mordermi la pelle, ma i miei brividi non sanno di freddo, quanto piuttosto di sconforto, di disperazione, di rassegnazione. La gente sente freddo, quando la fine è vicina, quando il sangue abbandona il corpo e tutto ciò che resta è un cuore che batterà ancora per poco. Forse sto morendo. Forse invece sono solo troppo occupata a crogiolarmi in questo mio piangermi addosso per capire che in realtà sono già morta da tempo, e nessuno, nemmeno io, ancora se n’è reso conto.

Del resto, con un maestro di autocommiserazione come il mio ci sarebbero volumi interi da scrivere, pagine e pagine e pagine da riempire sul come essere soli e restarlo ad oltranza, fino a che ogni fibra di umanità si logora e consuma in un inesorabile crescendo di amarezza.

Scommetto che lui ci ha pensato spesso, a questa cosa.

A come fare in modo che le persone restassero lontane da lui e dai metri di filo spinato che si è costruito intorno. Quasi lo vedo il suo sorriso stanco e tirato, mentre si rifiuta di guardarmi negli occhi e se ne va, voltandomi le spalle sussurrando un contrito ‘Un giorno capirai’.

Se lui fosse qui, se mi stesse guardando, batterei i piedi per terra come una bambina viziata e gli griderei contro, gli urlerei qualcosa di molto pungente e forse anche un po’ maleducato, e poi me ne andrei.

O forse no.

Forse mi getterei semplicemente ai suoi piedi e lo supplicherei di essere meno martire e più uomo incurante.
Per una volta, almeno, vorrei vederlo essere egoista, pensare a sé prima che agli altri, ma ormai lo conosco, questo suo altruismo esasperato è una pecca che non si laverà mai di dosso.
Lancio uno sguardo obliquo all’orologio che fa bella mostra di sé accanto all’Ufficio Postale. Niente gufi a volare avanti e indietro, niente viavai di regali e lettere e biglietti d’auguri, niente solito trambusto delle feste. Non un’anima viva, sottoscritta esclusa, sembra abitare Hogsmeade allo scoccare delle sei di sera.

In mio turno di pattuglia della Vigilia si conclude così, mentre impreco contro un uomo che in realtà meriterebbe tutt’altro trattamento e me ne vado a testa china verso I Tre Manici Di Scopa, ansiosa ma non troppo di far riacquistare sensibilità alle mie dita congelate.

Buffo, credevo che il dolore fisico aiutasse ad alleviare quello interiore. Non che io sia mai stata particolarmente esperta di autolesionismo – tutt’altro – ma ultimamente credo di aver sviluppato una certa attitudine per questo genere di cose.

Mi sfugge una breve risata sommessa tra me e me, la mente attraversata dal pensiero di quel che ne direbbe lui di un mio eventuale crollo definitivo. Se ne uscirebbe con qualcuna delle sue grandi frasi da saggio che in realtà non vogliono dire nulla se non ‘Devo tenerti lontana, perché se mi scotto con te è la fine’.

E lui, nel frattempo, mi brucia.

Spingo la porta del locale. Uno sbuffo d’aria calda mi viene incontro mentre entro e mi scrollo di dosso strati su strati di neve e frustrazione. C’è odore d’idromele alla cannella e caffé fresco, qui dentro, e per un attimo è come se io fossi tornata a cinque anni fa, il mio ultimo Natale a Hogwarts. Rivedo me stessa in un angolo appartato intenta a lasciarmi baciare dal Portiere della squadra di Grifondoro, mentre lui mi accarezza una coscia e mi sussurra che mi ama. All’epoca la scena mi era parsa estremamente romantica, la storia più seria che la mia adolescenza abbia visto.

Non so se riderne o piangerne, ora.

Mi strappo di dosso sciarpa e cappotto come mi stessero soffocando, li butto in un angolo della panca del tavolo più isolato che trovo e mi accascio lì accanto. La folla, tutt’intorno, sembra non vedermi nemmeno.

Poco male, comunque. Ci sono abituata ultimamente.

Fuori sta facendo sempre più buio, come se la notte cercasse di inghiottire il villaggio una volta per tutte.
I camini sono accesi e vivaci, molte candele decorano i tavoli, e senz’altro la Burrobirra sta già riscaldando molti, qui dentro. Io ho sempre freddo.

