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Autore: ex aequo    09/03/2013    3 recensioni
Dalla storia: ''Era lui. E la ragazza sentì di nuovo il cuore mancare qualche battito, per poi recuperarlo velocemente l'istante dopo. Non desiderava tanto ritrovare i suoi occhi? Non lo cercava forse fra la gente, solo pochi istanti prima? Eppure ora pregava di poter evaporare e fluttuare via, in una massa trasparente che nessuno avrebbe notato.''
Genere: Fluff, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Zayn Malik
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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«Misha, non voglio venire»

«Perché?»

«Perché ci sarà lui», le rispose semplicemente. Pochi istanti di silenzio, la sentì sospirare dall'altra parte dell'apparecchio.

«Per favore, non voglio andarci da sola... E poi gli dirò di starti alla larga»

«Sai che non lo farà» sentenziò a bassa voce, lo sguardo vacuo puntato fuori dalla finestra.

«Beh, io lo terrò sott'occhio».

Lasciò lavorare il cervello per qualche istante. Lui sarebbe stato sempre a distanza ravvicinata, ne era certa; ma Misha era un osso duro, e quando diceva una cosa, di solito, la faceva. Prese un bel respiro, poi un altro, e un altro ancora. Infine si lasciò andare con il viso fra i cuscini, sospirando.

«Bene, verrò» confermò mentre dal ricevitore le arrivò un urlo felice, abbastanza felice da poter spaccare i timpani.

«Passa qui da casa, e sbrigati. Sai che odio arrivare in ritardo.»

«..Okay»

«Allora a dopo!» squittì l'amica, felice.

«Come dici tu».

Riattaccò, lanciando il telefono ai piedi del letto. Stava tremando.

Le mani che non stavano ferme, un formicolio lungo la schiena. Sì, erano decisamente brividi. Passò lentamente le dita sottili sul viso, per poi farle scivolare giù fino al collo, e in seguito dietro la nuca. Ormai aveva detto di sì, doveva andarci per forza.

«Facciamo questa cosa» si disse alzandosi dal letto, più lentamente possibile. Strisciò i piedi fino a trovarsi di fronte allo specchio, appeso dietro la porta chiusa. Avvicinò il viso tanto da notare chiaramente i solchi scuri sotto agli occhi leggermente arrossati. Decise di non soffermarsi troppo sul suo aspetto, quindi infilò lentamente i suoi stivaletti di cuoio, forse i più malridotti che aveva, per poi sfilare da un cassettone un maglione un po' consunto, che indossò velocemente per sottrarre la pelle nuda dal freddo penetrato da qualche spiffero della finestra.

«Ma', sto uscendo con Misha» urlò trottando svogliatamente giù dalle scale, l'orecchio teso. Dopo qualche istante di attesa il grido di conferma della madre la raggiunse, quindi aprì la porta e si ritrovò al gelo. Percorse a passo svelto il vialetto, girò a destra, dritto verso la casa in fondo alla via. Si fermò solo quando fu nel giardino di casa Brooks, dove si lasciò andare sul prato scricchiolante di brina. Guardò il cielo, sopprimendo qualche brivido, in attesa di Misha.

Non stava lì sdraiata su quell'erba ormai da troppo tempo, e si concesse qualche minuto di riflessione, ricordando i pomeriggi passati insieme, sdraiate così, a pancia in su, a guardare le nuvole e le loro forme strane.

«Non muori di freddo?», la sua voce la raggiunse poco dopo lo scalpiccio dei suoi tacchi alti. Indossava un abitino blu zaffiro che la copriva fino alle cosce. Le gambe sembravano ancora più lunghe quando indossava i suoi tacchi a spillo. "I suoi trampoli", li chiamava Jess.

«Potrei farti la stessa domanda» sentenziò quest'ultima alzandosi da terra e lanciando uno sguardo critico al cappottino semi-primaverile in cui si stringeva l'amica, notevolmente scossa dai brividi di freddo. Misha la zittì, salendo in macchina, quindi la rossa non proferì più parola a riguardo.