Mi scelgo qualcosa di forte da bere come se si trattasse della mia bara. Quasi vorrei annegarci in questo maledetto whisky, infilarci la testa e lasciare che ogni briciola di senno rimastami si sciogliesse come la neve tra i miei capelli, perdendosi tra alcol e bollicine e pensieri incoerenti di cose mai nate.

Se lui fosse qui probabilmente solleverebbe un sopracciglio con fare dubbioso, mi si siederebbe accanto senza però violare la distanza di sicurezza di rigore, mi rivolgerebbe uno di quei suoi sguardi a metà strada tra il severo e il paziente, e poi un sorriso, il suo sorriso, quel disumano concentrato di tenerezza che tu vorresti solo stare a guardare per ore, e non te ne stancheresti mai. E dunque il sorriso, e poi un velo di disappunto.

Non dovresti bere, Ninfadora.

Il mio nome, sempre lì, sempre sulle sue labbra, pronunciato come se fosse qualcosa di speciale, e per quanto io lo detesti, quel maledetto nome, la sua voce sembra sempre trasformarlo, o forse è solo il fatto che mi lascio sempre smarrire nei suoi occhi di ambra e di miele. A volte ci sono sfumature più grigie nelle sue occhiate fugaci, altre più rosse, altre ancora più blu.

Amo i suoi occhi perché raccontano tutta la sua storia. Ho imparato a leggere le sue cicatrici come passi del diario di un naufrago, prigioniero di una condizione imposta ed immeritata, vittima del fato, ogni giorno più debole e sconfortato, perennemente con la sensazione di stare in bilico sull’orlo di un baratro.
Le ho sentite raccontate da lui tutte le sue storie, e altre me ne hanno raccontate i suoi silenzi. Volente o nolente, gli vedo attraverso come una parete di cristallo, la sua anima nitida e chiara e straziata, lacerata a brandelli.
Magari è perché si sente nudo davanti a me che cerca di evitare la mia compagnia, o magari semplicemente perché è più semplice vivere senza una stupida ragazzina che pare quasi un cucciolo dalla cieca fedeltà e fiducia che gli dimostra.

Eppure mi ha cercata, in qualche vacua notte senza sonno, è venuto da me e mi ha presa per mano. Ha detto il mio nome, e poi un sospiro, l’incertezza a vibrare nella sua voce e i suoi occhi eternamente abbassati altrove, mai suoi miei, mai a guardare in faccia la verità, perché va bene giocare col fuoco, ma prenderne atto pubblicamente… Oh, questo mai.

Ho sognato case accoglienti e serate in famiglia, alberi di Natale e regali tutt’attorno. Ho sognato gite in campagna e picnic su un prato, un gatto sulle ginocchia aspettandolo rientrare. Ho sognato baci dal sapore di promesse e veli bianchi e un bambino da aspettare. E lui, sempre lui, il centro di tutto.

Sorseggio il mio whisky sprofondata dell’imbottitura nuova di zecca della lunga panca, mezza sdraiata e deliberatamente scomposta. Non è da ragazza perbene, direbbe Molly, ma al diavolo Molly e l’etichetta. Io non sono una ragazza perbene e dubito lo sarò mai.

Un altro sorso e il mio naso si storce. Nemmeno mi piace, il whisky.

Il fatto è che puoi passare la vita ad immaginare come sarà il vero amore, a fare piani e progetti, a buttare giù liste di desideri e idee in grande per una di quelle relazioni che esistono solo nei libri o nemmeno, ma alla fine quando sai di aver incontrato la persona giusta vorresti solo essere degnata della poca attenzione che chiedi e senti di meritare, perché non importa cosa succederà poi, tutto ciò che t’importa è sapere di poter contare su un qualunque punto di partenza, il minimo accenno che qualche concreta possibilità di un Noi esista.

A conti fatti, suppongo di aver costruito castelli in aria per mesi, eppure ci sono basi concrete dietro tutto questo congetturare di se e forse, e non sono al sola a vederle. Immagino che essermi ingenuamente innamorata di un uomo così tormentato abbia contribuito alla drammaticità dell’intera vicenda, e poi che importa se lui ha un impressionante talento nel negare l’evidenza e rigirare le carte in tavola a propria discrezione e comodità?

Le cose non sono semplici come sembrano a te, Ninfadora.

E il mio nome, ancora, e ancora. La sento quasi come un’ossessione che monta in me. A volte ho pensato che lo facesse nella speranza di irritarmi e far sì che mi allontanassi da lui. Ora so che si tratta di tutt’altro.
Ninfadora è un nome impegnativo, complicato, ma a lui sembra non importare quanto importi a me. È la solita vecchia storia del bue che da del cornuto all’asino, di lui che si prodiga in prediche su quanto sia misera la sua vita e io che replico ai limiti dell’esasperazione che tutto sarebbe diverso, se solo desse alle un’occasione di cambiare.

E quindi un altro po’ di whisky giù per la gola che già mi brucia, tentando di seppellire scheletri vecchi e nuovi in meandri dimenticati della memoria.
Ma non è così che funziona, e io davvero vorrei fosse così facile, ma lui non è un frammento come tanti che posso spazzare via con una sbornia come si deve ed una notte di rimorso micidiale. Lui è diverso da tutti gli altri, da qualunque volto anonimo io mi sia mai ritrovata a baciare. Lui ha un cuore, dietro a quel volto, e davvero mi chiedo perché sembra non curarsi affatto di tutte le volte che ha spezzato il mio.

E non l’ho mai nemmeno baciato.

Risate e chiacchiere e felicitazioni di buone feste echeggiano irriducibili tra un tavolo e l’altro, persone di ogni età che si scambiano auguri con lo stesso gusto e gioia con cui un bambino scambierebbe figurine di Cioccorane.
Nel buco che mi ritrovo alla sinistra del petto si riversa un’amarezza mortificante che nulla ha a che spartire con il mio essere sola il giorno della Vigilia di Natale.

Svuoto mezzo bicchiere in un sorso davanti allo sguardo esterrefatto di qualche coppietta di passaggio, e lo so – lo so, maledizione! – che sembro un relitto abbandonato a sé stesso, ma non mi potrebbe importare di meno. Non ora, comunque.

Ritengo di dover essere una visione particolarmente desolante, buttata qui come una bambola rovinata e dimenticata, e so di stonare in modo piuttosto vistoso con tutti questi colori e luci, vestita di nero da capo a piedi, i capelli ridotti ad una floscia cascata di un castano spento e piatto. Non posso vedere i miei occhi, ma non è complicato indovinarli. Un grigio smorto, opaco, privo di lucidità di qualunque sorta, le palpebre appena abbassate e le sopracciglia lievemente corrugate, e non ho ancora capito se sono arrabbiata o delusa o semplicemente tremendamente confusa.

Non che mi aspettassi alcunché, in ogni caso.

Ho deliberatamente declinato l’invito di Molly a cena per stasera perché sapevo che altrimenti sarebbe stato lui a farlo, e senza dubbio ha più bisogno di me di una sana serata in compagnia di persone che gli vogliono bene. Avrei solo voluto augurargli un Buon Natale, essergli vicina, se non altro per stavolta.

Mi appoggio il volto tra le mani e sospiro, incapace di cogliere l’esatta natura dei miei sentimenti. So di essere furiosa, perché ho tutto il diritto di esserlo, e so anche che c’è un pizzico di orgoglio ferito, da qualche parte sotto il compianto. Leccherò le ferite una volta a casa, però, adesso vorrei davvero soltanto fare finta di niente.

Qualcuno mi si siede accanto, vicino ma non abbastanza da sfiorarmi, e il mio istinto è di sbottare qualcosa di particolarmente sgarbato ed invitare lo scocciatore ad andarsene, perché mi conosco, e un mio morso, oggi, sarebbe letale.
Resto con il viso tra le mani e nemmeno mi prendo il disturbo di guardare chi sia, ma vedo una mano che si allunga verso il mio drink e lo sottrae da sotto il mio naso.

Improvvisamente tutto il mio veleno è scomparso.

C’è una sola persona abbastanza folle da fare una cosa del genere, l’unica persona che abbia la matematica certezza che tutto potrei fare, tranne prendermela con lui.
Il bicchiere ritorna vuoto sul tavolo davanti a me, e quando io sollevo finalmente lo sguardo so cosa mi aspetta.

Il suo sorriso.