«Vedo che non molli mai i tuoi abiti irrimediabilmente chic»

«Dici che dovrei? Non vorrei mai farti sentire a disagio con la mia formalità» sentenziò la ragazza, lo sguardo falsamente preoccupato. L'altra rise strattonando un po' la cintura di sicurezza, poi mise in moto e ingranò la marcia. Jess poggiò la testa contro il finestrino, il respiro caldo che appannava il vetro e la chioma riccia pressata delicatamente contro la guancia sinistra. Non voleva davvero andare, e la mora sembrò leggerla nel pensiero.

«Giuro che non sarà così male. Ci sarà un sacco di gente e.. E lui non si farà vedere, ne sono quasi certa»

«''Quasi'', Misha.»

L'amica sospirò, poggiandole una mano sul ginocchio, quindi lei si girò a guardarla svogliatamente. Era chiaro che si sentisse in colpa per averla praticamente trascinata a quella festa, ma Jess le sorrise comunque. Le voleva bene, e si sarebbe sentita in colpa ad averla lasciata andare da sola.

«Hei, va tutto bene. Prima di mezzanotte avrò buttato giù così tanta roba da dimenticarmi come ci si regge sulle gambe, non avrò tempo per farmi deprimere da lui».

Mentì, mentì così bene da riuscire a convincerla. Le riusciva così dannatamente bene da farsi paura da sola.

«Allora perfetto, non ci sarà da preoccuparsi», scoppiò a ridere l'altra, parcheggiando malamente. Arrivate. La casa era quella, o almeno così immaginò la rossa alzando un po' il collo dalla posizione scomposta di pochi istanti prima. Misha le aveva parlato spesso del suo nuovo amato, un irlandese trasferitosi lì dall'età di sette anni. ''E' così dolce'', ''E' così bello'', ''E' così bravo a letto''. Misha non aveva esitato a ripeterle sempre le stesse cose su di lui, e Jess non aveva intenzione di indagare su altro.

Semplicemente scese dalla macchina e si sbrigò a seguire l'amica, che nonostante i tacchi vertiginosi camminava a passo spedito. Arrivarono davanti l'ingresso e suonarono al campanello. La rossa distolse lo sguardo dalle travi del portico quando la porta si aprì velocemente. Si ritrovò di fronte un ragazzo poco più alto di lei, gli occhi color del mare calmo e i capelli biondi che andavano in tutte le direzioni.

«Ben arrivate!», rise stampando un bacio a Misha, e rivolgendo all'altra un sorriso a trentadue denti. «Tu devi essere Jess», le strinse la mano facendo entrare entrambe in casa, mentre un'ondata di calore le travolse.

«E tu devi essere Niall».

L'osservò per qualche secondo, analizzandolo. Aveva il viso arrossato ed estremamente gioioso, quel sorriso sempre lì, come se non fosse capace di levarselo dalla faccia. Il suo sguardo era sinceramente allegro e dolce, quindi la ragazza abbassò la guardia e si lasciò un po' andare.

Era come se gli avesse appena concesso la sua benedizione. ''Va bene, Misha è tua, sei un ragazzo apposto'', e lui sembrò capirlo.

«Fate come se foste a casa vostra! Siete in anticipo, ma gli altri arriveranno a momenti», disse sorridendo il biondo, attirando a sé la sua ragazza. Jess, sentendosi d'impiccio, si allontanò dai due, avventurandosi per la sala ampia e ben arredata. La prima tappa fu il camino, grande, in mattoni rustici, davanti al quale si piazzò, cercando di distrarsi dal risolino malizioso di Misha che ogni tanto le arrivava all'orecchio.