E vedo la comprensione, la compassione, la voglia malcelata e mal combattuta di compagnia – la mia compagnia – e glielo si legge in faccia che sta pensando che non dovrebbe affatto essere qui, ma come minimo a miglia di distanza. E ciononostante è meravigliosamente evidente che non vorrebbe proprio essere altrove.

“Ciao.”

C’è una specie di tocco magico nel suo modo di salutare. Sembra sempre che sia la gioia più grande del mondo, per lui, vederti. Qualche volta, in qualche istante di disperato narcisismo, ho pensato che fosse una cosa solo mia, solo per me, un suo modo di dirmi che sotto sotto anche lui avrebbe voglia di dire “Al diavolo il lupo mannaro!”.

Temo non lo saprò mai.

“Ciao.”

Non so con quale volontà io stia rispondendo, non so cos’abbia guidato le mie labbra, perché so per certo che il mio cervello ha smesso di funzionare da pochi secondi a questa parte, e proprio non saprei dire se e quando tornerà in funzione.

Ma lui sorride, e non sembra importargli, e dunque non vedo perché dovrebbe importare a me.

“Molly mi aveva detto che saresti stata dalla tua famiglia, stasera.” Dice tranquillo, come se avessimo appena passato ore a parlare del più e del meno ed ora volesse semplicemente cambiare discorso.

“È quello che le ho detto, sì.”

Come da manuale, lui inarca un sopracciglio, un’espressione sorniona e un po’ saputa che si va dipingendo sul viso.

“Mi perdonerai se non noto la connessione tra la casa dei tuoi e I Tre Manici Di Scopa.” Risponde sornione, leccandosi appena le labbra screpolate, e non posso fare a meno di pensare che oltre al sapore dolciastro del whisky c’è anche un po’ di me che sta assaggiando.

Vorrei buttargli le braccia al collo e respirarlo per un momento, un attimo soltanto, ma sono consapevole del fatto che non sarebbe proprio l’approccio migliore per convincerlo a restare. Anche se è venuto per restare, e io lo so.

“Perché non sei dai Weasley?” domando distrattamente, fingendo la massima noncuranza quando invece sto pregando con tutta me stesse che risponda che gli mancavo.

Ma lui non abbocca. Lui è serio, composto, contegnoso, anche se lo vedo quel sogghigno beffardo e vagamente triste che lotta per incurvargli la bocca almeno un po’.

“Tu non c’eri.”

E non è sorprendente la bellezza delle cose inaspettate, anche quando sono secoli che ci speri?

Capisco che lui avverte l’imminenza della mia domanda, adesso, perché siamo al punto cruciale, ed è stato lui a condurre la conversazione fin qui. Ne era cosciente, devo desumere, sa cosa sto per chiedere.
Mi schiarisco la gola, perché se è vero che con lui sono sempre stata a mio agi, è vero anche che, volendo, è capacissimo di mettermi a disagio. Non che io lo sia, per ora, ma questioni delicate come questa non si trattano con leggerezza.

“No, non c’ero, certo che non c’ero,” replico con tutta la calma che riesco a mettere insieme. “Dove sono io non sei tu, e volevo che tu ti godessi un cenone come si deve, per una volta.”

Pausa di silenzio. Tachicardia a mille per via dei milioni di risposte che ora potrebbe darmi. So che sta scegliendo accuratamente qualcosa di estremamente diplomatico, qualche espressione di circostanza assolutamente non compromettente che possa soddisfare me e al tempo stesso tutelare lui da eventuali accuse di mancanza di tatto o simili. So per certo che Molly gliene ha avanzate parecchie, di recente.
Lui si sporge in avanti un istante, poi si ritrae, come ripensandoci. La distanza di sicurezza, giusto.

“Credevi davvero che fosse una questione di Tonks o non Tonks? Che la mia presenza fosse inversamente dipendente dalla tua?”

Pare sorpreso. Come se fosse un gran mistero per tutti che da un po’ di tempo a questa parte lui si comporti come se io fossi la sua nemesi.

“No,” Mento spudoratamente, e fa niente se quello che sto dicendo non se lo berrà mai e poi mai. “Ma tanto valeva tentare.”