Avvicinò le mani abbastanza da sentire il calore delle fiamme scaldarle le dita arrossate per il freddo, il tepore che le sfiorava il viso asciutto e pallido. Rimase lì per qualche minuto, e quando fu sufficientemente accaldata continuò il suo tour per casa Horan. Quindi raggiunse la parete accanto, tappezzata di foto in bianco e nero circondate da belle cornici in legno scuro: Niall nella culla; Niall aggrappato al collo di un uomo, probabilmente il padre; Niall che giocava a calcio; Niall che rideva abbracciando quella donna che poteva essere la madre, sempre il solito sorriso allegro che non era cambiato di una virgola.

Il rumore del campanello la raggiunse lontano, seguito da voci estranee, saluti, risate. Gli invitati erano arrivati; allora staccò a malincuore lo sguardo dalle foto, dando le spalle alla parete, e osservò quelle facce sconosciute. Tre ragazze more fasciate in abitini succinti, un castano che cingeva i fianchi di una di loro con oscena possessività; una coppia di ragazzi entrò poco dopo, entrambi alti e ben piazzati, le casse di birra serrate fra le mani come fossero un tesoro inestimabile; una ragazza bassa e bionda entrò l'istante dopo, i capelli legati in uno chignon morbido e un vestito tutto svolazzi, e si avvicinò a salutare il padrone di casa, lo sguardo minaccioso di Misha puntato addosso. La rossa rise inconsapevolmente, immaginando come l'amica avrebbe fatto sentire a disagio quella povera ragazzina per il resto di tutta la serata. Rise di gusto per un minuto buono, poi intercettò lo sguardo di un nuovo arrivato, e sentì il cuore saltare qualche battito. Occhi color caramello, la pelle ambrata, esattamente come la ricordava, i capelli corvini scompigliati, il sorriso con la lingua pressata contro i denti. La ragazza voltò le spalle bruscamente e cercò una distrazione adeguata, quindi andò a passo moderatamente svelto verso un'immensa libreria che prima non aveva notato. Il sorriso le si era gelato in volto, e cercò di sostituirlo con un'espressione che, ad un occhio inesperto, sarebbe apparsa tranquilla.

''Tranquilla un cazzo'', si ritrovò a pensare, sfiorando con un dito il dorso dei libri, uno dietro l'altro in file ordinate, cercando di ignorare quei passi sempre più vicini. Riconobbe il suo profumo dolce misto a quello acre del fumo ancora prima che la sua voce la raggiungesse.

«Hei», lo sentì dire. Rimase in silenzio, fingendo di non aver sentito, sfilando un libro e sfogliandone le pagine, forse un po' troppo in fretta per sembrare davvero interessata al contenuto.

«Hei», ripeté lui, con la sua voce calma e profonda, e la ragazza non ebbe più scelta. Voltò lentamente il viso verso di lui, sussultando piano data la distanza ravvicinata. Lo osservò impassibile per qualche secondo, poi inclinò leggermente la testa di lato.

«Ciao, Zayn».

Il ragazzo deglutì, sentendola pronunciare il suo nome dopo tanto tempo. Gli era mancata la sua voce dolce, sottile, a volte non dissimile da un vero e proprio sussurro; gli era mancata tanto quanto a lei era mancato il tono basso e rilassato di lui, che infondeva calma.

Ma quello che la ragazza aveva addosso non era l'esatta definizione di ''calma''. Sentiva la morsa dei ricordi che la stringeva sempre di più, quindi tornò ad osservare il libro che aveva serrato fra le mani. Ricacciò indietro, cercando di non darlo a vedere, le lacrime che spingevano agli angoli degli occhi.

«Jess, io..», il moro venne interrotto dal suono sommesso del libro che veniva chiuso rapidamente, mentre lei riponeva il tomo sullo scaffale e sfrecciava dall'altra parte della stanza, lasciandolo lì, da solo, non uno sguardo. Ed ecco che, questa volta, lo sconforto assalì il ragazzo in modo incontrollato, così violento da fargli tremare le ginocchia, mentre il senso di colpa lo percosse selvaggiamente.

''Sei un cazzone'', la sua stessa voce gli rimbombò nella testa. «Lo so», si rispose piano.