So di non poterlo ingannare, ma tanto vale giocare tutte le carte possibili. Scrollo appena le spalle e tento di incontrare il suo sguardo, ma ci deve essere qualche segreto prezioso nei suoi occhi che non vuole che io scopra, e allora si guarda le mani e se le contorce l’un l’altra. Prima o poi gli dirò quando irritante sia la sua incapacità di abbandonare ogni suo muro di difesa, in mia presenza. Ma forse mi ritiene così meschina da ferirlo a cuore aperto, e allora potrei capire le sue titubanze, ma, diamine, se è veramente questo il suo problema, ha bisogno di un urgente viaggetto sulla terra.

“Se non sono indiscreto,” riprende. “Che cosa contavi di fare dopo due o tre whisky?”

Butta un’occhiata di ironico sprezzo al bicchiere da lui stesso vuotato e aspetta una mia replica. Sarei tentata di dirgli che stavo per andare a casa e tagliarmi una vena o due, ma poi so come reagirebbe.
Modalità uomo maturo e con la testa sulle spalle che deve tutelare la sanità psicologica della sua giovane amica. Possibilmente senza ulteriori complicazioni.
Mi regalerebbe uno di quei sui mezzi sorrisi saputi e mesti, carichi di malinconia e rassegnazione, e scuoterebbe il capo con fare indulgente, borbottando qualcosa di sciocco e borioso come ‘Non mi aspetto che tu comprenda’.
Ma tanto forse lo dirà comunque. Gli piace molto sentirsi nella parte del giusto, di quello che ha ragione ma che nessuno può capire.

Eppure lo amo per questo, e immagino di essermela andata anche a cercare, in un certo senso. Penso sia il fascino dell’angelo maledetto.

“Sarei venuta ubriaca fradicia alla Tana ed avrei spiazzato tutti quanti dichiarandoti pubblicamente il mio amore eterno, facendoti tra l’altro fare la figura del bastardo che se ne infischia altamente.” Azzardo un’occhiata obliqua furtiva. “Il che probabilmente avrebbe segnato la dissoluzione definitiva di ogni ombra di speranza che io abbia mai avuto con te, ma se non altro mi sarei tolta un gran bel peso.”

“Ninfadora…”

Ed eccolo di nuovo, appena sussurrato, un tono stanco e quasi stremato, debole nel suo vano tentativo di suonare come minimo decisivo. Ne ha piene le tasche di me e dei miei piagnistei, delle miei continue allusioni a noi due e a tutto quello che potrebbe essere. Non ne può più, però spero non abbia scelto stasera per dirmelo in faccia.

Attendo impaziente che dica qualcos’altro, qualcosa che possibilmente non includa l’istantanea distruzione di quel che resta del mio cuore, e che magari ci metta anche una buona dose di sensibilità, stavolta.

Lui invece sceglie di sorprendermi. Dopo un’eternità o due di silenzio – o forse una manciata di secondi, non saprei – solleva la testa ed i suoi occhi si fissano nei miei.

Un brivido intenso e stranamente caldo mi scorre lungo tutta la schiena e mi chiedo se l’improvviso calore che mi sento sul viso possa veramente avere qualcosa a che fare con l’arrossire.

I suoi occhi sono più belli di quanto li ricordassi, o forse è solo il fatto che ci sia una luce diversa, qui dentro. Sembrano più vivi, più luminosi del solito.
La Metamorfomagus sono io, qui, e so che è tecnicamente impossibile che delle iridi mutino spontaneamente, ma tant’è.

“I tuoi occhi…” mormoro sconcertata.

Lui, ovviamente, sorride ed inclina di un poco la testa.

“Che cos’hanno?”

“Sono – sembrano diversi,” dico, senza ben sapere che cosa io in realtà veda di diverso. È più una sensazione a pelle che un fenomeno osservabile. “Perché mi sembrano più limpidi del solito?”

Noto che il suo sorriso diventa un po’ più marcato. Si sporge in avanti di nuovo, mi viene più vicino, anche se di poco, e questa volta non si ritrae.

“Stanno guardando te.”

Che si tratti delle sue effettive parole o di uno scherzo di pessimo gusto della mia immaginazione, questi tre suoni giungono chiari ed inconfondibili alle mie incredule orecchie. È valsa la pena di aver vissuto finora per poter essere testimone di questo evento.

Oggi, 24 Dicembre 2006, Remus John Lupin ha apparentemente detto qualcosa di romantico a me, Ninfadora Alhena Tonks. Se sto sognando, ve ne supplico, datemi almeno qualche altro minuto.