 

«E' venuto da me» sibilò all'orecchio dell'amica, tenendola per il polso.

«Davvero? Dio, che faccia tosta... Che ha detto?»

«Niente. O almeno, non gliene ho dato il tempo».

Rabbrividì piano, la musica che rimbombava ormai da una decina di minuti nelle orecchie; scostò i ricci dal viso. Sentì che andare a quella festa fu uno sbaglio enorme, che sarebbe dovuta rimanere a casa a gustare una delle solite cene a base di niente che si riservava da tempo.

Avrebbe sentito i crampi della fame, ma non la sua voce bassa e sommessa.

Avrebbe desiderato un bel panino, non di poter scappare lontano mille miglia da tutto e da tutti.

Voltò le spalle a Misha, accorgendosi per la prima volta di un tavolo rotondo ricoperto di bottiglie, quindi lasciò l'amica senza una parola, e si diresse verso la prima bottiglia di birra ancora sigillata. Si fece spazio fra la gente e l'afferrò, per poi cercare un posto a sedere abbastanza lontano dal rumore, e lo trovò dopo pochi minuti di ricerca. Si trattava degli ultimi gradini a salire della scala che portava chissà dove al piano di sopra, e si accucciò lì, poggiando distrattamente le labbra alla bottiglia per sorseggiarne ogni tanto il contenuto. Deglutì con una smorfia: la birra nemmeno le piaceva. La finì tutta svogliatamente, abbandonando la bottiglia vuota nell'angolo del gradino, poi si diede alla perlustrazione dall'alto della festa: gli invitati erano raddoppiati da quando erano arrivate le tre more e i loro vestitini indecenti, e la stanza non sembrava più così ampia e spaziosa. La massa si muoveva a ritmo di musica, come un banco di sardine che seguono la corrente in sincronia; sorrise pensando al paragone, senza nemmeno accorgersi che, nella folla, non riusciva a trovare il suo viso. Senza accorgersi che qualcuno, da destra, si stava avvicinando pericolosamente.

Era lui. E la ragazza sentì di nuovo il cuore mancare qualche battito, per poi recuperarlo velocemente l'istante dopo. Non desiderava tanto ritrovare i suoi occhi? Non lo cercava forse fra la gente, solo pochi istanti prima? Eppure ora pregava di poter evaporare e fluttuare via, in una massa trasparente che nessuno avrebbe notato.

Ma non era né invisibile né tanto meno incorporea come gas, e se ne rese conto vedendo gli occhi di lui puntarsi esattamente contro i suoi. Quelli del moro color del grano contro quelli della rossa, cioccolato scuro. Oro contro ferro battuto. Luce contro oscurità.

«Jess», per la seconda volta in quella sera la sua voce bassa pronunciò il nome di lei, facendole mancare il fiato. La ragazza si alzò e con calma cominciò a salire i gradini, le lacrime che questa volta non esitarono a scendere giù. Ma lui la seguì velocemente su per le scale, mentre i ricci della rossa gli ondeggiavano davanti agli occhi, a pochi passi di distanza. Le si fermò di fronte, improvvisamente, e dovette frenare di colpo per non rovinarle addosso. Si girò di scatto a guardarlo, gli occhi appannati dalle lacrime.

«Cosa vuoi ancora da me?», urlò con la sua voce dolce incrinata dal dolore, le mani tremanti strette intorno alla nuca e il viso che fissava il pavimento. Si era fermata in mezzo al corridoio, porte chiuse di stanze sconosciute sia a destra che a sinistra. Lui la guardò serio, schiuse lentamente le labbra e le parole vennero fuori da sole.

«Fidati di me, ti prego».

 

«Vuoi stare un po' ferma?», sbuffa con un sorriso ampio sulle labbra, serrando le dita sulla sommità della mia testa. E' inginocchiato dietro di me, le dita intrecciate ai miei capelli, mentre io sto rannicchiata, le braccia intorno alle ginocchia, ridendo come una bambina. Lo guardo attraverso il riflesso dello specchietto che tengo in mano, è tutto concentrato nel completare la sua opera. Ha raccolto delle margherite e dei rametti flessibili, e ora li sta intrecciando insieme, formando una ghirlanda.

«Credo di aver finito», ride soddisfatto, poggiando la coroncina di fiori con delicatezza, lasciandola ricadere fra i miei capelli color del fuoco. Osservo silenziosa il mio riflesso, poi mi volto verso di lui.

«Come sto?»

«Sembri una principessa», si lascia andare sul prato accanto a me, le braccia incrociate dietro la testa e gli occhi luminosi puntati nei miei. E' uno dei nostri classici pomeriggi insieme, quando scappiamo da tutti nel bosco accanto la collina, nella radura dove gli alberi vanno scarseggiando, e ne usciamo non prima che il sole dia segno di tramontare e la brezza fresca della sera faccia comparire i primi brividi lungo la schiena.

«Sciocchezze, più che altro sembro un barboncino rosso» sospiro.

«A me piacciono i cani»

«Io preferisco i gatti».

Mi sdraio accanto a lui, sul fianco destro, le mani che giocherellano con la manica della sua maglietta. Lo osservo tranquillamente mentre sta disteso lì, gli occhi chiusi e il petto che si alza e si abbassa in modo regolare.''Sei bellissimo'', lo penso velocemente, quasi spaventata che in quel silenzio tranquillo possa sentire i miei pensieri. '' Sei bellissimo e voglio baciarti''.

«Jess»

«Sì?», sussurro con calma, il cuore che batte veloce. E' sempre così, quando lo sento pronunciare il mio nome. Detto da lui sembra quasi un incantesimo, una poesia antica. Si gira sul fianco in modo da guardarmi dritto negli occhi, e i nostri nasi quasi si sfiorano. Rimane in silenzio per ore, mesi, anni, non saprei dire quanto lunghi questi istanti di niente si propagano nell'aria.

«Posso baciarti, Jess?»

Questa volta rimango in silenzio io, pronta a vederlo scoppiare nella sua risata profonda, dicendo che è solo uno scherzo, e aspetto. Aspetto che lo dica, che rida davvero, che porti alla normalità tutto quanto. Ma non accenna a ridere, di sorridere sembra quasi non essere momentaneamente capace. E allora decido di parlare.

«Perché?» chiedo semplicemente.

«Perché mi piaci, mi piaci da morire, Jess. Mi piacciono i tuoi occhi da cerbiatto, la tua pelle bianca, i tuoi ricci rossi. Mi piacciono da morire le tue labbra e» s'interrompe per prendere fiato, abbassando lo sguardo sulle sue mani, strette intorno alle mie «e potrei impazzire, senza sapere che sapore hanno. Voglio averle, anche solo per ora, anche solo per un bacio. Posso baciarti, Jess?».

«E se poi te ne vai e mi si spezza il cuore?», ti prego, Jess, lo stai dicendo davvero? Bacialo e basta, brutta idiota, cosa t'importa?

«Semplicemente, devi fidarti».

''Se me lo dici così, Zayn, allora ti bacio. Ti bacio finché il sole non tramonta e le stelle fanno la loro comparsa, lontane''. Mi inginocchio e inclino velocemente il busto verso di lui, azzerando le distanze. ''L'hai detto tu, mi devo fidare. Io mi fido di te''.

Presso le labbra contro le sue, mentre mi cinge i fianchi con delicatezza, e pochi secondi dopo mi trovo a cavalcioni su di lui, solo qualche strato di vestiti separa la sua pelle ambrata dalla mia, bianca come la neve appena caduta. Lo bacio piano, come se avessi paura che possa scappar via, come se fosse un cerbiatto pronto a fuggire al primo rumore improvviso. Ma le sue mani mi cercano, le sento calde sui fianchi e poi su per la schiena, infine si intrecciano ai capelli, non lasciano la mia pelle nemmeno per un secondo, e lo stesso le sue labbra, che avvolgono le mie, bagnate dalla sua saliva dolce da far girare la testa. E allora lo sento, lo sento parlare senza staccare un attimo la bocca dalla mia.