“Tu non hai appena detto quello che io credo tu abbia detto, vero?”

Domanda idiota, ma necessaria. Non sono nelle condizioni di credere a niente.
Lui si sofferma un po’ a ponderare le parole, calibrando gesti ed espressioni, ma i suoi occhi non lasciano i miei, e questo, nel suo linguaggio, significa molto.

Tutto, forse.

Appoggia un gomito allo schienale della panca, si sfrega gli occhi con una mano, poi serra le labbra tra loro ed emette un lungo sospiro.
Qualunque cosa stia per dire, gli costa ogni minimo briciolo di raziocinio che ha in corpo.

“E se restassimo qui?”

Giuro, mi sento interdetta. Non riesco a capire se è lui che parla o il whisky. Ma era solo mezzo bicchiere.

“Qui qui?”

Un cenno di assenso del capo, il sorriso che sembra sbiadire davanti alla mia esitazione.

“Qui, esattamente dove siamo ora, soltanto io e te. E magari una bella cioccolata calda.”

Mi sfugge una risatina divertita. Lui non sembra prendersela, anche perché sa a cosa è dovuta.

“Siete articoli non vendibili separatamente, tu e il cioccolato, vero?”

“Assolutamente.” Mi strizza un occhio e si toglie il cappotto. Solo ora mi accorgo che era ancora tutto imbacuccato.

Ha appena deciso per entrambi che la notte di Natale noi due la trascorreremo qui. A me sta bene. Decisamente.

“Natale a Hogsmeade,” rifletto tra me e me, a voce alta. “Questa ancora mi mancava.”

Resto a fissarlo per un momento, poi vengo colta da una specie di raptus, il timore improvviso che lui cambi idea e se ne vada. Infilo in fretta la mano in tasca del mio cappotto e ne estraggo un pacchettino argentato con un fiocchetto blu in cima. Glielo porgo senza troppe cerimonie, già prevedendo il tipo di reazione che lui sta per avere.
Guarda il piccolo dono stranito, neanche avessi in mano un uovo di Pasqua, poi guarda me, smarrito.

“È – è per me?”

Sembra troppo stupito per crederci. Io annuisco e lo spingo verso di lui, invitandolo a prenderlo.

“Ma io non ho niente per te…” protesta, trasudando rammarico e costernazione da ogni sillaba. È sinceramente in imbarazzo, e la trovo una cosa dorabile.

“Ma sì, invece,” vedendolo ancora incerto, gli pendo la mano e lo costringo letteralmente a prendere il mio piccolo pensiero. “Credevo che non sarei riuscita a dartelo, ma sei venuto fin qui, solo per me,” Sorrido anch’io, adesso, e con entusiasmo. “Il mio regalo sei tu.”

Lui fissa il pacchettino nella propria mano, a quanto pare troppo sbalordito per emettere un suono. Va bene così, ho già avuto molto più di quanto avessi osato sperare.

“Buon Natale, Remus Lupin.” Sussurro timidamente, allungandomi verso di lui sotto il vischio che pende sopra di noi. Gli lascio un bacio lieve sulla guancia ruvida e poi e faccio per ritornare al di là della linea di confine tra il mio mondo e il suo. Chissà se un giorno cesserà di esistere, questa stupida linea.

Lui però mi blocca. La sua mano afferra la mia e mi trattiene vicina a lui. Dura un istante, troppo poco perché io possa anche solo fare mente locale del come, ma da un momento all’altro le sue labbra mi sfiorano la fronte, e sono calde e morbide, nonostante tutto. Poi, di punto in bianco, io sono di nuovo al mio posto, e lui al suo, nelle due metà di universo segnate dalla linea. Le nostre mani, però, indugiano ancora sul confine, unite.

Lui sta sorridendo. È una fotografia che mi porterò sempre impressa dentro, da ora in poi, perché so che domani si sarà già pentito di tutto questo, ed entro l’alba sarà già ritornato il fuggiasco di sempre.

Ma non ha importanza, io sarò lì ad aspettarlo quando sarà stanco di mentire a sé stesso e sprecare energia per negare qualcosa che è in ogni caso più forte di lui.

Lo aspetterò, perché tanto so che presto o tardi arriverà. Se si tratta di lui, potrei anche aspettare in eterno.

“Buon Natale, Ninfadora Tonks.”
  
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