«Ti amo», sembra dire, «Ti amo, fidati di me».

 

Rimase immobile, guardandolo con quegli occhi colmi di lacrime. Non credeva a quello che aveva appena sentito, semplicemente il suo cervello si rifiutava di accettare quelle parole.

Non poteva crederci, non dopo tutto quello che era successo.

Indietreggiò di qualche passo, aggiungendo distanza fra lei e il moro, e si ritrovò con la schiena che strisciava contro il muro fino a quando il pavimento, sotto di lei, non fermò quella discesa lenta. Abbandonò la testa sulle ginocchia, guardandolo di sbieco. Fece cenno di no con la testa, senza neanche sapere cosa stesse negando.

«Jess» chiamò per l'ennesima volta lui, stravolgendola ancora.

«Sei un bastardo»

«Lo so» sussurrò con la sua voce bassa. Fece qualche passo, poi le si inginocchiò di fronte, prendendole il viso fra le mani. E lei, lei pensava davvero che fosse un bastardo. Un vile bastardo che l'aveva illusa, amandola come lei desiderava per poi abbandonarla. Odiava il suo sguardo che ora le scrutava il viso, odiava le sue mani che le stringevano forte le guance pallide, asciugando le lacrime con le dita. Ma lo desiderava, Dio solo sapeva quanto. Le mancavano i suoi baci, le sue labbra che esploravano ogni centimetro della sua pelle chiara; le mancava correre sotto la pioggia stringendogli la mano, desiderava ancora sentire il suo profumo sul cuscino dopo una notte passata a fare l'amore.

«Mi manchi», lo disse con un filo di voce, sperando di non essere sentita. Ma lui la sentì, e venne percosso dai brividi. La prese per una mano e la sollevò da terra, e con delicatezza la attirò a sé, posando le labbra su quelle di lei, sottili e umide. Indietreggiò fino ad intercettare la prima porta alle sue spalle, e la spalancò entrando, per poi richiuderla con un tonfo sommesso, seguito dalla chiave che scattava nella toppa.

La ragazza spalancò gli occhi nel buio della stanza, cercando di orientarsi. Ma il corpo di lui diceva di seguirlo, e così fece. Seguì la sua rotta che puntava ad una zona illuminata da un fascio di luce lunare, che entrava fioco dalla tenda semichiusa della finestra. E in quel momento lo vide di nuovo, davvero, dopo tempo. Vide quegli occhi color caramello che la guardavano con desiderio, il desiderio che il moro era riuscito a riservare solo per lei. Quella passione bruciante che porta a fare cose stupide, cose comandate dal cuore e non dal cervello.

Jess si ritrovò a cercare i bottoni della camicia di lui, le dita che passavano velocemente su e giù per il petto, fino a quando non riuscì a sbottonarli tutti. E allora scoprì la sua carnagione ambrata e si beò di quella vista: la pelle liscia tirata sui muscoli appena accennati, in certi punti tatuata, in altri segnata da cicatrici. Posò le labbra sul petto di Zayn, lasciò che l'odore della sua pelle la invadesse.

Poi fu il turno del ragazzo. Sfilò con non troppa calma il maglione di lei, per poi gettarlo sul letto, e rimase a guardarla per qualche secondo. In seguito alzò lo sguardo, e inclinò la testa mentre la guardava triste.

«Perché?», Jess perse il conto di quante volte Malik ripeté quelle parole, mentre sfiorava quelle che sembravano piccole luci rosse sulla pelle color del latte. Seguivano la lunghezza degli avambracci, poi lungo i polsi, sui fianchi e le ànche che sporgevano pericolosamente; sembravano quasi scappar via dal corpo, così come tutte le altre ossa. Premevano contro la pelle tesa, verso l'esterno. Minacciavano di fuggir via, via da lei, via come se n'era andato lui, tempo prima. Ed ecco che le prese le braccia e le sfiorò con le labbra calde; cercò di curare quelle cicatrici, sperava di poter far rimarginare i segni del dolore che aveva lasciato, con un semplice bacio.

«Zayn» la voce flebile della rossa lo richiamò alla sua attenzione, sentendo le lacrime calde del ragazzo scivolarle lungo i polsi. «Zayn, baciami».

Rimase lì, fermo immobile, guardandola negli occhi. Temeva che, la richiesta della ragazza, fosse solo frutto della sua immaginazione. Ma lei tornò a parlare, con l'imperativo nella voce dolce.

«Zayn, ti ho detto di baciarmi. Baciami, fammi tua».

E allora non ci fu più alcuna esitazione. La bocca del ragazzo tornò a pressarsi contro quella di lei, la lingua si insinuò calda fra i denti, le accarezzò il palato, si unì a quella della ragazza, che intrecciò le dita ai capelli corvini di Zayn. La rossa si trovò, come troppo tempo prima, sul corpo caldo del moro, su quel letto sconosciuto, sempre meno strati a separare la loro pelle. Senza interrompere per più di qualche secondo il contatto delle labbra, Jess sfilò in fretta gli indumenti restanti, sentendo il desiderio di lui premerle contro il bacino. Puntò i fianchi magri contro quelli del ragazzo, cercando di alleviare la sua eccitazione, e Zayn si lasciò sfuggire un gemito. La rossa sorrise, pensando che dopo tutto quel tempo rimasta intoccata, era ancora capace di fare sesso, di far provare piacere. E quella consapevolezza accese più velocemente il suo desiderio. Slacciò la cintura del ragazzo con rapidità, e così fece con i jeans. A quel punto c'erano solo i boxer del moro a separarli, non più tanti strati fra i loro sessi; il ragazzo perse il controllo della respirazione, mentre le labbra di lei cominciarono a percorrere la sua pelle scura, lungo il petto, giù per l'addome, fermandosi ai fianchi, che morse piano. Giocherellò col tessuto elastico dei boxer, pressando di nuovo il bacino contro quello del ragazzo, che gemette di nuovo. Il moro sfilò quindi l'ultimo, fastidioso strato che li separava, e la ragazza sentì l'erezione di lui premerle calda contro la coscia sinistra. Si allungò verso le labbra del ragazzo, mordendole piano, poi si avvicinò all'orecchio, e Zayn rabbrividì sentendo il suo respiro caldo invaderlo.

«Ti amo», sussurrò con la sua voce dolce, il desiderio incontrollabile percepibile in ogni singola lettera. E allora lui ribaltò la situazione, questa volta era lui che si ritrovò su di lei. Questa volta, era lui a spingere i fianchi su quelli di lei, e velocemente entrò. Gli affondi erano lenti, la rossa gli morse una spalla, gemendo. «Così mi fai impazzire», strisciò le unghie affilate sulla schiena morbida di lui, mentre gli affondi divennero sempre più veloci, i gemiti sempre più forti; nessuno li avrebbe mai sentiti, nessuno avrebbe saputo.

E insieme a quel pensiero il piacere del ragazzo esplose, seguito dai suoi gemiti, la voce di Jess che chiamava il suo nome una, due, tante, infinite volte, la schiena inarcata al massimo, i muscoli rigidi. Affondò il viso nei ricci rossi di lei, prima di scivolare al suo fianco, il fiato corto e gli occhi chiusi. Rimasero in silenzio per qualche secondo, respirando entrambi affannosamente, poi la ragazza si issò sui gomiti, le ciocche ricce che solleticavano il petto di lui.

«Ti amo», gli sussurrò baciandolo ancora, questa volta dolcemente.

«Ti amo, e mi fido di te».

  
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